Mettimi tra i centri,
come fossi una di loro
ancora incolume, non fuoco sulfureo
nient’altro che un istante sconosciuto.
Liberami dalla fame di memoria
spediscimi lontano senza messaggi
una volta almeno per la durata di una fitta al cuore
come la storia del fiore di nessuno.
Appoggia bene il tuo piede,
lungo le mie linee della vita
la pietra lucida ti serba rancore.
Le mie mani, una treccia di fiato,
non sanno niente dell’affidabilità
di radici con un domicilio,
derubate di ogni terra
conducono una vita d’aria.
Provvista di speciali garanzie,
che nessuno capisce, non
la mia ombra, non il mio
cuore, oggetto ritrovato,
così mi consegno, ancora goffa
a piedi migranti.
Un poeta si presenta con i suoi versi, tra le maglie delle parole nasconde le sue lacrime e i suoi perché senza risposta.
Mariella Mehr, l’autrice di questa lirica, è nata a Zurigo da una famiglia zingara di ceppo Jenische nel 1947.
Fin qui non ci sarebbe nulla di strano, se non fosse che i suoi versi trasudano oppressione, rabbia, persecuzioni, e quella sensazione di “piedi migranti “, di un Ulisse senza Itaca, al pari dei migliori versi di poeti perseguitati dal nazi-fascismo. Viene spontaneo, dopo il primo approccio empatico con la parola poetica, fare una ricerca per conoscere meglio l’autrice. A questo punto c’imbattiamo in una storia incredibile e assurda, che sono certa, lascerà sgomenti molti di voi, così come è successo a me.
Seguendo le tracce di Mariella, conosciuta grazie al blog Interno Poesia, si viene a scoprire una Svizzera sconosciuta ai più. Una Svizzera razzista che ha portato avanti un programma, denominato Pro-Juventute, ai danni delle etnie zingare e nomadi, istituito nel 1926, in pieno clima di cultura eugenetica di pulizia della razza, che spirava anche in Europa, fino al 1981.
L’etnia nomade Jenishe è stata particolarmente perseguitata in terra elvetica, risalgono al 1500 i primi tentativi forzati di assimilazione della cultura occidentale.
La cosa più dolorosa e sorprendente è che in Svizzera sono continuate indisturbate le persecuzioni ai danni di questi bambini, fino ai primi anni Novanta del secolo scorso.
Ancora ti prospera il fogliame intorno al cuore
e una fresca presa di sale
impregna il tuo sguardo.Di me nessuno vuol sapere,
di chi io sia la spezia
e di quale amore la durata.Spesso canta il lupo nel mio sangue
e allora l’anima mia si apre
in una lingua straniera.Luce, dico allora, luce di lupo,
dico, e che non venga nessuno
a tagliarmi i capelli.Mi annido in briciole straniere
e sono a me parola sufficiente.
Effimero, mi dico,
perché presto cesserà ogni annidare,e scorre via il resto di ogni ora.
Mariella Mehr ha subito l’allontanamento dalla sua famiglia e l’allontanamento da suo figlio, quando rimase incinta poco più che diciottenne, cosa che ha devastato la sua esistenza e il suo equilibrio psichico, motivo per il quale è stata più volte internata in manicomio, dove ha subito trattamenti di elettroshock.
Dolore su dolore che ha lastricato il pavimento della sua casa poetica, dove venti di rabbia e scariche elettriche hanno provato a portare caos, morte e distruzione.
Per sopravvivere alla profondità del vuoto bisogna sapersi costruire “una cappa magica“, un elmetto che protegga l’anima, permettendo così al cervello di trovare il giusto ossigeno, che gli consenta di aspettare “paziente“, che finisca l’onda di fango del sopruso, della violenza borghese e mediocre del potere, del dolore e della disgrazia.
La bellezza della poesia e dei suoi segni è tutttta nell’immedesimazione del lettore, quando percepisce i versi come carezze sulla pelle, quando ascolta la parola, che gli definisce i contorni netti entro i quali trovare conforto e aiuto.
Questo deve essere il primo impatto con la poesia, al di là di chi l’abbia scritta, della sua storia, che sono passaggi successivi. Grazie ai poeti e alle loro esistenze, noi conosciamo della storia i suoi particolari, che altrimenti non avremmo conosciuto. Ecco perché la poesia non è una pratica letteraria avulsa dalla realtà, chiusa nei versi misteriosi dei poeti. La poesia è carne che pulsa, a volte l’odore acre del sangue ci obbliga ad allontanarci, ma è proprio in quel pungente odore di dolore, che dobbiamo ascoltare il nostro cuore.
Verso la cappa magica
si è raccolto dello spirito
nella putrida Sodoma.
Niente mitiga la luce
isolata tra
i pensieri e la morte
una parte di me stessa
si dichiara un vegetale
nel fango
e aspetta paziente.
La cappa magica nel frattempo
protegge il mio dolore
senza il quale non ci sarebbe vita.
La Mehr è una delle quasi cinquantamila vittime del progetto Kinder der Landstrasse, di cui oggi la Svizzera fa mea culpa: si trattava di un progetto rieducativo istituito dall’associazione Pro-Juventute, attivo dal 1926 fino al ’73 che aveva come obiettivo la rieducazione e la “normalizzazione” della popolazione Jenisch in Svizzera, i cui bambini venivano tolti alle loro famiglie per essere portati in orfanotrofi o addirittura in ospedali psichiatrici. Mariella Mehr è stata tra le prime, con i suoi articoli e i suoi libri, a denunciare al mondo cosa succedeva tra le fresche fronde e i delicati laghi svizzeri.
Dal 1975 la Mehr, finalmente libera, lavora come giornalista. È autrice di libri di poesie, romanzi, opere teatrali, di cui solo alcune sono uscite in Italia.
Attualmente vive in Toscana.
Finalmente senza sguardo
il mio occhio mi lascia riposare
cieca cerco a tentoni
le membrane
di giornate divenute insipide
Resti del vedere mi insidiano
pacco senza sentimenti
ma a chi sto parlando nel destino?
Sono il nido e nello stesso tempo
il cibo di un capovaccaio.
Sono affamata come tutto ciò
che ha sognato la fedeltà di un uomo
e l’erba del fanciullo.
E ora?
Una fuga nuova?
Più precisa di qualunque altra passata.
Prendila, prendi
che esploda delicatamente nel tuo cervello
che vi metta ordine, solo
la musica sa levigare,
mai la parola.
Quando siamo stati strappati dalle nostre origini, quando hanno provato a riprogrammare la nostra esistenza, per omologarla ad altre migliaia di vite senza senso, la fuga è l’agognato sogno che ci ha tenuto in vita nei momenti più oscuri e senza ossigeno. Fame d’aria, di sorrisi, di musica, di libertà, di vita è l’ossessivo bisogno che stimola la resistenza, la ribellione, l’intelligenza, che si racchiude in una parola. Così come Paul Celan o Nelly Sachs, vittime sopravvissute alla furia nazista, la Mehr s’interroga sul potere della Parola, che non mitiga l’orrore, che non solleva e non cura. La musica non ha i limiti della Parola, che ci esplode dentro, frantumandosi in migliaia di schegge pungenti, è la sola in grado di levigare le punte acuminate, portando sollievo e coraggio.
Poco ha a che fare con gli esseri umani
l’aridità della luna.
Eppure è lì che fiorisce
la verbena del cuore dalle rovine della luce,
il giallo pozzo a carrucola dal fuoco lontano.Per giorni e giorni ho corso nella neve,
non mi sono riscaldata
e nessuno ha mantenuto la parola
quando la mia si è infranta sul passo
e sul rossore iracondo del cielo.
Quando il silenzio ha mutato il mio piede in pietra.Neve, dunque, neve e carne
in cui nessun canto soffia la vita,
che porterebbe me all’aridità della luna
oppure – anche questo -, che potrebbe essere redenta
dai coltelli, come ultima consolazione.Ero leggera come un uccello
con le penne d’oro, un segno nel vento serale
e avvolta nello stupore del bambino.
La mia bocca è passata oltre questo tempo felice,
non vuole imparare a vedere, quando il giorno la interroga
e cerca di afferrare un sorriso.Anche gli angeli, ora, sono diventati ciechi.
Sono versi potenti, che ci lasciano impressionati, perché ci coinvolgono direttamente nell’orrore e nel dolore, grazie all’utilizzo di una terza persona impersonale, che proprio per questo ha il volto di ognuno di noi. Strappati dal “tempo felice“ ci ostiniamo ad afferrare il sorriso, misero secondo di serenità, che la vita tiranna ci dona.
Niente,
nessun luogo.
C’è ancora rumore
di sventura nella testa,
e sulla mappa del cielo
io non sono presente.Mai è stata primavera,
sussurrano le voci di cenere,
sulla bilancia del linguaggio
sono una parola senza peso
e trafiggo il tempo
con occhi armati.Futuro?
Non assolve
me, nata sghemba.
Vieni, dice,
la morte è un ciglio
sulla palpebra della luce.
Il futuro non assolve chi ha già male iniziato la propria vita. Una verità assoluta, che comprende chi è nata “sghemba“, quando, sul calar della sera dell’esistenza, fa bilanci. La parola della poesia sulla bilancia dei linguaggi ha perso consistenza, “sono una parola senza peso “,tale è diventata la poesia in questa società anti-umanistica, tecnologica nel suo non senso, nella quale è di casa la follia di gesti inutili, di parole oscene, di immagini scioccanti, dove il delirio ha scompaginato ogni morale, ogni sentimento, dove della parola resta una trafittura nel tempo infinito dell’esistenza “con occhi armati “ di luce e suono.
Quando m’imbatto in un poeta, che veste con i suoi versi i miei pensieri, le mie sensazioni dolorose e non, che m’invadono prepotenti, senza voce, senza suoni, non smetterei più di sezionarli, come fossero prelibati bocconi da mangiare lentamente. Mi congedo da Mariella con questa poesia, nella quale ognuno è contemplato, perché “ognuno incatenato alla sua ora“.
Guardiamo separati nel mondo
ognuno incatenato alla sua ora
le nostre mani toccano una costellazione
per l’ennesima volta senza conseguenze
Nebbia avvolge quell’altrove senza sponde
nebbia si appoggia sulla mia spalla
diventa pesante, più pesante, diventa pietra
Una sola parola captata origliando
voglio estrapolarla e conservarla
perché resti indietro una ferita aperta
per mia consolazione, una strada dentro il domani
Bastava la speranza? E allora sperate con me
tutti voi soccombenti
Spera anche tu
cuore mio
un’ultima volta
In Italia è stato pubblicato un libro di poesie: Notizie dall’esilio (Nachrichten aus dem Exil, 1998), edizione italiana curata e tradotta da Anna Ruchat, (con traduzione in lingua rom di Rajko Djurić), Milano, Effigie Edizioni, collana Poesia, prima edizione, 2006; i romanzi Steinzeit (Età della pietra, Aiep,1995), Brandzauber (Il marchio, Tufani 2001) e La bambina, Effigie Edizioni, 2006.]