Sotto lo sciame degli aerei ad alta quota, stavamo mangiando un cocomero. Intanto le bombe cadevano su Belgrado. Guardavamo il fumo salire in lontananza. Faceva caldo in giardino e chiedemmo se potevamo toglierci la camicia. Sotto il coltello di mia madre, il cocomero faceva un rumore maturo e croccante. Sentimmo anche qualcosa come un tuono, ma quando alzammo gli occhi, il cielo era azzurro e senza nuvole.
(Charles Simic, p. 13)
Poche parole, parole giuste, un senso di vuoto, di indefinito insieme a dettagli microscopici e in apparenza inutili. Non è uno stralcio di un romanzo: l’arte di Simic è tutta qui, in brevi prose, poesie di dieci, quindici versi, sceltissimi, calibratissimi nella loro estrema essenzialità. Non è nell’allitterazione, nella figura retorica ardita, che si cela la poesia di questo serbo trapiantato in America, di questo poeta refrattario ad ogni etichetta, ad ogni inscatolamento. È nelle immagini, negli aerei, nelle bombe su Belgrado durante la seconda guerra mondiale.
Il fumo e insieme i cocomeri, e il rumore del coltello. Non c’è una “storia”: è tutto nell’immagine, nella forza lirica di pochi elementi. E poi quel rumore, come di tuono, ma il cielo azzurro. La normalità della guerra. La normalità di un mondo che non può essere lindo e perfetto come vorremmo: di un mondo che ha le sue piaghe. Simic mette l’occhio in quelle piaghe, e vi scopre una poesia nascosta.
Nella bruttezza di Chicago, dove si è trasferito da giovane con la famiglia, trova la sua vera molla poetica. Non è nel “grazioso”, infatti, che sta la poesia: nel canto degli uccelli, nella grazia di un fiore. Non è solo lì. È in tutto ciò che ci faccia pulsare le vene, in ciò che ci ammalia e ci fa tremare. L’origine della metafisica è in un timore reverenziale, scrive, citando Emily Dickinson: è questo timore, questa ammirazione verso qualcosa di grande, che spaventa e che al tempo stesso ci fa venire voglia di custodirlo, di proteggerlo, (quello che il buon Umberto Bellintani chiamava “arcano”) l’origine di tutto.
Ma Simic non cerca questo arcano vagabondando per i campi, come molti dei suoi predecessori. È nella vita comune, nel banale, che cerca la poesia. Le cose, tutte le cose, la tastiera su cui sto scrivendo, il monitor su cui leggete questo articolo, il tavolo su cui è poggiato, la sedia o il divano su cui siete seduti, tutto ciò ha un fondo inconoscibile. Un fondo che potremmo capire solo se noi fossimo quel tavolo, quella sedia.
La poesia serve a questo. Ad avvicinarci il più possibile alla “cosa”, all’Altro. Con due preziosi quanto antichi alleati, la similitudine e la metafora, Simic scandaglia la realtà che vede e ne mostra il lato nascosto. I piccoli morsi sule matite dei suoi studenti diventano stelle. «Nella padella / sopra il fornello / ci siamo ritrovati nudi / io e l’amore mio[1]».
L’universalità dell’amore viene inserita in una cucina; non rara è la surrealtà di alcuni versi: «Cipolle affettate / ci cadevano in testa / fino a farci piangere» oppure, pochi versi dopo: «“Mezzi di trasporto” / mi rispose ermetica / mentre friggevamo / “Mezzi di trasporto!”».
A volte risulta difficile comprendere il significato delle poesie, perché l’autore non ne fornisce una chiave. Non vuole fare il predicatore, il veggente: indica una strada, ma poi è il lettore che deve percorrerla. E metà della poesia è fatta proprio dall’occhio del lettore. Se il lettore in un verso non vede nulla, se quel verso non gli apre una porta, la poesia ha mancato il suo scopo. Questa poesia in prosa, che leggiamo in originale e nella traduzione di Damiano Abeni, è la prova dell’incredibile forza lirica di Simic:
Ghost stories written as algebraic equations. Little Emily at the blackboard is very frightened. The X’ look like a graveyard at night. The teacher wants her to poke among them with a piece of chalck. All the children hold their breath. The white chalk squeaks once among the plus and minus signs, and then it’s quiet again.
Storie di fantasmi scritte come equazioni algebriche. La piccola Emily alla lavagna è spaventatissima. Le X sembrano un cimitero di notte. La maestra vuole che frughi tra di esse con il gesso. Tutti i bambini trattengono il respiro. Il gesso bianco stride una volta tra i più e i meno, poi torna il silenzio.
(Charles Simic, Il mondo non finisce, Roma, Donzelli Editore, 2001, p. 34-35)
Poesia è sintesi. È il succo, l’essenza di un pensiero, di un’emozione: in poche righe all’apparenza scarne, il poeta riesce ad esprimere tutto il terrore della bambina alla lavagna; le equazioni sono storie di fantasmi, e le lettere e i numeri diventano delle ossa di un cimitero, le x diventano croci, e il nero della lavagna si fa una notte cupa e senza luna. Che altro dire? Leggere, rileggere, imparare a vedere.
È il metodo che fa grande Charles Simic. Dopo aver letto qualsiasi cosa di suo, emerge una gran voglia di uscire in strada e guardare il mondo, guardarlo proprio dove distogliamo lo sguardo disgustati, guardarlo tutto, come farebbe un fotografo, o un regista. Non ci spaventa mai davvero, Simic: il suo è uno sguardo indulgente, benevolo, di chi ama il mondo, e lo ama così com’è, senza bisogno di utopie o sogni riformatori, che poi – avverte – diverranno deliri totalitari.
Senza quello sguardo, senza l’accettazione del mondo, il mondo non può essere migliorato. Non si migliora qualcosa che si odia. Ma anche questo è un accenno, una lieve parola – mai una predica. Anzi, è sempre l’ironia (il tempo e lo spazio di un articolo non permettono di mostrarlo appieno) a guidare la mano del poeta: la piccola Emily è vista con un’ombra di un sorriso, perché – per fortuna – un’ora di matematica non è una notte di tregenda.
Ma è con una poesia che vi vorrei lasciare. L’ho scoperta così, aprendo a caso un libro messomi in mano da un’amica. Lì dentro c’è tutto Simic. Tutto quello che emerge nelle altre poesie, tutto quello che non sono riuscito a dirvi fino ad ora.
Miracle Glass Co.
Heavy Mirror carried
Across the street,
I bow to you
And to everithing that appears in you,
Momentairly
And never again the same way:This street with his pink sky,
Row of gray tenements,
A lone dog,
Children on rollerskates,
Woman buying flowers,
someone looking lost.In you, mirror framed in gold
And carried across the street
By someone I can’t never see,
To whom, too, I bow.
Specchi & Miracoli
Pesante specchio trasportato
sull’alto lato della strada,
mi inchino a te
e a ogni cosa che in te appare
per un attimo
e mai più allo stesso modo:questa strada con il suo cielo rosa,
i grigi casamenti in fila,
un cane solitario,
ragazzini sui pattini a rotelle,
una donna che compra dei fiori,
qualcuno dall’aria smarrita.In te, specchio incorniciato d’oro
trasportato sull’altro lato della strada
da qualcuno che nemmeno riesco a vedere
e a cui pure, m’inchino.(Testo: Charles Simic, Hotel insonnia, Milano, Adelphi, 2002, p. 108. Traduzione nostra)
È la poesia dove emerge maggiormente la tensione metafisica (se non mistica) di Charles Simic: il mondo visto da uno specchio, portato non si sa da chi, e attraverso quello specchio, scorre la vita. Non occorre dire altro.
Charles Simic è stato un poeta che, pur non essendo estremamente famoso, pur non avendo scritto una mole di libri, ha seguito sempre la sua meta: esprimere, o quantomeno accennare, l’indicibile; scoprire la realtà e salvare ciò che vediamo tutti i giorni e che giudichiamo banale, superficiale, indegno del nostro sguardo. Salvarlo, e trasformarlo in eterno.
La lirica è la scandalosa dichiarazione che il privato è pubblico, che il locale è universale, che l’effimero è eterno. Ed è davvero così! (…) È questo che i filosofi non riescono a perdonare.
(Charles Simic, Il mostro ama il suo labirinto, Milano, Adelphi, 2012, p. 102)
In copertina: Vivian Maier, Autoritratto, 1954. Abbiamo scelto (confidando nella clemenza degli eredi) di illustrare questo articolo con le fotografie di Vivian Maier perché secondo noi la poetica della fotografa si avvicina molto a quella di Simic sia per l’insistenza sugli specchi, i riflessi e tutto ciò che può creare un effetto caleidoscopico, sia per la capacità di trovare poesia nel quotidiano, nell’istante che si vive ogni giorno.