Packet, così veniva chiamato il programma segreto messo in atto dalla Central Intelligence Agency (CIA), per vincere – in questo caso senza combattere – la Guerra Fredda. Un pacchetto che al suo interno racchiudeva un’insolita punta di diamante: il Congresso per la Libertà della Cultura.
Siamo nel 1950 a Berlino, cinque anni dopo la fine della guerra, quando un nugolo di intellettuali provenienti da Stati Uniti ed Europa si riuniscono presso il Titania Palast.
Seppure di estrazione ideologica diversa – liberaldemocratici, di sinistra non marxista o ex comunisti delusi dallo stalinismo – questi intellettuali erano accomunati dalla preoccupazione che, dopo aver tanto lottato per respingere nazismo e fascismo, l’Occidente democratico potesse trovarsi nuovamente imprigionato in un giogo, in questo caso quello sovietico.
Nell’effettivo questo sarà il primo di una serie di congressi tenuti in diverse città europee fino al 1967 e organizzati con lo specifico intento di affrontare temi legati al comunismo, ai suoi mali e rafforzare conseguentemente il peso politico degli Stati Uniti nello scenario internazionale.
Tali congressi vennero definiti come la «facciata più nobile» dell’operazione; ma quindi che cosa o meglio chi, vi si muoveva alle spalle?
Secondo le ricostruzioni di Frances Stonor Saunders[1] dietro tutto ciò vi era una rete occulta chiamata «Il Consorzio» e costituita in gran parte da privati – uomini e donne di spessore, selezionati da famiglie aristocratiche e provenienti dalle università più prestigiose – che agivano con la copertura di fondazioni filantropiche e istituzioni.
Queste personalità avevano il compito di creare stati d’animo favorevoli agli interessi americani e persuadere che qualsiasi cosa eseguita dal governo USA fosse giusta.
In altri termini appunto: guerra psicologica.
Inizialmente furono avanzati molti dubbi e incertezze sull’indipendenza del Congresso per la Libertà della Cultura e di altri movimenti e sovvenzioni consimili, fino a quando un’inchiesta apparsa nel 1967 presso il mensile su politica e letteratura Rampants, spinse la commissione d’indagine a stabilire che la CIA avesse giocato un ruolo cardine all’interno di questa scacchiera culturale e stabilì oltretutto che essa avrebbe dovuto interrompere qualsiasi forma di finanziamento occulto alle attività culturali in Europa.
Solamente nel 1995 dalla rivista Independent e poi nel 1996 dal New York Times, vennero pubblicati i primi articoli in cui si rivelavano attività fino ad allora segrete.
Il Congresso avrebbe fornito alla CIA il moto ideale per promuovere il suo interesse verso l’Espressionismo astratto attraverso l’organizzazione di mostre tra cui una delle più significative, The New American Painting, presente in ogni grande città europea tra il 1958-1959.
L’Espressionismo astratto infatti, per la sua natura soggettiva e priva di contenuti narrativi, ha da sempre rappresentato il contraltare più adatto a contrastare il rigore dei realisti sovietici; ben più difficile sarebbe stato propagandare un’arte come quella Pop, che invece si proponeva di essere lo specchio della società americana attraverso i suoi stessi simboli come il dollaro, la bandiera americana o la riproduzione serigrafata delle scatole di zuppa Campbell.
Per quanto riguarda l’Espressionismo astratto credo che quello che abbiamo fatto è stato riconoscere la differenza. È stato riconosciuto che l’Espressionismo astratto è stato il tipo di arte che ha reso l’aspetto del Realismo socialista ancora più stilizzato, più rigido e confinato di quanto non lo fosse. E quella relazione è stata sfruttata in alcune delle mostre. In un certo senso la nostra comprensione è stata aiutata perché Mosca in quei giorni era molto viziosa nella sua denuncia di ogni tipo di non-conformità ai propri modelli molto rigidi.
Frances Stonor Saunders, Modern art was CIA ‘weapon’, “Indipendent”, 21 ottobre 1995
Donald Jameson – ex militante della CIA – ruppe il silenzio su questo e su molti altri aspetti, come la conferma che per sostenere suddette mostre molto costose da esibire al di fuori dei confini americani, fossero stati coinvolti mecenati milionari primo fra tutti Nelson Rockefeller – la cui madre aveva fondato il MoMA (Museum of Modern Art).
Il museo in questione fu collegato con la CIA da diversi ponti: William Paley, ad esempio, presidente della CBS Broadcasting e uno dei padri fondatori della CIA, è stato uno dei membri del programma internazionale del museo; Tom Braden, primo capo della divisione delle organizzazioni internazionali della CIA è stato segretario esecutivo del museo nel 1949.
La domanda a questo punto sorge spontanea: gli intellettuali erano coscienti di mettere la propria arte a disposizione di un progetto segreto portato avanti da organizzazioni governative?
La risposta maggiormente sostenuta sarebbe no: il progetto era segreto e così sarebbe dovuto rimanere per ottenere la massima portata su vasta scala. In questi termini uno tra i primi sostenitori fu il filosofo Arthur C. Danto che ha sostenuto come: «sponsorizzando le mostre degli espressionisti astratti, la CIA non ha fatto altro che farli conoscere prima[2]».
Potrebbe essere vero che la CIA si sia limitata a dare una semplice accelerazione all’affermarsi di un’arte che avrebbe egualmente avuto riscontro nel tempo, ma è altrettanto giusto riconoscere quanto riduttiva sia l’idea che un tipo di arte possa avere la meglio su un’altra grazie all’intervento della politica. Questa infatti era la visione propria delle dittature di Hitler, Stalin e Mussolini e per quanti sforzi abbiano investito nel tentativo di rendere l’arte funzionale alle proprie esigenze, sono stati ben lontani dall’impedire alle Avanguardie di nascere e imporsi.
Sarebbe una forzatura considerare Pollock, de Kooning, Rothko e gli altri complici della politica. La loro opera si realizzava nel chiuso dei loro studi ed era il risultato della loro sensibilità. Essi non sono espressioni della CIA così come Michelangelo o Raffaello non lo sono della chiesa cattolica. Ciò che fa la differenza sta solamente nel riconoscere che raramente gli artisti mantengono il controllo sull’utilizzo delle loro opere una volta che queste hanno lasciato lo studio e sono state messe in circolazione.