Prima il silenzio. Subito dopo, sinuoso e sinistro, dal silenzio emerge un riff di chitarra[1], alla cui prima ripetizione si aggiunge sottovoce una batteria. Un grido del cantante, e tutto si anima: la chitarra continua imperterrita con una terza e una quarta ripetizione del riff che a questo punto, però, si arricchisce di una seconda chitarra, di un basso e di un rullante. Al ritmo sostenuto del pezzo fa da contrappeso una linea melodica languida e triste, dotata di un qualche cosa di macabro. L’effetto, irresistibile, è quello che farebbe la vista di un gruppo di scheletri che ballano la rumba.
Così si apre Gospel Bombs, il primo e unico album di una band fantasma.
Non parlo per esperienza diretta, ma credo che Vincent Vincent sia uno di quei nomi in grado di rovinare un’infanzia. Non quanto Italo Bocchino, ma siamo lì. Nulla di più naturale, quindi, del fatto che un bambino che abbia passato i più verdi anni della sua vita a sentirsi rivolgere apostrofi imbarazzanti decida, una volta cresciuto, di lasciarsi i tempi cupi alle spalle mettendo insieme una rock band. Magari non è andata esattamente così, ma guardando in rete non abbiamo reperito materiale atto a smentire questa ricostruzione dei fatti[2].
Vincent Vincent mette insieme i Villains – “i cattivi” – nel 2003. Per farsi conoscere, il giovane gruppo fa tutto quello che fanno normalmente i giovani gruppi: deliziano gli avventori dei pub con gig più o meno improvvisate, e cominciano a sparar fuori singoli[3] con le piccole case discografiche sufficientemente lungimiranti da offrir loro una qualche opportunità. Il secondo e il terzo singolo, usciti con una non-poi-così-piccola etichetta come quella recante il programmatico titolo di Young and Lost Club, cominciano tuttavia a fare un certo rumore sulla scena musicale britannica. Non molto, ma abbastanza da far sì che il quarto singolo della band, uscito nell’ottobre del 2006, possa fregiarsi in copertina dell’invidiabile patrocinio della EMI.
Il salto di qualità non è senza conseguenze. La formazione iniziale dei Villains, sin dal momento della loro nascita, comprendeva due frontman: Vincent Vincent e Charlie Waller. I due erano amici, ma chiunque abbia ascoltato Il complesso del primo maggio di Elio e le Storie Tese[3] può facilmente immaginare che tipo di dinamiche finisca di solito per instaurarsi in una qualsiasi band basata su un simile, delicato equilibrio. In questo caso la bomba esplose perché Waller, di fronte alla prospettiva di impegnarsi seriamente con la band firmando il contratto con la EMI, preferì battere in ritirata e puntare tutto sull’altra band di cui faceva parte come cantante, The Rumble Strips. I Villains non la presero bene.
Dopo la defezione di Waller, la formazione del gruppo si arricchì di un basso e di una seconda chitarra, e con questo nuovo line-up consegnò alla EMI il suo primo singolo. Si intitolava Johnny Two Bands, e non era una cosa simpatica. Dal punto di vista musicale era una canzone splendidamente riuscita, forte di una bella energia scanzonata. Il testo, tuttavia, era una sgradevole puntina nella scarpa del povero Charlie Waller, accusato senza mezze misure di aver tradito una band in cui, tra l’altro, non aveva mai nemmeno creduto fino in fondo. Per quanto grande sia stata la delusione dei Villains nel perdere uno dei loro membri fondamentali, bisogna dire che la scelta di aprire una carriera con un pezzo del genere fece fin troppo onore al loro nome.
Mettendo da parte la sua intrinseca animosità verso il “traditore” Waller, Johnny Two Bands ricevette dalla critica una buona accoglienza. La sua estetica indubbiamente rétro poteva piacere o non piacere, ma si staccava in modo molto netto dal mare magnum del cosiddetto indie rock[5], etichetta più che mai fosca e nebulosa per un genere molto godibile, ma che porta fin troppo spesso all’enunciazione di commenti come “Ehi, ma questa indie rock band ha esattamente lo stesso sound di quell’altra indie rock band” sotto i video di youtube.
Di questa peculiarità i Villains facevano un punto d’onore, come Vincent Vincent ebbe a dichiarare in un’intervista: “Mi piace questo genere di approccio onesto, casalingo – non è un qualcosa di patinato o di untuoso. Al contrario, sta quasi insieme per miracolo, […] ma almeno la nostra musica, il nostro stile e tutto il resto è completamente sincero.[6]” La sincerità fu premiata, e nel marzo del 2008 il primo album di Vincent Vincent and the Villains vide finalmente la luce.
Non siamo qui per fare della propaganda gratuita, perciò non mi costa nulla ammettere che Gospel Bombs non è assolutamente un album privo di difetti. Il più evidente è che gli ultimi pezzi della track list faticano non poco a tenere il passo dei primi, ma c’è anche il fatto che lo stile rétro dei Villains sembra a volte mettere una pezza su una certa mancanza di originalità nella scrittura. La qualità dei testi è variabile. Le strizzate d’occhio al rockabilly anni ’50 possono talvolta risultare stucchevoli.
Detto questo, sticazzi.
L’album si apre con Beast, una delle first tracks più pazzesche mai partorite dalla mente dell’uomo. Dopo il gaio interludio di Blue Boy, vengono infilate una dopo l’altra due incredibili perle come Sins of Love (Wah do) e On My Own. È poi il turno di Cinema, tragicomico spaccato della vita di un addetto al botteghino, raccontato con agra ironia su un accompagnamento che è quasi un lungo sbadiglio musicale. Killing Time è deliziosa, e chi riesce a trattenersi dall’unire la propria voce al refrain di Pretty Girl – maldestro tentativo di abbordaggio di una ragazza incontrata al supermarket – ha probabilmente raggiunto il Nirvana. È solo a partire da Jealousy and Bitterness che il disco comincia a sedersi un po’, ma a questo punto l’ascoltatore non deve fare altro che rivedere in modo rapido le proprie aspettative: la prima parte dell’album era fatta per stupirlo, la seconda per intrattenerlo.
Tanto divertimento quindi, ma non solo. C’è qualcosa di grande nel burlesco cinismo di Sins of Love, nei suoi vocalizzi alla Screamin’ Jay Hawkins[7] sostenuti da un petulante e tombale coretto che ricorda in modo ossessivo i lati più oscuri dell’amore: «Why do the seeds of doubt grow in the mind? / Well, there ain’t no fear like the loving kind[8]».
Oppure si pensi anche a On My Own, paradossale inno all’individualismo sparato fuori su una vera esplosione di energia musicale: distraendosi un attimo dal trascinante refrain è possibile, anche in un pezzo del genere, trovare un’immagine poetica di grande efficacia come «Well, I won’t take this for granted / Because nothing’s as it seems, / And I don’t wanna cut myself / On other people’s broken dreams[9]».
Gospel Bombs fu accolto dalla critica in modo vario, ma tendenzialmente ottimo. La sua “dastardly majesty[10]” riscosse il plauso generale, facendo presagire per i Villains e per il loro leader dal doppio nome un radioso futuro come volontari e consapevoli outsider della scena indie rock inglese. E tuttavia, come può confermarvi praticamente chiunque cui si provi a domandare se per caso li conosca, così non fu.
Per motivi non chiari, poco dopo l’uscita del disco la EMI rescisse il contratto con la band. La promozione di Gospel Bombs cessò bruscamente, facendo cadere nel vuoto gli accordi per l’uscita di un terzo singolo estratto dall’album. Stremati dalla batosta, i Villains si sciolsero: la loro ultima apparizione in pubblico risale al settembre del 2008, cinque mesi dopo l’uscita del loro primo – e unico – piccolo capolavoro.
Paradossale è il fatto che, tra gli ex membri dei Villains, l’unico sul quale si possano ancora trovare facilmente informazioni su internet sia Charlie Waller. I Rumble Strips si sono ritagliati un buono spazio nel mondo dell’indie rock: fanno buona musica; buona e dimenticabile. Vincent Vincent è sparito: qualche commento in giro per la rete informa che si è unito a un’altra band, della quale tuttavia non mi è stato possibile trovare nulla da ascoltare. Buio completo sugli altri. Se si eccettua qualche vecchia intervista rilasciata dal gruppo subito dopo l’uscita di Gospel Bombs, la principale fonte di informazione sui Villains resta la voce a loro dedicata su Wikipedia: in fondo alla pagina, il link per il sito ufficiale della band reindirizza il curioso lettore a una pagina scritta in giapponese.
Quest’aura di mistero non mi infastidisce, anzi. Per uno come me, che ama ravanare negli archivi dell’arte per andarne a pescare i nomi più improbabili, la brevità dell’esistenza dei Villains riesce quasi ad aggiungere fascino alla già altissima qualità della loro musica. Cerco di perpetuare il ricordo delle uniche venti canzoni che ci sono rimaste di questo gruppo di sbandati con una tenacia che forse sarebbe minore, se avessi a disposizione altri tre o quattro Gospel Bombs con cui divertirmi. Ho cercato in lungo e in largo informazioni sui Villains, e tuttavia il miglior giudizio che sia stato espresso su di loro si deve, a mio parere, a un anonimo utente di youtube. Sotto il video di Johnny Two Bands campeggia tuttora il miglior commento e il migliore omaggio mai tributato alla bizzarra cometa che attraversò, soltanto per un attimo, l’immenso cielo della scena musicale britannica: «The best band that never happened[11]».