Madonna con il Bambino tra i Santi Giovanni Battista e Benedetto

Simone Peterzano e l’arte ai tempi della Controriforma

Il 30 giugno del 1564 papa Pio IV emanò la Bolla Benedictus Deus, approvando tutti i decreti discussi nell’arco delle venticinque sessioni che si erano succedute a Trento, in quello che sarà ricordato come il Concilio più duraturo – e probabilmente più burrascoso – della storia ecclesiastica. 

Per ciò che riguarda la storia dell’arte, le conseguenze del Concilio di Trento furono enormi: la Chiesa, infatti, decise che dove non era riuscita la spada, poteva riuscire la cultura. I cattolici uscivano sconfitti militarmente dalla guerra che Carlo V aveva intrapreso contro i principi protestanti, e dunque dovevano rassegnarsi a contendere il territorio ai luterani; tuttavia la Chiesa poteva contare ancora sul suo prestigio, sulla sua capacità di convincere e persuadere il popolo a seguirla, e in questo l’arte si rivelava un potentissimo strumento di propaganda, di soft power, come diremmo in termini moderni. 

Contrariamente a quanto si può pensare, il Barocco non è stato ampiamente studiato se non ai primi decenni del Novecento: prima, anzi, venne pesantemente criticato (e ancora Benedetto Croce lo considerava un movimento artistico di second’ordine) come manieristico, eccessivo, di cattivo gusto; non è un caso che nel linguaggio comune abbia assunto un significato dispregiativo: il “barocchismo” è una caratteristica ancora oggi da evitare, che evoca immediatamente leziosità ed esagerazione. Altra prova della forte opposizione che ebbe l’arte barocca furono i restauri ottocenteschi di molte chiese, come Sant’Ambrogio a Milano, le chiese romaniche di Pavia, o San Giovanni degli Eremiti a Palermo, che vennero spogliate delle aggiunte barocche per essere riportate alla “purezza” originaria: una purezza, in realtà, più sognata che reale, e che ha avuto come conseguenza la perdita di un gran numero di opere, considerate appunto minori e sacrificabili.

Simone Peterzano, Annunciazione
Simone Peterzano, Annunciazione, 1577

In effetti, questa epoca di rinnovamento portò con sé una forte ideologizzazione dell’arte, con conseguenze che potevano essere alquanto rognose per gli artisti. Uno dei massimi riformatori della chiesa cattolica, anche in senso artistico, fu il cardinale Carlo Borromeo (celebre sia per la sua santità, sia per reminiscenze manzoniane) che compilò nel 1577 le Intructionum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae, un manuale ad uso di artisti e architetti, molto ricco e molto dettagliato: per esempio, in un passo specifica il corretto numero di gradini che devono dividere il piano di calpestio del presbiterio rispetto all’aula ecclesiale. Le nudità michelangiolesche, com’è noto, vennero totalmente bandite (ed è anche noto come Daniele da Volterra, il “Braghettone”, ebbe il compito di coprire i nudi della Cappella Sistina). Altra storia famosa è quella che riguarda il Veronese, che si vide intentare un processo per il suo GIudizio Universale, che, come quello di Michelangelo, conteneva nudità in gran numero. 

Non c’è da stupirsi, dunque, che per le epoche successive, che tenevano in maggior conto le libertà individuali dell’artista, questa fosse sembrata un’epoca fosca, oscura, in cui gli artisti non avevano alcun margine di manovra. In parte, come abbiamo visto, è vero: la Chiesa entra nel merito delle questioni artistiche e impone una sua visione dell’arte. In particolare, ciò che più premeva alla Chiesa era che cambiassero la mentalità e l’intento degli artisti: le opere d’arte, specialmente sacre, non potevano più avere al centro quella bellezza umana e classicista del Rinascimento. Nell’opera sacra, dunque, doveva tornare il sacro: la divinità doveva essere riportata al centro dell’opera. L’intento doveva essere, infatti, colpire l’animo del credente, suggestionarlo, infondergli sentimenti di pia commozione e riverenza. 

Tutto ciò, però, non toglie che l’arte barocca fosse molto di più dello stereotipo piatto e unilaterale che ne è stato fatto in seguito. Non solo non si limita a essere un inutile orpello, ma non può nemmeno essere ridotta a mero instrumentum regni: si trattò invece di un movimento ampio, complesso, sia per la vastità delle aree su cui si diffuse, sia perché non si limitò alle arti figurative; anche la musica e la letteratura sono estremamente debitrici di questo nuovo sentire. 

Proprio perché cercava di tenere insieme necessità extra-artistiche, come l’intento morale, le finalità didattiche, e il gusto e il pensiero dei singoli artisti, il Barocco fu un insieme di esperienze che procedettero spesso in direzioni molto diverse: la stagione del barocco musicale francese presenta marcate differenze con quanto era avvenuto tempo addietro in Spagna. Così la letteratura barocca italiana ha peculiarità sue, che non ritroviamo nei sonetti di Gongora e Quevedo; o ancora, è celebre il profondo dissidio tra Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini, che, pur essendo entrambi pienamente appartenenti alla temperie barocca, la interpretavano in modi pressoché inconciliabili. Inoltre, la Controriforma ebbe in ogni caso il merito di moltiplicare le commissioni e far fiorire una gran quantità di cantieri, di nuove opere, e di promuovere anche un modo di intendere l’arte che andasse oltre i particolarismi locali, quasi una sorta di gusto internazionale. 

San Maurizio al monastero Maggiore, Milano
San Maurizio al monastero Maggiore, Milano

Se oggi il valore del Barocco è grandemente accertato, e nessuno studioso si sognerebbe di tacciarlo di piattezza e monotonia, questo è meno vero per l’arte immediatamente successiva alla Controriforma, quel periodo di mezzo tra il tardo Rinascimento e il primo Barocco, in cui effettivamente i principi ecclesiastici venivano presi molto alla lettera, a volte a scapito del valore artistico delle opere stesse.

Un caso emblematico è quello di Simone Peterzano. 

Costui era un discepolo di Tiziano, a Venezia, e nacque nel 1535. Quando si completò il Concilio di Trento, e Carlo Borromeo iniziava a scrivere i suoi dettami, Peterzano era già un quarantenne, e abitava a Milano. Probabilmente aveva già una certa esperienza, ma la prima opera di cui abbiamo contezza è la controfacciata di San Maurizio al Monastero Maggiore in corso Magenta: si tratta di un ciclo composto da quattro affreschi, tra cui spicca Il ritorno del figliol prodigo. In queste due opere vediamo molto bene come Simone Peterzano tenti di amalgamare la sua devozione alla nuova sensibilità tridentina con tutto quello che era il bagaglio tecnico di un artista della sua epoca, specialmente a Milano, che era ancora molto debitrice del lascito di Leonardo.

Proprio a San Maurizio (dietro il tramezzo che separa il coro dalla navata) possiamo vedere un affresco di chiara derivazione leonardesca: qualcuno dice addirittura che sia di mano di Leonardo, ma è più probabile che fosse di un epigono che aveva ben assimilato il suo stile. Ecco, un ricordo di quello stile lo ritroviamo anche in Simone Peterzano, che presenta delle figure molto naturali, quasi copiate dal vero. C’è anche una notevole capacità di creare affreschi monumentali, sul modello della pittura del Veronese; tuttavia troviamo una maggiore compostezza delle figure, una sorta di irrigidimento.

san maurizio maggiore simone peterzano
Simone Peterzano, Gesù scaccia i barattieri dal Tempio, 1572, affresco, San Maurizio Maggiore, Milano.

Se notiamo, infatti, la composizione è superba, degna del maestro di Peterzano, e degna forse anche addirittura del suo allievo, Caravaggio: nella raffigurazione di Gesù al Tempio vediamo la baruffa, vediamo Gesù che con una frusta caccia i barattieri; a destra c’è una figura, un ragazzino o una ragazzina inginocchiata, assolutamente moderna, che potrebbe essere un quadro fiammingo. Eppure, il tempo è come se fosse sospeso; c’è un’aria di attesa, di rarefazione. Da un lato il movimento, dall’altro la stasi: la contraddizione è forte, patente.

In un ciclo di affreschi successivo, del ’78, presso la Certosa di Garegnano (nella parte a nord-ovest di Milano) notiamo invece che questa contraddizione è quasi totalmente risolta verso la stasi. Il naturalismo, la forza mimetica dell’artista si è fatta quasi completamente da parte, in favore di una pittura maggiormente simbolica, che ricorda l’arte tardo-antica, o l’arte ravennate bizantina. Certo, Peterzano non cederà mai a composizioni davvero semplici, e attraverso i dettagli, i panneggi, le espressioni manterrà sempre una forte componente umana nelle sue opere (del resto è pur sempre maestro di Caravaggio). Eppure si vede che c’è qualcosa che è cambiato drasticamente.

E qui torniamo alle rogne che gli artisti dovettero subire in quegli anni. Il povero pittore, infatti, non ebbe molta voce in capitolo riguardo la composizione degli affreschi. Non solo per i soggetti, che da sempre sono rigidamente codificati, quanto per la messa in scena.

Peterzano aveva infatti firmato un contratto con Gabriele de Collis, priore dei padri certosini, in cui effettivamente era indicato, sin nei minimi dettagli, come dovessero essere svolte le singole scene: come dovevano essere dipinti i diversi protagonisti, le loro posizioni e i loro attributi. Infine, specificavano ulteriormente:

Certosa di Garegnano
Certosa di Garegnano

Che tutte le figure humane et massime de santi et sante siano fatte con somma honestà et gravità et non ne apaiano petti ne altre membra o parti del corpo non honeste et ogni atto, giesto, garbo, movenza et drappi dei santi siano honestissimi, pudicissimi et pieni d’ogni divina gravità et maestà.

Che tutto il scoppo et ogni cosa che vi si farà, tenda a provocare ogni somma divotione et motti divini ne li animi de li risguardanti et che per nessuna arte si pregiudichi al spirito et al decoro et natura de le sante et divine figure che vi si hano a fare […]

(Costantino Baroni, Documenti per la storia dell’Architettura a Milano nel Rinascimento e nel Barocco, Voll, II, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1968, pp. 12-17)

Il tutto sarebbe stato posto sotto il giudizio di un’attenta e scelta commissione e, qualora si fossero trovate delle violazioni ai termini del contratto, il caro Simone avrebbe dovuto pagare di tasca propria i risarcimenti all’affresco ritenuto guasto.

Non sappiamo quale fosse il pensiero di Peterzano riguardo tutto ciò, se lo considerasse il semplice adempimento di un dovere, se fosse persuaso che quella rigidità fosse un miglioramento, un rinunciare al naturalismo per una maggiore spiritualità. Sappiamo però che tra il ’72, quando dipinge San Maurizio, e il ’78, quando dipinge questo ciclo, Peterzano diventa uno degli artisti più amati dai committenti, sia laici sia clericali, e ha una rapida ascesa al successo, tant’è che arriva a dipingere pure Carlo Borromeo. E sappiamo anche quello che avverrà dopo. Sappiamo che alcune sue tele avranno dei problemi con la censura, e che sarà chiamato all’infame compito di braghettarne le nudità.

Così, negli anni ’80, il suo stile muta definitivamente, si fa più cupo; i colori illanguidiscono e si stemperano, le figure diventano più tradizionali, a tratti addirittura spente. Chissà se è stata una conversione voluta, ricercata; se in qualche modo questo “tornare indietro” non fosse voluto, e non siano i nostri occhi, involontariamente evoluzionisti, a considerarlo un arretramento, un po’ come accade con la pittura di De Chirico, che si trovò in giovinezza a essere ultramoderno, e in vecchiaia invece tradizionalista e reazionario.

Forse si è dovuto piegare perché non aveva scelta, e ha deciso di adeguarsi definitivamente. Forse invece si è fatto persuaso che quella fosse la scelta migliore. In effetti, è molto romantica l’idea di un vecchio ormai disilluso che viene vendicato dal suo discepolo, scapestrato e tremendo, come fu il ribelle Caravaggio. E, in un certo senso, è stato vendicato davvero, dal momento in cui Peterzano venne totalmente dimenticato fino al momento in cui non si scoprì che era stato il maestro del Merisi.

simone peterzano pieta
Simone Peterzano, Pietà, 1584-88, olio su tela, Chiesa di San Fedele, MIlano.

D’altra parte, però, per tutta la vita Peterzano si è mostrato agli antipodi rispetto al suo allievo. Tanto naturalista e umano l’uno, quanto spirituale l’altro; tanto irregolare il primo, quanto più l’altro ha sempre cercato di rigare dritto, di mostrare solo segni di devozione. Non sapremo mai cosa pensasse davvero.

Sicuramente, però, la storia di Peterzano mostra una cosa. Mostra, cioè, che se è vero che l’artista romantico non esiste, né esiste un “genio” libero da incombenze e costrizioni, è altrettanto vero che queste incombenze, queste costrizioni, non sono mai indolori. Tutto ciò che il mondo esterno impone all’artista non è per forza un giovamento né uno sprone; anzi, a volte può semplicemente spegnerlo. Certo, possiamo studiare l’amalgama che se ne crea, e dobbiamo ricordarci che l’arte poggia sempre i piedi per terra, e ricondurla anche a questioni materiali. Ma dobbiamo anche ricordarci che le questioni materiali dovrebbero servire all’artista per volare in alto, e non per razzolare nell’aia, in ambienti quieti, che non disturbino la fede o la ragione.

Se Peterzano è stato un grande, questo lo possono decidere i nostri occhi e l’emozione che ci danno le sue opere. Ma forse, se Peterzano è stato un grande, questo, probabilmente, è stato nonostante e non grazie ai Carlo Borromeo, ai De Collis.

Appare scontato dirlo, in un’epoca in cui a nessuno verrebbe in mente di dare ordini a un artista – anche perché gli artisti hanno smesso di essere fautori di soft power. Eppure non è così scontato, perché Peterzano non è un artista a cui è stata effettivamente tappata la bocca, non è qualcuno che ha lottato ed è stato sconfitto. È la storia, più banale, più quotidiana, di qualcuno che piano piano sceglie di normalizzarsi, di incanalarsi in un sentiero, anche se non deciso da lui. E questo rende tutto più ambiguo. Ma anche, proprio per questo, molto più vicino ai giorni nostri.

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