La più bella è dunque la nostra Costituzione. Ma potrebbe anche essere l’Italia, almeno quell’Italia che la Carta aveva disegnato. La più bella ci ripetono da settant’anni a scuola, nelle cerimonie di Stato, nei dibattiti televisivi. Ed è così.
Il 2 giugno 1946 avvenne il referendum che abolì la monarchia a favore della Repubblica. In quello stesso giorno si votò anche per l’assemblea costituente, che avrebbe avuto il compito di scrivere la nostra Costituzione, promulgata poi nel 1948.
Non a caso Alessio Lasta può ben dire che è la più bella e la migliore nel mondo. Bella e completa, ma purtroppo in settant’anni spesso disattesa, se non addirittura tradita nella vita concreta delle persone.
Gli italiani che resistono, quelli che nei diversi racconti Lasta ci presenta entrando con la sua penna e con il suo cuore nelle loro vite di tutti i giorni, a volte hanno persino dimenticato la Carta ma hanno acquisito la capacità di comprendere il sopruso, perché conoscono i propri diritti e questo è il nodo più doloroso di tutti questi racconti.
Sono storie di uomini e donne italiani e stranieri, di disabilità, di sfruttamento e di abbandono, problemi che la carta costituzionale, benché scritta alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, aveva previsto e normato, affinché fossero prontamente risolti.
La macchina amministrativa, che dovrebbe applicare le norme, ha falle profonde, dovute al clientelismo, al malaffare e alla politica (dei partiti), spesso tesa all’accaparramento dei voti più che a dare risposte ai propri cittadini che spesso le attendono, resilienti, da anni.
Alessio Lasta, classe 1977, è un giornalista che da decenni si occupa di dare voce e carne alle varie problematiche sociali, portando una ventata di speranza e lasciando un abbraccio fraterno e un sincero impegno.
Da anni lavora nella trasmissione di Corrado Formigli Piazzapulita, su La7, e molti di questi racconti hanno avuto una genesi proprio da servizi trasmessi per la televisione.
Ci infiamma l’io. Ci atterrisce il noi. Il loro, invece, non ha più alcun diritto di tribuna.
In queste poche parole si riassume il messaggio morale che Alessio vuole trasmettere, raccontando queste storie. Vuole smuovere le coscienze, implose nel qualunquismo sciatto ed egoista della folta schiera di esseri umani, che belano acquiescenti, che votano per clientela, che giudicano senza conoscere e che dormono sereni sopra una polveriera.
Oggi a Foggia le famiglie in emergenza abitativa, ovvero in condizioni di vita al limite della sopportazione, sono 257, 45 di queste vivono nei container del campo di via San Severo.
Sono numeri che fanno rabbrividire e sono dimezzati rispetto a quelli del 2004, che con puntuale attenzione Alessio ci ricorda, nel racconto dal titolo Fuori di Casa.
Fuori da quella che, paradossalmente, viene chiamata casa, quando invece è un container, un ammasso di lamiere che con il sole s’infuoca e con il freddo gela, utilissimo nei momenti di emergenza, come soluzione momentanea.
Dal caldo confortevole delle nostre case borghesi, con finestre, porte e bagni ci sembra impossibile che ci siano famiglie con bambini, anziani, disabili che siano costrette a vivere in condizioni così miserrime.
Quel che non stupisce, ma indigna profondamente, è il ruolo della politica, di qualsiasi colore e forma, serva di padroni e di sopraffazioni.
Mi colpiscono i pensieri di Alessio Lasta mentre entra nei container o nelle case di cittadini disperati, malati, brutalmente seviziati dall’assenza di una società giusta e solidale, che lo accolgono come una luce, una mano tesa, un aiuto.
Sono quegli sguardi, quelle mani, quelle condizioni assurde di vita e di morte, che fanno riaffiorare le storie lette nei libri e credute superate dalla modernità e dallo Stato di diritto, espresso dalla Costituzione.
La morte di Ioan Puscasu ha un prima e un dopo. Un prima fatto di menzogne, di mezze verità, quando va bene. Un dopo fatto di paziente ricerca, di ricostruzione meticolosa, di tenace lavoro per disseppellire la verità, appunto, dalle macerie che le erano state fatte cadere addosso.
Il racconto Non ci sono verità apparenti parla della tragedia del lavoro nero, dello sfruttamento e delle morti di lavoratori invisibili nel mondo dell’agricoltura.
Questa storia ha avuto un volto ed è stata scritta grazie alla tenacia di chi ha indagato e non si è fermato all’apparenza, cercando di fare emergere la verità. meni, indiani, africani, italiani, schiere di uomini e donne, grazie alle quali possiamo trovare ogni giorno sui banchi del mercato la nostra frutta e la nostra verdura tanto buona e tanto dura per chi lavora sotto il sole cocente, senza contributi e senza niente altro che una manciata di euro.
Queste condizioni, espresse anche in altri racconti. che sono tutti strazianti e bellissimi, ci devono scuotere dal nostro torpore, ci devono indignare per poter cambiare il nostro modo di pensare, di vivere.
(Purtroppo l’attuale governo nonostante le buone intenzioni originarie ha partorito una legge che non risolve il problema e forse lo complica).
Alle 11:07 di un sabato mattina Biagio Padula capì che la sua vita e quella di sua moglie Carla non sarebbero più state le stesse.
Cos’è la SLA? Una malattia terribile il cui nome mette il terrore solo a pronunciarlo. Come si manifesta e che succede in una famiglia che ne viene colpita, con i figli pieni di sogni per il loro futuro, appena iscritti all’università?
Alessio Lasta entra e fa entrare il lettore in questa casa dove, nonostante la disperazione e le difficoltà, non si è persa la dignità, l’amore e il rispetto. Con gli occhi di Carla, è il titolo di questo racconto, nel quale l’autore riesce a commuoverci non solo per la drammaticità della storia, quanto per la dignità e la sua forza sovrumana, sviluppata da una vita impossibile da vivere.
La stessa dignità che dimostra la famiglia del ragazzino curdo iracheno, affetto da sindrome di Duchenne, morto senza accoglienza a Bolzano, nella provincia più ricca d’Italia, perché un’assurda circolare provinciale vieta a tutt’oggi l’accoglienza di persone che abbiano già fatto domanda di asilo in altri Stati dell’U.E., da cui quella domanda era stata respinta. Il racconto si intitola: In morte di Abdullah.
Si respira in questo racconto e non solo in questo quell’acidulo odore nauseabondo dell’indifferenza razzista, che scandalizza e amareggia chi è cosciente dei danni perpetrati in Asia e in Africa dall’Occidente consumista, avido e profittatore, che esporta armi e immondizia radioattiva, invece di cultura e buone pratiche.
Alla fine di questo racconto, mi chiedo quanti conoscevano o avevano mai sentito parlare della discarica di Bussi. Quanti sapevano che è la più grande d’Europa. 58 siti d’interesse nazionale sono inquinati, 6 milioni di persone a rischio.
Il problema dell’inquinamento delle nostre terre è assai più grave di quel che si racconta. Ignoranza e malaffare, per non parlare delle mafie locali, riescono sempre a farla da padrone.
Terra Bruciata è il racconto che squaderna in maniera chiara e dolorosamente accorata la questione ecologica e sanitaria della discarica di Bussi sul Tirino, in provincia di Pescara e lo fa spiegando e chiarendo bene il percorso storico di questi danni, iniziati negli anni Sessanta. Ora si contano i morti, le malattie strane, ma non c’è una seria volontà politica e sociale di risolvere il problema.
Basta immergersi nel linguaggio di queste chat per capire qual è l’humus di coltura in cui questi adolescenti crescono. Queste piattaforme social di foto e video sharing sono sempre più spesso un non luogo senza regole.
Degrado e inquinamento che va dalla terra al corpo e alla mente delle giovani generazioni, incastrate e incatenate in un vortice che amplifica «nella forma mentis di chi educa: il maschio caccia, la femmina si fa cacciare». Degradoland è il titolo di questo racconto in cui si parla di abuso sui minori, spesso ragazzine, cresciute con dei principi distorti dalla televisione, dal web e dalla società, che attrae, al pari del fantastico Paese dei Balocchi, i nostri pinocchietti di carne nella rete infernale, che li travolge e li stravolge inesorabilmente.
…Non vogliamo la carità di nessuno e non ci servono promesse, vogliamo solo ci sia ridato quello che era nostro e magari tornare a passare in bianco solo una notte ogni tanto. Io sono uno di quelli che alle ultime elezioni vi ha dato fiducia, potete mantenere la parola e dimostrarmi di meritarla? Potete darci delle risposte concrete, per favore, per la salute mentale mia e della mia famiglia?
Matteo Michielin
Queste sono le ultime righe di una lettera che Matteo Michielin ha inviato ai politici Di Maio e Salvini.
I soldi di Matteo è la storia di una famiglia della provincia di Treviso che ha un figlio, reso disabile gravissimo da un incidente stradale, travolto da un albero caduto per mancanza di manutenzione, mentre passava in motorino. A seguito di una causa lunga e dolorosa contro l’amministrazione comunale a Matteo era stato riconosciuto un risarcimento da un milione di euro. Così i genitori avevano pensato di realizzare per lui una casa domotica, per renderlo indipendente anche quando loro non ci sarebbero stati più.
Ma appena in paese si viene a sapere del risarcimento la banca invia il suo funzionario che invita i genitori di Matteo a investire quel denaro in azioni non quotate della banca, quindi più sicure perché non soggette all’oscillazione della Borsa. “Potete riprendere le azioni quando vorrete”, aveva detto loro il funzionario di banca. Purtroppo non è stato così e quella di Matteo è una delle 200mila famiglie truffate da Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, il più grosso crac bancario della storia d’Italia.
«Alla fine non ho realizzato il mio sogno di fare il cameriere sulle navi da crociera, ma forse il sogno scritto nel mio destino era questo: restare qui, tra la mia gente e provare a fare qualcosa.»
Perché ti additano come lo sfigato dello Zen.
L’ultimo racconto, che potrebbe essere il primo, ha per titolo: Ai capaci e meritevoli.
È la storia di un ragazzo, Paolo, nato e cresciuto allo Zen, acronimo di Zona Espansione Nord, quartiere malfamato e povero di Palermo, che da bambino sognava di diventare cuoco sulle navi da crociera, ma ha dovuto lasciare la scuola prima del tempo per aiutare la sua famiglia in condizioni di indigenza.
La dignità, la serietà, il coraggio, la vitalità e non solo, espressi in questo racconto, sono i semi di una rinascita intellettuale e morale della nostra Nazione, che assomiglia a una nave senza nocchiere ma con zelanti marinai, che lavorano sommersi nella stiva.
Ho avuto il piacere di conoscere Alessio Lasta in seguito all’emergenza Covid, in quanto faccio parte anch’io del magnifico mondo dei disgraziati, tutelati dalla Costituzione e a volte dimenticati dalle istituzioni e per questo gli pongo alcune domande, in merito al suo libro davvero prezioso.
C’è un momento drammatico in cui ti trovi di fronte alla disperazione umana. Occorre saperci stare, non tirarsi indietro, senza mai livellare le emozioni che si provano. È un momento che arriva per tutti i giornalisti che abbiano voglia di vedere per poi raccontare.
Caro Alessio, prendo spunto da queste righe della tua presentazione del libro, per cominciare questa nostra chiacchierata e ti chiedo: puoi raccontare meglio ai nostri lettori cosa significa fare giornalismo d’inchiesta?
Significa prima di tutto raccontare fatti che si sono visti di persona o situazioni che si sono approfondite attraverso un’indagine che tenga in considerazione più fonti. Non ho mai creduto a un giornalismo neutrale, british, come si usa dire. Un punto di vista c’è sempre e non è sbagliato che ci sia. A patto che la lente con cui guardiamo la realtà non sia offuscata da pregiudizi, ovvero giudizi a priori, senza che si siano misurati con i fatti. Occorre avere il coraggio di raccontare gli eventi per quello che sono, anche se le parole che li descrivono sono dure e le immagini che li raccontano fanno male.
Occorre fare un patto di onestà con il lettore e il telespettatore: entrambi lo capiscono subito quando li stai prendendo in giro. Se invece si fidano di te allora si instaura una relazione fondamentale per la nostra democrazia e il giornalismo realizza quello per cui è in fondo pensato: denunciare le storture del nostro tempo, mettere chi può decidere nelle condizioni di cambiare le cose. Non penso solo alla politica, ma a un’infinita schiera di corpi intermedi che oggi possono fare la differenza.
A proposito del racconto Non ci sono verità apparenti, che ci dici dell’ultimo provvedimento preso dal governo, per risolvere questo problema?
Se ti riferisci alla regolarizzazione temporanea di 600mila braccianti posso dire che la ritengo necessaria, sebbene temporanea. Come dici tu ci sono schiere di invisibili che nelle serre e nelle nostre campagne ci consentono di avere sui banchi dei mercati le eccellenze del made in Italy alimentare. E lo fanno spesso non solo con il sudore dello sfruttamento, ma con il sangue della propria carne.
Nello stesso tempo le maxi sanatorie, senza discrimine alcuno, non mi hanno mai entusiasmato. Occorre vagliare situazione per situazione, per far sì che chi abbia davvero titolo e diritto per lavorare nel nostro Paese lo possa fare con un contratto, senza caporalato e sfruttamento e nel rispetto delle regole. Sanare e basta non risolve il problema. Occorre una legge di sistema che tuteli i braccianti nelle nostre campagne. Aggiungo: quanto è stata applicata la legge di contrasto al caporalato, approvata proprio quattro anni fa sulla scia delle morti di quell’estate torrida?
Hai toccato con molta sensibilità, con una prosa avvincente, le molteplici tragedie che si consumano sul nostro territorio, offrendo al lettore una panoramica molto nutrita di quanto sia disattesa la nostra Costituzione. Puoi raccontare brevemente ai nostri lettori il tuo percorso professionale e di studi?
Quello per il giornalismo è un amore che ho avuto sin da piccolo. Sono stato fortunato, ho sempre avuto le idee chiare su cosa volessi davvero fare della mia vita. Dunque tutte le scelte del mio percorso di studi sono state in qualche modo orientate verso questa direzione: riuscire un giorno a diventare giornalista professionista. Questo lavoro ti dà l’enorme privilegio di poter vivere ogni volta un pezzo della vita delle persone che stai raccontando.
Quindi dopo il liceo classico mi sono iscritto a Lettere. E dopo la laurea, ho fatto il concorso per entrare alla scuola di giornalismo a Milano. Dopo altri due anni ho sostenuto l’esame di Stato per ottenere il tesserino da giornalista professionista. Ho iniziato a scrivere sui giornali locali a 19 anni. Poi è arrivata la televisione, la mia grande passione. I primi stage e poi i primi contratti che mi hanno consentito di realizzare inchieste e reportage per Rai, Mediaset e ora La7.
Vista l’immane tragedia causata dalla pandemia del Covid 19, puoi raccontare brevemente ai nostri lettori, la mole di lavoro che hai svolto e svolgi quotidianamente, per fare chiarezza sui tanti lati oscuri di questa vicenda, che interessa tutti ma che danneggia sempre gli stessi italiani che resistono?
Sono stati più di cento giorni di racconto incredibile, a partire da quel 5 marzo, giorno in cui a Piazzapulita abbiamo trasmesso il primo servizio in assoluto da dentro una terapia intensiva. Le immagini di Carlo Vittucci, il filmaker che insieme a me è entrato nella terapia intensiva di Cremona, hanno fatto il giro del mondo e in qualche modo hanno cambiato la percezione delle persone rispetto al virus. Se ti ricordi fino ad allora, anche nel dibattito pubblico, si diceva che Covid-19 fosse poco più di un’influenza. Direi che la televisione ha contribuito a far prendere coscienza del fatto che quell’idea fosse totalmente fuori rotta. Da allora ho iniziato a realizzare una serie di reportage molto duri, soprattutto dal punto di vista emotivo, che raccontassero in presa diretta l’immane lavoro di medici e infermieri in quella che abbiamo chiamato la trincea contro il virus.
È stata la più complicata esperienza professionale del mio percorso, ma anche quella che mi ha lasciato un carico di umanità che ancora mi porto dentro: gli occhi dei malati, i volti pieni di lacrime dei parenti che avevano perso i loro cari, la fatica di medici e infermieri, l’angoscia per la mancanza di posti letto nelle terapie intensive da parte dei direttori sanitari. E poi il grande tema dei tamponi e dei test sierologici, cui ho dedicato numerosi servizi, proprio perché senza tracciamento reale dei contagi non riusciremo mai ad arginare davvero il virus.
Un plauso va fatto, è giusto dirlo, alla pazienza e alla comprensione degli italiani, alla loro resistenza, spesso solitaria nelle case delle valli bergamasche per esempio, dove sono stati in molti a morire da soli e senza un tampone. Un rispetto enorme lo dobbiamo anche alle famiglie dei disabili verso cui siamo in debito. Le abbiamo lasciate sole a gestire un tema così importante e spesso eliminato dal dibattito pubblico. Forse tutto questo non servirà davvero a renderci migliori, soprattutto perché noi italiani abbiamo un grosso difetto: siamo un popolo dalla memoria corta. Spesso cortissima.
Grazie Alessio a nome mio e della redazione di Storie Sepolte per la disponibilità e la simpatia e torneremo sicuramente ad incontrarci.