Gentili lettrici e lettori, salve.
Avviandomi alla stesura d’una rubrica nuova, tanto per quanto riguarda questo sito, tanto per quanto concerne la mia stessa esperienza, ritengo sia doveroso porre delle premesse.
In tutta onestà, dubito di potermi definire più di un discreto lettore di fumetti. Il mio interesse per questo genere letterario[1] non è né arcaico, né tantomeno profondo quanto quello di molti appassionati delle serie più variegate. Le mie modeste conoscenze esulano, perlopiù, dalla sfera dei comics supereroistici americani e dalle produzioni italiane e il mio apprezzamento per i manga giapponesi, per quanto notevole, ritengo difficilmente possa eguagliare quello di tutta una schiera di otaku, senza dubbio ben più preparata di me.
L’idea di stabilire un percorso unitario all’interno della mia umile recensione del mondo delle vignette illustrate, non solo mi sembra assai lontana da quello che penso sia lo spirito della letteratura a fumetti, ma credo finirebbe per fare letteralmente a cazzotti[2] con quello che di recente ho identificato come l’aspetto lunatico del mio carattere.
Col consenso della direzione, dunque, credo mi arrogherò il diritto di andare “là dove mi porta il vento” nelle varie stesure che ci vedranno affiancati, rispettivamente redattore e lettori. Che questo faccia di me una banderuola oppure un Jack Sparrow sbarbato (e decisamente meno aitante), lascio a voi il verdetto.
L’argomento di questo primo articolo, seguendo l’onda random che ho poc’anzi annunciato, è stato scelto per mero capriccio e dietro la sua presentazione frontale e immediata, non si nascondono motivi degni di nota o pertinenti a quelle che saranno le stesure successive.
Lasciate dunque che vi introduca, care lettrici e cari lettori, il manga Dorohedoro, di Q Hayashida.
Come una mangaka (ebbene sì, è con una lei che abbiamo a che fare: un occhio di riguardo signori!) possa chiamarsi Q, mi risulta nebuloso almeno quanto il titolo dell’opera, che le mia discreta conoscenza del giapponese[3] non ha saputo interpretare. Voglio sperare il primo sia uno pseudonimo. In quanto al secondo… mi affiderei, se possibile, all’aiuto di qualcuno notevolmente più otaku di me nella schiera del pubblico.
Sappiate tuttavia che il titolo sarà l’unico aspetto della produzione a restare sospetto: aprendo il primo volume di Dorohedoro, avrete subito modo di realizzare che qualsiasi cosa, per quanto strana, bizzarra, improbabile, grottesca e totalmente inquietante (in questo preciso ordine) verrà portata alla vostra attenzione con un candore deliziosamente naïf.
L’autrice non si dilungherà nel dare spiegazioni, preferendo immergervi di persona nel mondo fantastico descritto tanto dal suo improbabile, graditissimo humour (non ho problemi ad ammettere che Dorohedoro sia stato uno dei pochi manga ad avermi strappato risate sincere e sentite), quanto dalle linee caotiche ma virtuosissime che delineano i suoi personaggi, siano essi caimani antropomorfi o uomini con un tacchino sulla testa (no, sul serio. Non è uno scherzo).
L’elemento gore e quello grottesco, come già anticipato, hanno un posto preponderante nell’opera. Quello di fronte al quale vi troverete, tuttavia, sarà lungi dal sembrare “a sproposito”: Hayashida fa suo una sorta di “grottesco controllato“, che già risulta incluso, accettato nell’ottica della concezione di partenza che fin dai primi pannelli sarete portati a sviluppare e che quindi non dovrebbe apparire troppo gravoso ai lettori sensibili[5].
Dorohedoro si può ascrivere al gruppo delle opere “brevi”, constando, al momento, di “soli” 19 tankōbon (così dicasi una tipologia di volume a fumetti di produzione nipponica), editi in Italia dalla Planet Manga. Essendo un noto detrattore degli spoiler, mi asterrò dal dirvi alcunché, se non… date all’opera una chance, se la merita.
Mi trovo completamente privo di indizi per quanto riguarda la presunta popolarità di Dorohedoro. Mi appello quindi al vostro aiuto, amiche e amici del pubblico, con un sondaggio: quanti, nel leggere le parole in grassetto riportate qui sopra, si sono lasciati andare un “Commercialata!”, e quanti un “Eh?!”.
Dopo un inizio prolisso e verboso (che ha privato, tra l’altro, buona parte della recensione dello spazio che avrebbe meritato. Hurray!), spero non vorrete averla a male se il mio mattone di testo va incontro a una conclusione scarna, inattesa e soprattutto inaspett…
FINE