Ecco la seconda puntata dell’incontro con il più grande poeta italiano vivente, Franco Loi, e i ragazzi dell’associazione di teatro Studio Novecento (puoi vedere qui la prima puntata). Questa volta le parole del poeta toccano il cuore dello scrivere. Cosa significa scrivere? E perché scrivere proprio in poesia? L’incontro tra il poeta e il mondo magico del suono della parola sedimenta nella mente, nell’inconscio, e crea la poesia. E da qui si comprende perché Franco Loi prediliga il dialetto milanese, la sua pastosità, il suo suono evocatore e arcano.
Domanda del pubblico:
Come ha incominciato a fare poesia?
Franco Loi
Eh, la poesia… tutti dicono «io quand’ero bambino scrivevo poesie». Io invece no. Anzi, mi interessava il teatro. Avevo nove-dieci anni. Le bambine facevano i costumi di carta, e recitavamo nei cortili. E la gente, gli amici dei ragazzi che recitavano ci applaudivano come matti, e poi facevamo cose ridicole, ma insomma…. Poi, dopo, mi sono occupato di politica. E dopo ancora, la musica. Tra i quindici anni, finita la guerra, e grossomodo i vent’anni, ho ascoltato grande musica. Avevo mio padre, che era appassionato di musica lirica, e mi portava con lui, perché entrava gratis, tra l’altro; era nella clacque, quelli che battono le mani, insomma. Ho ascoltato tutto quello che potevo ascoltare, Mozart, Bach, Vivaldi.
Poi ho incominciato a scrivere narrativa. Perché mi sono capitati per mano gli autori russi. Dostoevskij, Tolstoj, Chechov… e un mio amico, che è stato il mio maestro, diceva: «Se leggi un autore, non devi leggere un libro solo, devi leggerlo tutto. Perché può anche darsi che il libro che leggi non sia proprio uno dei migliori di questo autore. Devi leggerlo tutto. Per capire bene chi è questa persona e che discorso ti fa durante la sua vita». E allora leggevo tutto, di ogni autore. E ho scritto racconti anch’io.
Volevo fare qualcosa, dire qualcosa che sollevasse la gente dalle solite chiacchiere, dalle solite bugie che vengono dall’alto. Perché il politicante racconta sempre bugie. Perché il problema è governare. E non è facile. Allora, racconti, tentativi di romanzo… e poi nel 70’ o poco prima, Mondadori, ha pubblicato il grande libro del Belli. E io… mi ha colpito tantissimo. Le poesie del Belli mi hanno proprio… colpito. Io avevo conosciuto i poeti italiani, avevo conosciuto Montale, a casa sua, ma… mi stufiva il Montale, perché era uno mondano, chiacchiere… l’unica cosa che lo interessava davvero era la musica lirica. Se volevi parlare seriamente con Montale, dovevi parlare di musica lirica. E allora lui diventava un altro. Ma se no, erano chiacchiere inutili.
E allora, avevo letto i neoclassici, e poi i poeti di fine ottocento-primi novecento; avevo letto Dante. Ma io Dante l’ho letto proprio come un romanzo. Dante per me è stata una scoperta straordinaria. Ma quando ho letto il Belli, allora ho capito una cosa: che la poesia è musica. La parola, è musica, è suono. Ogni parola, è fatta di suono. Difatti un grande poeta irlandese, Yeats, ma questo l’ho saputo dopo, ha scritto che un vero poeta è più attento ai suoni che ai significati apparenti. E questo mi aveva colpito, molto. Ed è stata proprio questa musicalità – ecco, questo io lo dico sempre: quando eravamo ragazzi, facevamo un gioco.
Ci mettevamo in cerchio, e si contava: uno due tre quattro… tac, tocca a te: scegli una parola, e quello sceglieva la parola, e la diceva ad alta voce. E tutti noi insieme la ripetevamo. Poteva essere… polenta, mettiamo; poteva essere strada, pane… qualsiasi cosa. E ripetevamo, per esempio, polenta. Ad un certo momento un altro ragazzo alzava la mano, e diceva: «Sai che io non sento più il significato della parola? Ma non solo: la sento così: Plaaat…»; «Bravo» noi dicevamo «Adesso tocca a te scegliere la parola». E così facevamo questo gioco. E quello che è più strano, è che quando, anni fa, andavo a parlare nelle scuole, alle medie, alle elementari, non ho mai trovato nessun italiano che aveva fatto questo gioco, mentre invece ho trovato un’ucraina e un africano che l’avevano fatto.
E questo è un gioco interessante, perché ti fa sentire il suono delle parole. E la poesia è un sequenza di suoni. Tu hai in mente di raccontare le tue vicende, le storie, le rabbie, le gioie… però quando le scrivi, le scrivi in un modo strano. Io andavo per le stanze recitando i versi, e quando non ce la facevo più con la memoria a tenerli in mente, mi sedevo e scrivevo. Dopo un quarto d’ora, a volte dopo venti minuti, anche. O se no generalmente dopo dieci minuti mi toccava mettermi giù a scrivere, oppure continuavo a girare e a dire ad alta voce le parole che mi venivano, da me, da dentro.
Perché la poesia è come il sogno. Non è che tu vai a letto la sera e dici: «Stanotte mi sognerò una bella donna» oppure «mi sognerò il mare, la campagna…». No, tu vai a letto e sogni quello che il tuo inconscio ti suggerisce. Non sei tu con la testa. Non è la tua consapevolezza mentale che scrive la poesia. Zanzotto, una volta, ha detto una cosa che è molto importante, in modo negativo, della sua poesia: «Quando mi viene voglia di scrivere poesie, il primo verso viene da sé; però io mi ritraggo». Cioè: non continuo ad ascoltare l’inconscio. Perché ho paura di essere travolto.
E infatti se uno non ha almeno un’abitudine alla coscienza di sé, a stare attento a se stesso… il pazzo cos’è? Uno che non ha per niente coscienza di sé. E, venendo a mancare la coscienza, tu sei travolto dall’inconscio, perché è troppo grande l’inconscio, rispetto alla consapevolezza. Un poeta è quello che sa affrontare il proprio inconscio. È l’inconscio che ti detta. È la musica, il suono delle parole che ti colpisce.
Perché c’è, nel suono, l’emozione della parola detta attraverso il suono. Io la musica non l’ho mai studiata. Però, quante volte, quando ascoltavo Bach, a volte, mi veniva da piangere. E io non sapevo perché. Perché quella musica mi colpiva interiormente. Mi colpiva dentro. E non sapevo perché. Ci sono poesie mie, non mi ricordo neanche di averle scritte. E che quando le leggo, sono come poesie d’un altro. E dico: «Ma guarda! Interessante, questo…». È così. Perché la poesia è come il sogno. È il tuo inconscio che parla.
Mentre adesso io parlo, e voi state zitti, intenti ad ascoltare, sapete quante sensazioni, emozioni, indipendenti dal vostro ascoltare, passano dentro di voi, e dentro di me? C’è la luce, e i rumori di fuori, che solo adesso li sento, se no non li sento neanche. E allora questi entrano dentro di me. Magari ti chiedono: «Dove sei stato quest’estate?» «Eh, son stato al mare!» «E com’è andata?» «Eh bello! Il mare, meraviglioso, c’è stato bel tempo…» e racconti le cose più superficiali, gli incontri fatti, anche. E poi, se dovessi scriverlo, vien fuori tutt’altra cosa: vien fuori che magari ti ha colpito… una donna passando. O magari ti ha colpito tutt’un qualcosa dentro di drammatico che t’è capitato durante quell’estate, e non ti ricordavi nemmeno che fosse successa quella cosa lì.
È questa la grandezza della poesia. E non solo della poesia: perché Benedetto Croce dice, nel suo diario: «Nel filosofo accade il medesimo che nel poeta. Non è lui che filosofa, ma Dio o la Natura. Anzi, dirò di più: è la cosa che pensa se stessa in lui». E questa è una grande cosa, che dice: «è la cosa che pensa se stessa in lui». Nell’antichità, i grandi templi avevano questa scritta: «conosci te stesso». Perché questa è la cosa importante.
La conoscenza di se stessi è fondamentale per sopportare, e forse amare, e capire l’altro. Perché la società sta insieme nella comprensione che abbiamo dell’altro. E quindi la comprensione prima di tutto di noi stessi. Perché se no la società non sta in piedi. Si sfascia. La poesia è uno dei mezzi straordinari che abbiamo, di conoscenza di noi stessi. Perché diciamo le cose che ci vengono da dentro. E allora impariamo qualcosa.
Ringraziamo Franco Loi, Rudy Toffanetti e Marco Pernich, nonché Luca Sala per la fotografia in copertina.
Franco Loi (Genova, 1930) è un poeta e scrittore italiano. Ha scritto in milanese, italiano, genovese e colonnese (dialetto di un paese emiliano dov’era nata la madre). Giovanissimo, si è trasferito a Milano, dove ha sempre vissuto. Ha pubblicato con Einaudi la raccolta di poesie Stròlegh, nel 1975; con Il Ponte pubblica Lünn nel ’78; nell’86 pubblica Bach, mentre nel ’94 esce l’edizione definitiva del suo romanzo in versi, L’angel.