Chiamami col tuo nome

Chiamami col tuo nome: basta una scena per fare un film?

È un film lontano, sospeso a mezz’aria, indefinito, nonostante i tentativi di rimanere aggrappato all’ambiente e all’epoca in cui è calato, gli anni ‘80.  Sì, qualche manifesto elettorale, i cartelli stradali, qualche sgangherato discorso su Craxi. Ma una vera e propria ambientazione sfugge sempre, rimane nell’indeterminato, nell’onirico.

Chiamami col tuo nome è uno dei pochi film diretti da un italiano a partecipare agli Oscar, in quanto produzione americana, nella categoria Miglior film. Inoltre la pellicola è candidata nelle sezioni Miglior attore protagonista, Migliore sceneggiatura non originale, Miglior canzone. Ma torniamo a noi.

Crema, 1985. I Perelman, una famiglia ebrea molto benestante, invitano un giovane ebreo americano, aitante e belloccio a trascorrere l’estate nella loro bella villa. L’aitante giovane, che di nome fa Oliver, in quanto studioso di filologia avrebbe aiutato il signor Perelman a catalogare alcune recenti scoperte archeologiche. Oliver inizierà così a frequentare Elio, il figlio, un perfetto musicista, un grande lettore di poesia e filosofia, bello, dolce, perfetto in tutto. Sullo sfondo, i ragazzi della compagnia di Elio, e una ragazza un po’ troppo innamorata.

Si tratta della classica ambientazione da film americano girato in Italia: una famiglia agiata, personaggi possibilmente europei o americani, e, a regnare incontrastata, la famosa bellezza italiana. Non vedremo un oggetto fuori posto, un mobile men che raffinato, né un capannone industriale o qualche altra brutteria del genere: campagna, bei casali lombardi, grano e granturco, belle piazze e belle chiese. Guadagnino non è Zeffirelli, ed è parco di cartoline. Ma la sceneggiatura è di Ivory, e anche nella regia si sente la mano, si sente il classico innamoramento da Camera con vista, lo stile ricercato ed estetizzante delle scene.

Chiamami col tuo nome

La frase giusta l’ha detta Roy Menarini su Mymovies: «Guadagnino è un regista italiano che guarda all’Italia con occhi da straniero»[1]. Non è un caso che il regista di cui sente più l’influenza sia Bernardo Bertolucci. Il viso di Timothée Chalamet, Elio, assomiglia vagamente a Louis Garrel di The Dreamers; il casale e l’ambientazione campestre riportano alla mente Io ballo da sola; l’uso del colore ricorda gli ultimi film del maestro. E Bertolucci, soprattutto negli ultimi anni, è stato uno dei registi italiani più vicini alla produzione hollywoodiana.

Al netto di diverse, e gravi, imprecisioni nella sceneggiatura (se Oliver è un così attento filologo da sviscerare etimologie di lingue non sue, come può non conoscere un artista dell’importanza di Prassitele? Non solo: il Craxi di cui sopra diventa, magicamente, fautore del compromesso storico), questo sguardo “da straniero” è forse l’aspetto più irritante della pellicola, più difficile da superare. Si comprende cosa sia l’esotismo, quando lo si vede dall’altra parte. Quando, cioè, quelli esotici siamo noi, e non chi sta dall’altra parte del mondo. Il rischio è di assistere all’ennesimo film di cliché fatti apposta per piacere agli americani, in cui l’ambientazione non è nient’altro che una cornice evocativa.

D’altro canto non è sempre necessario che l’ambientazione significhi qualcosa. A volte non è nemmeno necessario che sia verosimile. In effetti, sembra che ad Ivory e a Guadagnino interessi ben altro. È la storia, una storia di amore e incomprensioni, ad essere al centro del film. Una storia in realtà semplice, anche banale, che abbiamo visto in tanti film. Qui la differenza sta nella natura inaspettata e problematica di questo amore, che non si mostra subito come tale, ma si sviluppa lentamente fino a trovare un punto di rottura, un punto in cui diviene inevitabile. E, come in ogni dramma che si rispetti, questo amore dev’essere consumato nell’arco di poche settimane, perché poi arriverà la separazione definitiva.

Certo, per raccontare questa storia, per raccontare l’urgenza dell’amore, l’urgenza della corporeità, la paura del non essere corrisposti, si potrebbe anche scusare i numerosi cliché. La cornice, per quanto artificiosa, è un grande pretesto per dispiegare una perfetta fotografia e una notevole abilità tecnica, utile a confezionare meglio la storia, utile a ricordarcela. Alla fine del film sono i verdi dei prati, gli azzurri dell’acqua delle rogge e dei ruscelli, i colori nitidi dei casali e del cielo, che si ricordano maggiormente. E, con essi, questo amore, questa urgenza.

Chiamami col tuo nome

Però, rimane ancora un dubbio. Se la recitazione dei due protagonisti è impeccabile, si ha la sensazione che Guadagnino abbia voluto stilizzare, per necessità di sintesi, lo spessore psicologico dei personaggi. Oliver ed Elio chi sono, alla fine? Due geni che si sono magicamente incontrati? Due ragazzi curiosi e buoni? Semplicemente due ragazzi belli? Chi sono? È questo che si perde, nonostante i dialoghi vogliano apparire, e a volte siano, colti e intelligenti. Ed ecco che ritornano ancora loro, i cliché. Il cattivo maestro è stato Rohmer, che amava citazioni ricercate, ambientazioni raffinate, personaggi della media borghesia colta. Ma in questo Rohmer rappresentava una crisi; rappresentava la velleitarietà di un mondo, e insieme la voglia di uscire dal mondo, di estraniarsi (come la rappresentò Truffaut con Le due inglesi). Qui invece la preparazione culturale dei protagonisti è un fatto di maniera, non una necessità narrativa.

È così che l’acclamatissimo film di Luca Guadagnino è perfettamente in linea con lo spirito dei tempi: tecnicamente ineccepibile nella fotografia (con anche un uso interessante della sfocatura, per esempio), impeccabile nella recitazione, musiche belle e sempre adatte. Eppure incredibilmente sciatto dal punto di vista dei contenuti: dialoghi poco più di servizio, luoghi comuni a non finire, un’Italia edulcorata che non è mai esistita, dei personaggi che sembrano vagare nell’etere, senza storia e senza un vero senso se non l’urgenza del loro amore.

Film come La vita di Adele, o Boyhood, dal grande e purtroppo effimero successo, avevano però una capacità del tutto diversa di raccontare la stessa urgenza, lo stesso amore, e lo facevano rappresentando una generazione vera, ragazzi veri, in carne ed ossa, senza rifugiarsi in una Lombardia anni ’80 che serve solo a mascherare l’inconsistenza dei personaggi.

E potremmo anche chiuderla qui, e dire che, tutto sommato, questo Chiamami col tuo nome non è una gran cosa, un film italiano per americani, un film americano per italiani che sognano di essere in America. Se non fosse per una cosa. Un dettaglio, una cosa da nulla. Una scena. Ecco, sì, una scena, senza la quale rischieremmo di sbagliarci di grosso. Si può salvare un film per una sola scena?

Non so se basti una sola scena a fare un film, ma c’è un momento in cui quella compostezza irritante che ci ha perseguitati per ben due ore si incrina, si spezza, e succede finalmente qualcosa. Un momento in cui il tempo si apre e tutto il cinema rimane lì, fermo. È proprio l’ultima scena.

A volte, nel cinema, nel teatro, accade che un gesto, una parola, apra per un momento le cose, le annulli per un attimo. Quando ci svegliamo, il film è finto, usciamo lenti dalla sala e il mondo ci appare impercettibilmente mutato. Ci portiamo dentro qualcosa, non sappiamo cosa, un pezzetto di ghiaccio.

 


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