Katsushika Hokusai, Kajikazawa nella provincia di Kai, dalle Trentasei vedute del monte Fuji, 1830-32
Katsushika Hokusai, Kajikazawa nella provincia di Kai, dalle Trentasei vedute del monte Fuji, 1830-32

Hokusai e gli ukiyo-e: il mondo fluttuante delle stampe giapponesi

Ukiyo-e: è la parola con cui i giapponesi chiamano le stampe di Hokusai e degli artisti coevi, come i celebri Hiroshige e Utamaro, o i meno celebri Utagawa Kunisada o Eisho. Queste stampe incredibili, dai colori intensi e le linee ardite, che quasi escono dalla pagina, sono all’origine di una vera rivoluzione culturale che esonderà dal paese d’origine, per approdare nella Francia degli impressionisti.

“Immagini del mondo fluttuante” è la traduzione più comune per ukiyo-e. Ma cosa vuol dire esattamente? Bisogna proiettarsi nel Giappone della seconda metà del Settecento: un paese che, pur rimanendo orgogliosamente isolato, si stava lentamente schiudendo al mondo, i cui influssi iniziavano a farsi sentire. Per i giapponesi, infatti, la cultura è un continuo ping pong fra tradizione e richiami esterni, un mescolare e rimestare tutti gli stimoli culturali che arrivavano dall’estero, dalla Cina, dalla Corea, e infine dall’Europa.

La lingua stessa dei giapponesi è incrediblmente stratificata, e molte sue parole hanno una storia lunga e complessa, di cui conservano il passaggio ora nella pronuncia, ora nella scrittura, oppure nel significato. La parola ukiyo è una di queste, ed è legata al buddismo zen. In origine indicava un concetto simile al samsara indiano, cioè il divenire, il continuo ciclo delle reincarnazioni. Il “mondo fluttuante” era dunque l’instabilità delle cose: tutto fluttua, tutto scorre. E dunque tutto è di poca importanza, da vivere con distacco, con la mente stabile. Il mondo fluttuante è un possibile pericolo, è dolore.

Nel  Giappone settecentesco, però, questo concetto inizia a mutare, proprio grazie agli artisti, che ne colgono man mano altre sfumature. L’instabilità del mondo, da difetto, diventa una caratteristica malinconicamente affascinante. Gli artisti chiamati a rappresentare la realtà ne vedono la caducità, ma insieme ne vedono la bellezza: anzi, ne colgono la bellezza proprio in quanto effimere.

Nel film Teorema, Pasolini mette in bocca a un suo personaggio queste parole: «Quando un segno si presenta riuscito bene e per miracolo, bisogna subito coprirlo, custodirlo come in una teca». I pittori giapponesi iniziarono a fare lo stesso: ad amare la fugacità delle cose, e a concepire il proprio lavoro come un tentativo di fermarle, e di esprimere la loro subitanea bellezza. Non è un caso che i soggetti più rappresentativi fossero fiori, alberi, bellissime geishe: tutto ciò che si mostra nel suo splendore, e subito dopo svanisce.

Katsushika Hokusai, Il retro del Fuji dal fiume Minobu
Katsushika Hokusai, Il retro del Fuji dal fiume Minobu

Katsushika Hokusai, e con lui tutti gli artisti di questo nuovo movimento che si stava creando, fece dell’Ukiyo una poetica, un modo di vivere. Tutto era ribaltato, ma tutto era simile. La caducità del mondo non viene negata, ma se ne muta il valore. È un tratto tipico della mentalità giapponese innovare all’interno di una tradizione consolidata; mescolare nuovo e vecchio, antico e moderno.

Questo cambiamento avviene grazie proprio ai pochi europei che giunsero in Giappone in questo periodo, portando una visione diversa della vita, un modo diverso di vedere il mondo, e grazie anche al sincretismo tipico del Giappone, in cui si mescolava a una religione austera come lo zen, una serie di culti molto più edonistici e materiali come quelli tipici dello shintoismo. Lo shinto, infatti, è tradizionalmente molto più gioioso e ottimistico, molto più volto al godimento immediato, ad amare la realtà invece che estraniarsene.

È così che alla pittura tradizionale giapponese, che consisteva in paesaggi a inchiostro su carta di riso, sul modello della tradizione cinese, si andarono ad affiancare, e poi in parte a sostituire, due tradizioni diverse. La prima è la pittura zen, come quella di Sengai Gibon, che continuava la tecnica della pittura a inchiostro, ma con una stilizzazione nuova: i tratti sono piatti, decisamente fumettistici, commoventi nella loro essenzialità; la seconda invece è quella dell’ukiyo-e, appunto, che non consisteva però in dipinti, bensì in stampe.

Si trattava per lo più di illustrazioni per romanzi, non sempre di elevato valore artistico, prodotte tramite la tecnica della xilografia su carta: si dipingevano le linee del disegno sulla carta, che poi veniva discusso con l’editore; quando il bozzetto era approvato, allora si passava alla stampa, preparando una matrice di legno speculare al bozzetto e si incidevano tutte le linee del disegno. Una volta pronto, si inchiostrava la matrice e si imprimeva sul legno un nuovo foglio: le linee vengono così stampate e si ottiene il disegno definitivo.

Infine, i colori: venivano impressi ad uno ad uno, lavando ogni volta la matrice e applicando il colore nuovo. Questo significa una serie lunghissima di passaggi, una grande capacità di riallineare il foglio alla matrice sempre nello stesso modo e una grande progettazione. Era il pittore, ovviamente, a fornire le indicazioni necessarie nella bozza, specificando la porzione di disegno da coprire, la tonalità e la consistenza della pasta da applicare sulla matrice. Inoltre era necessaria una grande abilità da parte dei coloristi per rendere le sfumature, e far sì che i colori non risultino piatti, ma brillanti e dotati di particolari riflessi.

Katsushika Hokusai, Peonie e farfalla
Katsushika Hokusai, Peonie e farfalla

Sono molte le pagine che Hokusai ha scritto sull’importanza del colore, con una grande attenzione per la tonalità: il vermiglio non è il carminio, il nero fresco non è il nero opaco e nemmeno il nero brillante. Stupisce quando parla di tonalità che mettono in difficoltà il traduttore (per non parlare del lettore): la “tonalità del sorriso” è una di queste, che si usa per colorare le gote delle belle donne e per i fiori. «Bisogna prendere del rosso minerale – scrive – scioglierlo nell’acqua bollente e lasciare riposare la soluzione: è un segreto che i pittori non rivelano».

Per via di queste difficoltà i libri di minor pregio venivano stampati solo in bianco e nero, per molto tempo ebbero un riconoscimento inferiore rispetto alla pittura tradizionale: si trattava infatti di produzioni destinate a un pubblico di massa, che fruiva di questi libri per puro intrattenimento, senza altri fini. Le cose cambiarono proprio quando gli europei, affascinati da queste stampe, iniziarono non solo a richiederne, ma a raccoglierle, catalogarle e a produrre dei testi critici, come quelli di Fenellosa.

È grazie ad essi se gli ukiyo-e si sono affrancati dalle loro finalità di consumo, ma questo avverrà solo nel Novecento, con la nascita di due stili che fonderanno gli ukiyo-e con una nuova sensibiltà occidentale: gli shin hanga e i sosaku hanga, che riscossero un enorme successo in Giappone, al punto che Hasui Kawase, il maggiore pittore di shin hanga, venne nominato Tesoro Nazionale VIvente dall’Imperatore. A determinare questo successo fu proprio la fama che queste due forme d’arte si guadagnarono negli Stati Uniti.

Fino a questo momento, infatti, l’idea che i giapponesi avevano dell’ukiyo-e era venata da grandi contraddizioni. Da un lato molti pittori, specialmente Hokusai, consideravano il proprio lavoro estremamente importante, un’arte a tutti gli effetti; dall’altro, si trattava di un’industria come tante altre, che semplicemente produceva dei libri illustrati: l’arte giapponese, in questo, precorreva quella che sarebbe stata una delle grandi contraddizioni dell’arte contemporanea.

E, in effetti, il pittore aveva un ruolo molto contemporaneo, per molti versi simile a quello che oggi diremmo di un designer: era un libero professionista, con dei margini di autonomia sul proprio stile e sulla propria poetica, ma era anche un ingranaggio del sistema industriale, retto da un editore e organizzato secondo una rigida divisione del lavoro, in cui ogni fase era affidata a un addetto specializzato. E, soprattutto, l’opera nasceva già con una vocazione industriale: le colorazioni, la scelta delle linee, l’impaginazione erano dettate innanziutto dalla necessità di produrre in serie. Anzi, l’abilità dell’artista consisteva proprio nell’abitare queste limitazioni e farne uno stile, un modo di vedere le cose[1].

Katsushika Hokusai, dalla serie: Cento storie di fantasmi, Il fantasma di Kohada Koheji, 1831-32
Katsushika Hokusai, dalla serie: Cento storie di fantasmi, Il fantasma di Kohada Koheji, 1831-32 (dettaglio)

Per quanto riguarda Hokusai, la sua era una condizione particolare. Pur non essendo considerato, quand’era in vita, niente di più che un mediocre pittore, è sempre stato gelosissimo della sua indipendenza, difendendo sempre le sue innovazioni, con uno spirito individualista che spesso risultava controproducente, in quanto indispettiva gli editori. Si trovò, durante la sua vita, più volte sul lastrico, e più volte dovette ricomincare tutto daccapo, ma non rinunciò mai alla sua ricerca. «Ho cominciato a disegnare all’età di sei anni, e per ottantaquattro anni ho lavorato in autonomia da ogni scuola – scrive, da vecchio – con il pensiero rivolto in ogni momento verso il disegno».

È questo animo testardo e assoluto a renderlo così peculiare: per lui l’ukiyo-e non è un oggetto di consumo, ma un modo di capire le cose, una ricerca a cui dedicare tutta l’esistenza. Ciò che l’ha sempre contraddistinto, infatti, era l’insoddisfazione: negli ultimi anni diceva che se avesse avuto ancora altri dieci anni da vivere, forse sarebbe potuto diventare un pittore vero. Non si è mai sentito arrivato nemmeno quando ebbe un certo riconoscimento. La sua enorme acribia nei confronti di ogni dettaglio, di ogni singolo particolare è uno di quegli elementi che lo rendono diverso dagli altri pittori. Non si accontentava mai, in quanto cercava sempre la composizione perfetta, l’essenzialità perfetta, il perfetto colore.

Un altro grande pregio di Hokusai l’ha inotato Edmond de Goncourt, nella biografia che gli ha dedicato: la capacità di rendere la pittura dell’epoca veramente giapponese, popolare e lontana dalla corte e dalla vita ufficiale dei dignitari. Infatti Hokusai affascina, forse più di altri, propro per la grande varietà di soggetti della sua opera.

Se Utamaro, per fare un nome celebre, era specializzato, in figure femminili, se sono i paesaggi a commuoverci in Hiroshige, con Hokusai abbiamo una varietà di soggetti e di forme sorprendenti: dai fantasmi, ai mostri, a paesaggi incantevoli, fiori, fino alle centinaia e centinaia di studi di figure umane e animali che troviamo nei “quaderni della manga”, che per il loro spirito fumettistico hanno finito per dare il nome ai manga contemporanei. Solo Utagawa Kuniyoshi riuscì a eguagliare e forse a superare la sua visionarietà nel rappresentare il folklore giapponese.

Invece, una qualità che condivide con altri pittori della sua epoca e successivi, ma non meno importante e non meno affascinante, è la capacità di rappresentare la natura, che costituisce uno dei motivi per cui gli europei furono tanto sconvolti nel vedere queste opere, e iniziarono ossessivamente a copiarle. Anche quando i pittori di ukiyo-e rappresentano un frutto, o un fiore, non stanno mai componendo una natura morta.

La natura non è mai morta nei pittori giapponesi, perché sempre conserva la sua anima, il suo soffio vitale. Non è mai un mero strumento, un modo per cogliere un effetto di luce, o una composizione efficace, come avviene per i pittori europei: il soggetto è sempre rappresentato con grande interesse, con un’attenzione speciale, come se esistesse soltanto quel soggetto, come se fosse la cosa più importante del mondo, anche se è un semplice giunco, perché racchiude in sé un invisibile e grandioso mistero.

 


Per approfondire: E. De Goncourt, Hokusai, il pittore del mondo fluttuante, Luni, 2006

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