(…) e io, nel mio corpo nuovo di zecca,
non ancora donna,
raccontavo alle stelle i miei problemi
e credevo che Dio potesse veramente vedere
il calore e la luce colorata,
i gomiti, le ginocchia, i sogni, la buonanotte.
Scrive così nei versi finali della bellissima poesia “Giovane”, Anne Gray Harvey, nata nel 1928 a Newton, vicino Boston, parlando della sua infanzia e adolescenza, dorate all’apparenza, tra gite in barca e viaggi. Appartiene a un’agiata famiglia del New England, bigotta e conformista, nella quale Anne non riuscirà mai a integrarsi.
Il padre è un industriale, dedito agli affari e all’alcool; la madre, discendente di politici e intellettuali illustri, è una donna algida e indifferente verso sua figlia.
Anne è bellissima, in un “corpo nuovo di zecca“ armonioso e affascinante ma cresce come un arbusto senza sostegni. Non dimostra una particolare predisposizione per gli studi, è irrequieta e ha un comportamento frivolo e sconveniente, che le procura non pochi problemi in famiglia.
Soffre in realtà di un disagio psichico, che si manifesterà drammaticamente in età adulta.
Appena ventenne si sposa con Alfred Sexton. La speranza che una famiglia tutta sua possa colmare i vuoti e tacitare i mostri del suo inconscio sono un’utopia, come racconta in un’intervista lei stessa:
“Stavo tentando l’impossibile per condurre una vita tradizionale… ma non si possono costruire piccole palizzate bianche per tenere lontani gli incubi. La superficie si spezzò quando avevo circa 28 anni. Ebbi un attacco di panico e tentai di uccidermi”.
Dopo la nascita della seconda figlia nel 1955, infatti, è vittima di una forte crisi di panico e tenta per la prima volta il suicidio, cui seguiranno crisi e un altro tentativo di avvelenamento. Verrà internata per otto anni in una clinica psichiatrica, durante i quali sua figlia crescerà senza di lei.
Nel poema “La doppia immagine”, da cui traggo alcuni versi, la Sexton passa al setaccio tutto il suo tormentato rapporto con la madre e la maternità, nel quale emergono gli incubi dell’ infanzia, le paure e il disperato bisogno d’amore. I sensi di colpa, con i quali ogni donna fa i conti, nella mente distorta di Anne Sexton, diventano Angeli cattivi, dotati di voce, un sibilo accusatorio, il soffio caldo di una società opprimente e maschilista.
La Sexton svela il segreto oscuro della maternità nei versi finali di questo poema: “Io che non ero mai stata certa… Ti ho fatta per ritrovarmi.”
Cos’è la maternità per le società umane, se non la sublimazione del ruolo di una donna? Ruolo nel quale Anne non riesce a identificarsi, cercando piuttosto se stessa in quella “topolina da latte“:
(…)
tutte le ipotesi mediche
che spiegavano il mio cervello non saranno mai vere
quanto queste foglie che si staccano.(…)
Io, che per due volte scelsi di uccidermi,
avevo pronunciato il tuo nomignolo(…)
Angeli cattivi mi parlarono.
La colpa, li sentii dire, era mia.(…)
Avevo bisogno di te.
(…)
Io, che non ero mai stata certa
di essere una bambina, avevo bisogno di un’altra
vita, di un’altra immagine che me lo ricordasse.
E questa fu la mia peggior colpa: tu non potevi
curarla o alleviarla. Ti ho fatta per ritrovarmi.
Durante la permanenza in clinica, è lo psichiatra, il dottor Martine Orne, a suggerirle di scrivere poesie come terapia. Anne Sexton accoglie con entusiasmo questo suggerimento e comincia a comporre ogni giorno una poesia. Racconta i suoi pensieri, usando le parole come pietre, che nelle sue mani si plasmano e si trasformano da rigide e informi a leggere e ariose, così come in Tu dottor Martin, da cui traggo alcuni versi:
Tu, Dottor Martin, passi
dalla colazione alla follia.(…)
E io sono la regina di questo albergo estivo
ape ridente su uno stelo
di morte.(…)
Certo che ti amo;
ti levi al di sopra del cielo di plastica,
dio di questo reparto, principe di tutte le volpi.(…)
Concetti pesanti come macigni che la sua penna satirica e dissacrante rende quasi divertenti, accattivando il pubblico. Prendiamo a esempio alcuni brani di un’altra poesia dedicata al suo psichiatra: “Disse il poeta all’analista” è un dialogo tra lei e il suo medico, nel quale sono messi in relazione due diversi tipi di ricerca:
Il mio lavoro sono le parole. Le parole come etichette,
o monete, o meglio, come uno sciame d’api.(…)
Il tuo lavoro è controllare le mie parole. Ma io
non lascio trapelare nulla.
Anne Sexton usa la parola come una spada, che impietosa squarcia il velo d’ipocrisia borghese, nel quale s’ammantano le donne, vittime di loro stesse e dei loro falsi ideali, e schiaccia la sua anima sulla carta, consegnando ai versi il suo corpo e le sue più intime emozioni. Tutto il mondo femminile viene passato al setaccio dalla poetica sextoniana.
Una casa “ha un cuore, una bocca, un fegato…“, così come nei versi della poesia “Casalinga”, una denuncia impietosa verso il ruolo nel quale la società degli uomini ha confinato la donna da sempre. La casa come surrogato d’amore, la casa come madre, dove riemerge quell’intrico già trattato da Anne Sexton, tra il ruolo di figlia e di madre che ogni donna vive e subisce.
Certe donne sposano case.
È un altro tipo di pelle; ha un cuore,
una bocca, un fegato e movimenti intestinali.(…)
Gli uomini entrano con la forza, risucchiati come Giona
nelle loro madri carnose.La donna è madre di se stessa.
È questo che conta.
Davanti a questi versi, tratti dalla poesia “Quando un uomo entra nella donna”, non si può rimanere indifferenti sia per il tema, che per le parole profondamente musicali e accattivanti. L’orgasmo è l’unico momento, nella vita degli esseri umani, in cui ci si avvicina alla “ cortina di Dio“. L’orgasmo è il volo di Icaro, è la sublimazione del concetto di felicità appagante, è l’utopia per eccellenza: “ma Dio/nella sua perversità/scioglie il nodo”.
Quando l’uomo
Entra nella donna,
come un’onda che addenta la spiaggia,
ancora, ancora,
e la donna spalanca la bocca di piacere
e le brillano i denti
come un alfabeto,
il Verbo appare mentre munge una stella(…)
Quest’uomo,
questa donna
nella loro duplice fame,
cercano di spingersi oltre
la cortina di Dio
e per un attimo ci riescono,
ma Dio
nella sua perversità
scioglie il nodo.
Come ogni buon poeta anche la nostra Anne ha crisi mistiche, dalle quali ne esce delusa. Dio è un padre padrone, è il grande maschio che chiede dedizione e sottomissione senza alcuna discussione.
Anne Sexton affronterà il rapporto con l’entità superiore, allo stesso modo di come fa con gli uomini, sarà ironica, pungente, sensuale, ma mai doma o sottomessa. In una delle sue ultime poesie, dal titolo Finendo di remare, così colloquia con Dio:
“Vieni avanti!” dice Lui così
ci sediamo sulle rocce accanto al mare
e iniziamo – non scherzo –
a giocare a poker.(…)
Carissimo mazziere,
io con la mia scala reale,
ti amo veramente tanto per il tuo jolly,
quell’indomabile, eterno viscerale ah – ah
e l’amore fortunato.
La sua poetica insieme a quella di Silvya Plath e Robert Lowell, che conobbe a un corso universitario di poesia, fu definita Confessionale, per l’impronta decisamente autobiografica dei loro versi.
Anne Sexton rispetto agli altri due è la meno letterata, più selvaggia e sanguigna, la sua poesia dissacrante ben s’adatta al linguaggio di ribellione che sfocerà nel movimento culturale, politico e femminista del ’68. I suoi readings facevano il tutto esaurito, lei era i suoi versi, non c’era retorica solo musica e passione.
Pubblicò in vita dieci libri di poesie, che vendettero migliaia di copie e nel 1968 le venne assegnato il Premio Pulitzer per la poesia.
Era il pomeriggio del 4 ottobre del 1974, giorno del suo divorzio da Alfred Sexton, quando, seguendo l’esempio della sua amica Silvya Plath, si toglie la vita con i gas di scarico della sua auto.
Ero stanca di essere donna,
stanca di cucchiai e pentole,
stanca della mia bocca e dei miei seni,
stanca di trucchi e sete.(…)
Sono nera e bella.
Sono stata aperta e spogliata.
Non ho né braccia né gambe.
Sono tutta di pelle come un pesce.
Non sono più donna
di quanto Gesù fosse uomo.