Io non sono un lettore di Batman.
Sono, d’altra parte un appassionato frequentatore di Wiki online, e con tutta probabilità ho sviluppato una dipendenza nociva dal sito Tvtropes.org; con una predilezione tossica per le ricche sezioni che esso dedica ai personaggi di varie opere fittizie.
Tutto quello che so sul Cavaliere Oscuro e sui mille volti che popolano il suo universo l’ho appreso sfogliando pagine su pagine di enciclopedie online, sempre e rigorosamente in inglese[1]: dalla banalissima Wikipedia fino alla Batman wiki[2], dal database della DC Comics alla galleria di soli cattivi della Villains Wiki, quello dei cataloghi è un mondo che mi ha sempre affascinato. È un mondo dove a farla da padrone non c’è solo l’Uomo Pipistrello: ogni personaggio, ogni spalla, ogni nemico ha la sua pagina, il suo personale spazio di fama (o, nella stragrande maggioranza dei casi, di notorietà). Un luogo che gli appartiene totalmente, dove sono snocciolati le vite, le morti e i miracoli di cui, nel corso degli anni, è stato protagonista.
Penso poche cose possano favorire l’immersione in un universo fittizio come uno scandaglio metodico, approfondito e quanto più possibile oggettivo di ogni singolo abitante dello stesso: del suo aspetto, della sua personalità e delle sue abilità come del mare delle azioni fattegli compiere dalla penna di un autore o di un altro.
Ed è proprio leggendo una di tali pagine, quella di TV Tropes in cui a parlare di sé in prima persona è il Joker, psicotico principe dei cattivi di Batman, che sono incappato in qualcosa di interessante: The Killing Joke, da molti considerata la «migliore storia del Joker mai scritta»; oltre che detentrice di una dignitosa medaglia di bronzo sul podio delle «migliori storie di Batman in assoluto».
Una storia del Joker. Una storia che, come una diligente pagina Wiki, sposta il suo focus dal protagonista all’antagonista.
Una storia del Joker che, per la stessa ammissione dell’attore, è stata la principale ispirazione dell’ultima, grandiosa, letale interpretazione di Heath Ledger.
Una storia del Joker che, per la stessa ammissione dell’attore, è stata la principale ispirazione dell’ultima, grandiosa, letale interpretazione di Heath Ledger, sceneggiata da Alan Moore[3].
Avevo ufficialmente abboccato.
The Killing Joke it is.
L’opera nasce nel 1988 dalla collaborazione tra Moore e un disegnatore, come sempre chiamato a mettere su carta le invenzioni dell’inimitabile sceneggiatore: a impugnare la matita, a questo giro, è Brian Bolland; altra personalità di spicco dell’universo editoriale DC. La creatura dei due non impiega molto ad assumere le sembianze di una pietra miliare: nel 1989 The Killing Joke vince un Eisner Award nella categoria Miglior album grafico; aggiungendo l’ennesimo trofeo alla bacheca della star del fumetto dalla barba importante[4].
L’albo, inizialmente, fu pubblicato coi colori vivaci di John Higgins, poco rispondenti all’idea originale del disegnatore. Nel 2008, in occasione del ventesimo anniversario, The Killing Joke è stato ristampato in una prestigiosa edizione rivista da Bolland, intervenuto sulle tavole e sulla palette cromatica che le anima.
Niente più sfumature intense, sotto di lui.
Niente colori vivaci.
La discesa nella follia è un anestetico amaro.
The Killing Joke presenta, di facciata, l’impianto canonico di una storia del Joker. Ad animare la vicenda e a costituirne l’ossatura c’è l’ennesimo “piano diabolico” del giullare del crimine, contorto e oscuro disegno partorito dalla sua mente distorta, che l’Uomo Pipistrello si troverà a dover sventare.
L’atmosfera di base è quella di fine anni ’90: Batman in calzamaglia blu-grigia in perfetto stile Adam West, sufficientemente affabile, fedele al suo concetto di giustizia amabilmente naïf e abituato a pestare gli avversari come ai vecchi tempi, in perfetta coreografia da fumetto. Ad affiancarlo, effettivo e atteso protagonista della storia, un Joker all’apice della sua rappresentazione burlesca: in tenuta classica, alla Jack Nicholson, con tanto di cappello, fiocco e bastone da passeggio. Un mingherlino dal mento importante e dal make-up ignorante, solare e a tratti addirittura canterino; abbondante sia nelle parole che nei gadget eccessivi e circensi che hanno caratterizzato le sue prime apparizioni.
Le premesse sono quanto di più distante si possa immaginare dalle moderne raffigurazioni del personaggio, dal criminale psicotico e drammaticamente irrecuperabile.
Non preoccupatevi: con Moore è sempre così.
The Killing Joke non impiega molto a mostrare il suo vero volto: quello di elogio della follia, di inno alla deviazione mentale. Una pazzia ricercata come fuga dal reale, come tonico a ricordi insopportabili. La tragicità della vita è annientata, a occhi allucinati, da una pennellata di psicosi delirante; da uno stato di alienità totale abbracciato come l’unica soluzione possibile a un’esistenza che tendiamo imperterriti a considerare razionale e sostanzialmente positiva.
Il criminale psicotico si fa profeta della follia, visionario portatore di uno stato di grazia che, non è chiaro se per sadismo diabolico o per altruismo messianico, si sente in diritto/dovere di estendere al mondo.
Una follia percepita come rifugio, come rimedio, come unico stato sensato delle cose contro una convenzionalità artefatta, forzata, buonista, insensibile alla vera natura del mondo.
Ecco gli effetti di una bella dose di realtà…
Io quella roba non la tocco neanche.
Mi rovina le allucinazioni.
Ma The Killing Joke è anche la storia del Joker, delle origini del Joker[5]: di quella fulminea serie di sfortunati eventi che, susseguendosi in un’istantanea, drammatica e apparentemente casuale ineluttabilità, ha strappato al mondo un uomo normale per farne qualcosa di assolutamente altro.
Questa, nelle parole del demone dal capello verde, è l’unica differenza tra lui e noi: una brutta giornata. Basta un momento di disperazione, di vera disperazione, per infrangere lo specchio, per scorgere ciò che sta al di là.
La traumatica sostanza delle cose: impossibile ricoprirla con lo scudo della convenzione, dei buoni valori, della normalità.
L’unica soluzione è la follia, in tutta la sua portata anestetica e allucinogena.
Una droga a cui assuefarsi nel tentativo di dimenticare il mondo.
Di arrivare a riderne.
Basta una brutta giornata per ridurre alla follia l’uomo più assennato del pianeta.
Ecco tutta la distanza che passa tra me e il mondo.
Una brutta giornata.
Il volume getta anche (o perlomeno, approfondisce magistralmente) le basi dell’identificazione tra il Cavaliere Oscuro e il Joker. La distanza tra i due, sogghigna Moore, è irrisoria; la linea che li divide un’illusione. Lo stesso Batman sembra riconoscerlo, a inizio numero: tra lui e il suo arci-nemico c’è un rapporto unico; una relazione distruttiva per loro come per gli altri, destinata a finire in tragedia con la morte del “buono” o del “cattivo”. Un legame tra due identità apparentemente lontane quanto incommensurabilmente vicine.
Due psichi infrante dal dolore, piegate dalla sofferenza, allontanatesi dal mondo e dalle sue orribili sembianze tramite una trasfigurazione delle loro: l’uomo in calzamaglia, celato dietro la sicurezza di una maschera scolpita, che risparmia la vita dei malvagi nel delirio auto-stimolato di potersi mantenere sulla retta via in un universo di cui contempla giornalmente la putredine; il derelitto dal volto cinereo che, presa visione della crudele insensatezza della vita, ha deciso di allontanarsene dedicandosi anima e corpo al divertissement più intenso e definitivo.
E di estenderlo, per quanto possibile, a tutti gli altri.
E una volta l’hai avuta pure tu. Ho ragione?
Hai avuto una brutta giornata e sei impazzito come tutti… Solo che tu non lo ammetti!
No, vuoi far finta che la vita abbia un senso, che questa battaglia abbia non so che significato.
Dio, mi dai il vomito.
Due facce della stessa moneta: forse proprio quella su cui si concentra l’ossessione dualistica di Harvey Dent/Due Facce, altro noto cattivo di Batman, non per nulla fugacemente apparso in una storia che non lo tange minimamente. Teste su entrambi i lati di freddo metallo: l’una intonsa, perfetta, pulita; l’altra mostruosa, resa quasi irriconoscibile dalle fiamme, ombra grottesca di ciò che era.
L’idea del Joker?
Non è affatto detto la faccia distorta sia la sua.
L’edizione che ha funto da riferimento per la stesura del presente articolo è la già menzionata “ristampa di lusso” del 2008, quella coi colori (e le revisioni) di Bolland[6]. In coda a tale volume, va detto, c’è una perla, meravigliosa e disturbante quanto lo stesso Killing Joke: le poche, incisive pagine di Un uomo innocente, storia brevissima firmata unicamente da Bolland.
Terrificante quanto la cinquantina di pagine che la precede.
Perché mai?
Perché le parole del Joker e del cosiddetto uomo innocente, astratte dal contesto, hanno senso.