Alto medioevo astratto – III
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Dunque, le Catacombe di Domitilla.
Già, proprio quelle.
Sì, quelle Catacombe lì, quel cimitero lì, quello che sprofonda sottoterra lungo l’antica via Ardeatina, proprio nei pressi delle già citate Catacombe di San Callisto, quelle dove è possibile osservare Orfeo e i fossori e ammirare – con piglio annoiato, probabilmente – le linee che separano le innumerevoli scene e le figure della mitologia cristiana. Delle Catacombe davvero enormi, quelle di Domitilla, insomma, un cimitero ipogeo davvero gigantesco che si sviluppa su più livelli (almeno due, in alcuni punti anche quattro!), un forziere ricchissimo di testimonianze, un labirinto di affreschi, di soggetti iconografici, di tipi, di soluzioni grafiche, di stili davvero i più disparati.
Da dove iniziare?
Be’, si potrebbe partire da alcune osservazioni generali. Le pitture più antiche nei cimiteri ipogei risalgono ai primi decenni del III secolo: sono spesso decorazioni a specchio, delle architetture aeree che si sviluppano e si attorcigliano sul bianco dell’intonaco, puntellate da amorini e genietti realizzati in uno stile che potremmo definire calligrafico. La matrice astratta, in questo genere di opere, è evidente: il muro, con tutta la sua gravità, viene annullato da queste soluzioni decorative leggere e prive di spessore.
Dopo la metà dello stesso secolo a questo repertorio sostanzialmente decorativo si aggiungono soggetti iconografici più complessi (sia nel valore semantico tramandato che nella concreta realizzazione) quali la figura del Buon Pastore (particolarmente apprezzata dalla committenza ecclesiastica e non nei primi secoli dell’era cristiana) e quella dell’Orante, soggetto ambivalente. Poi, a queste figure isolate, si aggiungono scene derivate direttamente dal Vecchio e dal Nuovo Testamento: Giona e la balena, il sacrificio di Isacco, i giovani nella fornace. Gli studiosi contano circa una sessantina di scene tratte dal Vecchio Testamento – di certo un numero non esiguo – e solo una quindicina tratte dal Nuovo Testamento.
Sino a qui, sommariamente, la realizzazione di queste scene risulta molto sintetica: da una parte la comunità cristiana non è particolarmente ricca e, d’altra, è ancora restia ad accogliere i dettami dell’arte ufficiale, un’arte molto raffinata e certamente non popolare, un’arte di comprensione non immediata. Con lo scadere del III secolo la situazione cambia.
Il Cristianesimo Primitivo, di fatti, che si colloca nel contesto di un impero soffocato da una crisi totale – che va dal tramonto della tradizionale religione pagana all’impoverimento di un Occidente costretto dal parassitismo della propria classe aristocratica a dipendere dall’Oriente, l’Oriente dove sorgono le giganti metropoli ellenistiche – cresce sino a racimolare una schiera sempre più grande di fedeli che diviene presto così ampia da minacciare la relativa solidità tanto faticosamente raggiunta dalle riforme di Diocleziano. Al rifiuto da parte dei cristiani di tributare un culto all’imperatore questi risponde con le persecuzioni (303-305).
Queste si aggiungono ad una situazione, per i cristiani, già instabile: sebbene infatti, come indicato la volta precedente, la gerarchia ecclesiastica si potesse considerare già pienamente sviluppata allo scadere del III secolo, la comunità cristiana si mostra scissa al suo interno, divorata dalla sanguinosa lotta – teologica e fisica – tra coloro che credono nell’imminente ritorno di Cristo (parousìa), soggetti coesi nel rifiutare di scendere a patti con le istituzioni corrotte della socialità e una seconda fazione più incline al compromesso. Da una parte la Chiesa in cui si guarda esclusivamente ai martiri e agli eroi della fede cristiana, dall’altra uomini propensi a capire e di seguito a perdonare le debolezze e i peccati della natura umana.
A questo clima infocato, in cui non si è ancora raggiunta una chiara definizione della natura di Dio e, di conseguenza, non si sono definiti parametri e leggi per definire l’oggetto religioso, fa seguito una notevole complessità dei soggetti raffigurati e dei modi di rappresentazione delle varie figure e dei vari episodi biblici. Una complessità tale che ancora oggi è difficile sciogliere.
Ad esempio la figura di Cristo.
Oggi l’immagine che associamo al Dio che si è fatto uomo è quella di un giovane dalla pelle candida, barbuto, sofferente se assiso in croce – uno studio anatomico del corpo umano -, glorioso se appena accolto nei Cieli. Ovviamente ci sono molte altre varianti ma resta pur sempre un uomo dal capello lungo e dalla barba folta (più o meno).
In Domitilla invece – ma anche in molti altri esempi – Gesù è assimilato al Buon Pastore; il richiamo alla parabola è evidente, meno il tipo iconografico al quale gli artisti si sono ispirati: Orfeo. Cristo, in queste rappresentazioni, è un adolescente, un giovane senza barba (dettaglio che connota la figura maschile adulta sin dall’arte greca arcaica) dal capello corto. Un giovane pastore colto in un paesaggio bucolico, quasi un locus amenus in cui ogni stelo d’erba ed ogni roccia è connotato simbolicamente. Il richiamo all’arte classica è clamoroso.
Al Dio agreste si può accostare, sempre nelle Catacombe di Domitilla, stavolta nel cubicolo detto “dei sei santi”, un Cristo in trono, un Cristo in maestà circondato, nel caso specifico, da sei santi: tre uomini a destra, vestiti di tunica e pallio e da tre donne a sinistra, ammantate di stola e velo. Questa scena è stata eseguita sull’arcosolio centrale del cubicolo; immediatamente sopra la scena è reiterata: di nuovo Cristo in trono, stavolta circondato dagli apostoli. In entrambi i casi senza barba, nella seconda rappresentazione si può riconoscere Gesù quale vero filosofo, vero filosofo in un consesso di filosofi. Questa è la Chiesa trionfante, trionfante sulla morte!
Ancora più trionfanti in verità risultano i mosaici dell’abside di Santa Pudenziana (del 410), dove il Cristo siede su un trono gemmato, vittorioso, sul Golgota sormontato da una gigantesca croce aurea tempestata di gemme preziose. Questa volta la raffigurazione di Cristo è più vicina alla nostra concezione: finalmente Gesù mostra una folta barba, sul modello di quella di Giove (anche perché il modello è proprio il padre degli Dei!) e, per la prima volta, almeno in questo articolo, compare la croce. Non certo però la croce quale simbolo di sofferenza, quanto simbolo di trionfo.
Dunque, all’inizio del IV secolo il Cristianesimo Primitivo esplode. Le catacombe accolgono e segnano il momento del passaggio dalle origini vere e proprie – o quasi – della religione cristiana al momento in cui vengono accolti i dettami dell’arte classica.
Certo, spesso la realizzazione delle figure risulta molto sintetica, a tratti espressionista: i colori possono essere stesi senza che si badi troppo al disegno (e questo è un tratto tutto sommato più ellenistico che romano), a volte si presta maggiore attenzione al tratto, al dettaglio ornmentale. Alcune rappresentazioni risultano goffe, volgari; altre portano in sé la monumentalità dei modelli pagani.
Di certo è interessante osservare come all’accoglienza dei dettami classici da parte dei cristiani, nelle pitture catacombali, nei mosaici, risponda la committenza, da parte del Senato, di un monumento commemorativo, quale l’arco di Costantino, veicolo di un modo nuovo di concepire l’opera d’arte.
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In copertina: veduta delle Catacombe di Domitilla
Per approfondire:
Angiola Maria Romanini, L’arte medievale in Italia, Sansoni Editore, Firenze 2012 (1988).
Giovanni Vitolo, I caratteri originali di un’età di transizione, Sansoni Editore, Milano 2012 (2000).
Yun Yamada, Due nuove pitture nel cubicolo “dei sei santi” nel cimitero di Domitilla, in RACr 84 (2008), pp. 473-504.
Norbert Zimmerman – Vasiliki Tsamakda, Pitture sconosciute della catacomba di Domitilla, in ARCr (2009), pp. 601-640.
Barbara Mazzei, «Il buon pastore chiama le sue pecore per nome». A proposito di due arcosoli della regione dei mensores in Domitilla recentemente restaurati, in RACr 91 (2015), pp. 35-68.