James Tissot Vacanza 1876

Vedere leggendo: i paesaggi “enargaietici” di Ann Radcliffe

Perché leggiamo romanzi?

Alcuni risponderanno “perché leggere fa bene”, o “leggere insegna come esprimersi meglio”, o ancora “la letteratura permette di approfondire la psiche ed i significati profondi dei personaggi come nessun altro medium”. Meno scontato è provare a immaginare a come avrebbe risposto alla stessa domanda un lettore di più di duecento anni fa. Se avessimo posto la stessa domanda ad un inglese del diciottesimo secolo probabilmente avremmo ricevuto una risposta inaspettata: “leggo romanzi per vedere luoghi lontani”.

Noi, abituati a videogiochi con una computer grafica da fare invidia a Hollywood, film HD, ultra-HD, cinema Imax e 4D, non siamo certo abituati ad associare il genere del romanzo al senso della vista. Anzi probabilmente, tra tutti i media, il libro non illustrato è quello che consideriamo il meno visuale in assoluto, a pari merito con la musica. Eppure per millenni la parola, scritta o pronunciata, è stata ritenuta lo strumento più accurato per trasmettere immagini. Addirittura superiore alla rappresentazione artistica scultorea e pittorica perché, mentre una statua o un quadro catturano solo l’apparenza illusoria di un’oggetto filtrata attraverso gli occhi dell’artista, la parola può raccontare un (s-)oggetto nella sua vera essenza. È il concetto di logos, strumento conoscitivo per eccellenza della filosofia antica.

Certo, stiamo parlando di un’epoca precedente all’avvento della fotografia e di ogni possibilità tecnologica di produrre impressioni della realtà in maniera automatica e quindi, presumibilmente, oggettiva. Eppure persino noi abitanti del Ventunesimo conosciamo l’esperienza di “vedere” ciò che stavamo leggendo: una scena, un paesaggio, il volto di un personaggio. Una vera e propria immagine mentale che prende forma all’improvviso come se apparisse davanti ai nostri occhi.

Si tratta di immagini nel vero senso della parola: la nostra mente percepisce questi oggetti come stimoli visivi veri e propri. Pensiamo alla delusione che spesso ci coglie quando vediamo per la prima volta il volto di un attore scelto per il ruolo di un film di cui abbiamo precedentemente letto il romanzo. Ci sentiamo spaesati, ingannati, traditi, perché il volto di quell’estraneo non ha nulla a che fare con quello del personaggio nella nostra mente, a cui siamo tanto affezionati. E poco importa se il viso che abbiamo attribuito al protagonista del libro fosse quello di un nostro conoscente o di un ragazzo incrociato una mattina sulla metro: quella è la vera faccia di quel personaggio e nessun attore di fama internazionale potrà mai sostituirla.

Ma come può un testo scritto, monotona sequenza di piccoli segni grafici su sfondo bianco, generare una vivida immagine mentale nella testa di chi legge? Cercheremo di rispondere a questa domanda chiamando in causa un altro concetto proveniente dal mondo classico, questa volta legato non tanto alla filosofia quanto alla retorica: l’enargeia.

Gli antichi definivano il concetto di enargeia come la “vividezza” di un testo, cioè la capacità di un tale testo (scritto o orale) di evocare immagini vivide nella mente del pubblico. Nell’Institutio oratoria Quintiliano cerca di spiegare come può il buon retore infondere il proprio discorso di energeia e quale sarà l’effetto su chi ascolta. Il retore utilizza la sua immaginazione per generare un’immagine vivida nella sua mente: è a questa immagine che farà riferimento durante la costruzione del suo testo. L’ascoltatore è così portato a ripercorrere il processo nel senso inverso, ricostruendo l’immagine mentale a partire dal testo. Il bravo retore si pone come scopo quello di smuovere il suo auditorio, di farlo sentire presente agli eventi descritti.

Ian Replin, Lettrice, 1876
Ian Replin, Lettrice, 1876

Il primo corollario è che non può esistere enargeia senza la presenza di un fruitore del testo. Uno scrittore può creare un testo che evoca immagini dettagliatissime nella sua mente, ma se chi legge non è in grado visualizzare nulla allora non possiamo definire il testo “enargaietico”. L’enargeia è creata dalla relazione dinamica tra autore, testo e lettore, pertanto nessun testo è “enargaietico” in senso assoluto. Un testo estremamente visivo per un lettore può non esserlo per un altro. Questo è anche il motivo per cui si preferisce il termine “immaginazione” a “visualizzazione”: il lettore non si limita a proiettare nella sua mente immagini già esistenti all’interno del testo, ma ha un ruolo attivo nel processo di creazione delle immagini.

Il secondo corollario è diretta conseguenza del primo: livello e qualità dell’enargeia dipendono direttamente da quanto l’immaginario del lettore coincide con quello dell’autore. Se i due condividono esperienze simili e la conoscenza degli stessi e riferimenti culturali, allora le immagini evocate nelle loro menti saranno molto simili. Due persone che vivono in mondi mentali distanti, invece, daranno vita a immagini molto differenti. L’enargeia si manifesta nel testo proprio sotto forma di riferimenti, frasi, espressioni o singole parole che, proprio come i link di una pagina web, invitano il lettore a proiettarsi al di fuori del testo, facendo appello alle proprie conoscenze personali. Possiamo individuare almeno tre tipologie di trigger:

  • Quelli che si riferiscono all’esperienza comune e alla cognizione “incarnata” (embodied in inglese), cioè alle conoscenze che derivano dall’interazione quotidiana tra il nostro corpo ed il mondo. Aggettivi come “verde” e “rosso”, “caldo” e “freddo”, concetti come “sopra” e “sotto”, immagini mentali come il dolore di un chiodo conficcato sotto un’unghia o il sapore di una fragola matura. Si tratta di concetti che creiamo nella nostra mente a partire da esperienze corporee e per questo, salvo nel caso di patologie, sono universali.
  • Quelli emozionali. Tendiamo a pensare che sentimenti ed emozioni siano universali, ma non è sempre così. L’antropologia psicologica ci insegna che esiste un set di emozioni condivise (presumibilmente) da ogni essere umano: paura, rabbia, disgusto… Ma se pensiamo a costrutti più complessi, la questione cambia sensibilmente. Le favole Disney ci hanno insegnato che l’amore è il sentimento universale per eccellenza, e invece all’atto pratico risulta uno dei più variabili in base a luogo ed epoca. Basti pensare che l’autore medievale Andra Cappellano nel suo manuale De Amore sostiene che non possa esistere autentico sentimento amoroso all’interno del matrimonio!
  • I riferimenti culturali. Se leggendo incontro una frase del tipo “La foresta era identica a quelle che si vedono nei quadri di Salvator Rosa” si aprono due possibilità. Se non ho idea di chi sia Salvator Rosa, nella mia mente non apparirà alcuna immagine mentale, al massimo quella di una generica foresta non meglio definita. Se invece conosco il pittore napoletano e ho visto alcuni dei suoi quadri, i ricordi di questi verranno immediatamente richiamati nella mia mente e, sovrapponendosi ed assemblandosi alle altre informazioni del testo, concorreranno a creare una nuova immagine mentale: quella di una foresta scura e lugubre, probabilmente popolata di spiriti maligni. I riferimenti culturali sono quelli che più di tutti variano da persona a persona e la capacità del lettore di coglierli può cambiare completamente la sua percezione del testo.

Per fare un esempio concreto ho scelto un passaggio de I misteri di Udolpho di Ann Radcliffe (1794). Ann Radcliffe è la regina indiscussa del romanzo gotico settecentesco: le sue storie di castelli infestati, briganti, foreste spaventose e fanciulle che combattono per preservare la loro innocenza dalle mire di nobili senza scrupoli erano estremamente popolari tra i suoi contemporanei e hanno posto le basi della letteratura horror contemporanea. Il romanzo gotico  è il genere che più di tutti si presta ad una riflessione sulla natura del “vedere leggendo”, proprio perché interamente fondato sulla tensione tra spettacolarizzazione del visivo (le categorie estetiche del mostruoso, dello splatter, del raccapricciante, del macabro) e la negazione della stessa (regola d’oro lovecraftiana di tutta la letteratura del terrore).

Ann Radcliffe
Ann Radcliffe

L’estratto in questione, ricavato dalle prime pagine del libro, descrive il paesaggio che l’eroina del romanzo, Emily, vede dalla finestra della sua stanza. La traduzione è mia, basata sul testo originale in inglese:

Le finestre di questa stanza erano particolarmente piacevoli; scendevano fino al pavimento e, aprendosi sopra il piccolo prato che circondava la casa, l’occhio era condotto attraverso boschetti di mandorli, palme, orni e mirto, fino al paesaggio lontano, dove scorreva la Garonna.

Spesso era possibile vedere i contadini di questo clima mite mentre danzavano in gruppi sulle rive del fiume, di sera, quando il lavoro della giornata era concluso. Le loro melodie allegre, i loro passi affabili, le figure fantasiose dei balli, insieme al modo raffinato e capriccioso con cui le fanciulle aggiustavano i loro vestiti semplici, davano alla scena un carattere interamente francese.

Iniziamo col notare che il passaggio riportato è interamente visivo. Se le immagini mentali di cui abbiamo parlato fino ad ora sono “immagini” in senso lato e possono evocare nella mente del lettore suoni, gusti o qualunque altro tipo di sensazione, nell’estratto in questione abbiamo solo immagini visive. L’unico accenno ad un’altra sfera sensoriale è rappresentato dalle “melodie allegre” suonate dai contadini, ma si tratta di un riferimento insufficiente per riuscire ad immaginare una melodia vera e propria. Ann Radcliffe è un’ottima scrittrice e, ovviamente, questa scelta non è casuale.

Nelle pagine precedenti la voce narrante aveva descritto con ampi movimenti di camera il paesaggio nel quale la casa di Emily era immersa, nonché le abitudini della sua famiglia, che amava passeggiare nella natura beandosi dei profumi dei fiori e delle piante aromatiche della campagna francese. Qui invece la macchina da presa stringe fino a mostrarci solo ciò che Emily può vedere affacciandosi dalla finestra della sua cameretta: il giardino della magione, il paesaggio lontano, la Garonna che scorre nella campagna.

Aguzzando la vista, Emily può distinguere gli alberi che compongono la flora locale e, come un’esperta botanica, riconosce mandorli, palme, addirittura orni e cespugli di mirto. Strizzando ulteriormente gli occhi vede che quei puntini lungo le sponde del fiume sono contadini occupati nella celebrazione di qualche strano rito rurale. I ballerini compongono “figure fantasiose” e le ragazze sono catturate nell’atto di aggiustarsi i vestiti in modo vezzoso… il movimento è incluso nella visuale, ma bloccato in un fermo-immagine. Nessuna azione viene portata a termine, la scena è statica, congelata nel tempo, come in una foto. Aggiungiamo la cornice rappresentata dal bordo della “piacevole finestra” e quello che ci troviamo ad osservare non è altro che un quadro appeso alla parete.

Ecco svelato l’arcano. Proprio come ha spiegato Quintiliano, l’autrice ha evocato nella sua mente una vivida immagine in modo da infondere la sua descrizione di enargeia. Non si trattava tuttavia della vivida immagine di un paesaggio reale, ma di quella di un quadro, un paysage tipico dell’estetica pittoresca del Settecento: un dipinto reale che la Radcliffe potrebbe avere visto o anche uno di sua invenzione, basato sull’assemblamento di più e più quadri raffiguranti la campagna francese. La scena descrittiva è quindi raccontata come se ci trovassimo in presenza di un quadro, tecnica che in critica letteraria assume il nome di “pittorialismo”. E con questa chiave di lettura il testo di disvela sotto i nostri occhi. Ammirando con Emily la finestra-quadro, anche noi lettori cogliamo dapprima un’impressione generale “particolarmente piacevole” e quindi, proprio come faremmo davanti al dipinto di un paesaggio, mettiamo a fuoco i dettagli, magari avvicinandoci fisicamente alla tela: la vegetazione (per altro piuttosto idealizzata), le piccole figure danzanti…

Claude Monet, Le Déjeuner sur l'herbe, 1866
Claude Monet, Le Déjeuner sur l’herbe, 1866

Il lettore dà forma ad una vivida immagine mentale componendo immagini differenti che già esistono nel repertorio della sua memoria: paesaggi simili che ha visto nella vita reale, o in dipinti e illustrazioni, o di cui ha letto in altri libri. Le immagini sono richiamate grazie ad una serie di trigger disseminati nel testo, che vanno dai nomi delle specie di piante citate (che potrebbero evocare, ad esempio, ricordi personali o illustrazioni di queste piante viste fogliando un libro di botanica), fino ai riferimenti all’esperienza di contemplare il dipinto di un paesaggio (esempio di cognizione incarnata). Ma il riferimento più importante e più visivo dell’estratto è di tipo culturale ed è contenuto nell’ultima frase: “…davano alla scena un carattere interamente francese”.

Come può un gruppo di contadini danzanti dare un “carattere interamente francese” ad una scena? E, in primo luogo, cosa accidenti dovrebbe significare “un carattere interamente francese”? L’idea di francesità è un trigger che evoca nella mente del lettore tutta una serie di immagini, visive ma non solo, che vanno a sovraimporsi alla scena appena descritta. Si tratta di tutti gli stereotipi, i concetti ed i preconcetti che nella nostra mente sono associati alla Francia come realtà geografica, culturale e politica, i quali verranno filtrati dal contesto (la descrizione di un piacevole paesaggio naturalistico) e ci restituiranno un’immagine vivida e personale della vallata che circonda la casa di Emily. Il risultato sarà diverso per ogni singolo lettore.

Attenzione però. Abbiamo detto che il romanzo gotico era un genere estremamente popolare e, pertanto, era letto tanto dai nobili e dagli intellettuali del tempo, quanto dalla gente comune. I dipinti nel Settecento erano un bene prezioso gelosamente costudito dai ricchi, mostrato solo agli amici intimi come simbolo di ricchezza e prestigio. Un uomo del popolo non aveva l’occasione di posare gli occhi su molti raffinati quadri di paesaggi francesi nel corso della sua vita. Cosa succede allora se un lettore non ha la minima idea di cosa significhi “un carattere interamente francese”?

Qui entra in gioco il vero potere del romanzo ed il perché esso sia sempre stato il genere più popolare almeno fino all’avvento del cinema. Il paesaggio in realtà era già stato caratterizzato ben prima che l’autrice lo definisse “di carattere interamente francese”. Sappiamo che si tratta di un paesaggio “piacevole”, ricco di vegetazione, ma anche “mite”, “allegro”, “affabile” (debonnaire in originale), “semplice”, “vezzoso”. Nella mente del lettore non-informato si viene così a costruire un’immagine basata su trigger esperienziali ed emozionali. La prossima volta che si parlerà di qualcosa di tipicamente francese (trigger culturale) è a questa nuova immagine che la mente del lettore accederà.

Nel passato più che oggi il romanzo era, quindi, uno strumento conoscitivo prima ancora che di intrattenimento. Attraverso i romanzi le donne e gli uomini potevano “vedere” luoghi che non avrebbero mai avuto la possibilità di visitare nella loro vita. E se ancora non siete convinti, lasciate che vi riveli un piccolo segreto. Ann Radcliffe non ha mai viaggiato in Francia, o in Italia, o in nessuno degli altri incredibili luoghi che descrive tanto vividamente nelle sue storie. Tutto ciò che la regina del gotico sapeva del mondo al di fuori dell’Inghilterra lo aveva imparato grazie ai quadri che aveva visto e, ovviamente, ai libri che aveva letto.

 


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