Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ‘l terzo, e l’ultimo Lucano.Però che ciascun meco si convene
Nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».(Dante Aliglieri, La Divina Commedia, Inferno, commento di A. M. Chiavacci, Mondadori, 1991 Milano, Canto IV, vv 85-93, p. 118-119.)
Ci troviamo nel Limbo dantesco, la piccola isola di luce, il fuoco buono che brucia in mezzo alle tenebre e alle strida infernali. Incontriamo, quasi come novelli compagni di Dante e Virgilio, sul prato smaltato di verde, i poeti antichi che più hanno ispirato il fiorentino nella sua impresa e che hanno, ognuno lasciandosi ispirare dalla propria musa, cantato l’Oltremondo o, quantomeno, avuto a che fare con i nostri vicini.
Accovacciati accanto alle fiamme guizzanti raccontano: Orazio si beffa degli incantesimi di Canidia, la laida fattucchiera protagonista di un paio di suoi Epodi e di una Satira. Era una strega immonda, ci dice, e maledettamente testarda e così ghignando ci riporta alcune sue parole (di lei):
[…]O forse, io che posso dar vita a figure di cera
Come tu stesso, curioso, hai veduto; io che posso
Strappare coi miei rituali dal cielo la luna,
far risorgere i morti già ormai inceneriti
e mescere in giusta misura i filtri d’amore,
dovrei piangere il fallimento della mia arte su te?(Orazio, Odi ed Epodi, Canto secolare, traduzione a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano 2010, Epodo 17, vv. 76-81, p. 73.)
Certo il nostro con fine ironia si burla di tutte quelle pratiche che inficiano il popolino durante il I secolo a.C., l’esasperata e grottesca esecuzione di rituali che vedevano, ormai da secoli, il sacrificio animale sulle are incensate. Ma le nuove religioni che giungono dal vicino Oriente introducono altre divinità pronte a concedere tutto ai proseliti (spesso una salvezza da raggiungere dopo questa vita). Così il vecchio culto muore nella Roma afflitta dalle Guerre e sempre più ellenizzata e cede il passo.
Si inserisce allora il più giovane del gruppo, quasi un nostro coetaneo:
L’efferata Erichto, condannati tali barbari riti,
e incantesimi d’una gente sinistra perché troppo pietosi,
aveva sospinto la sordida arte a nuove pratiche.
Era per lei un sacrilegio inchinare il macabro capo
Ai tetti d’una città o ai Lari; abitava in vuoti sepolcri
E occupava i tumuli, scacciate le ombre, grata
Agli dei dell’Erebo. Né i Celesti, né l’essere viva
Le impedivano di assistere alle silenti riunioni dei morti,
di conoscere le dimore dello Stige e i misteri del sotterraneo Dite.(LUCANO, Farsalia o Guerra civile, traduzione a cura di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1997, Libro VI, vv. 507-515, p.397)
Gli occhi tormentati e l’atteggiamento fiero di Lucano non lasciano trapelare la babele religiosa che naufraga nella sua mente: i morti ritornano ai vivi per annunziare nuovi tormenti e ci raccontano di gladi fuori dai foderi stretti in mani pronte a lordare ancora la terra di sangue fraterno, di sangue innocente. È l’epoca imperiale, il regno di Nerone: ma è pure la guerra di Pompeo e di Cesare, la morte del Sacro e di un certo sistema di ideali e credenze! Le sue parole sono frante così come le divinità di cui parla, scomparse nel vuoto.
Ci può essere giustificazione religiosa a tanta violenza?
Virgilio, che pure nel Medioevo aveva fama di mago e negromante, storce il naso, e Dante lo osserva: il primo ci parla di Enea sceso agli Inferi, all’Averno e dei consigli della Sibilla Cumana che così aveva ammonito il suo eroe (steso, tra l’altro, al fianco di Ettore qualche passo più in là, sotto le mura del castello):
[…] è facile la discesa in Averno;
la porta dell’oscuro Dite è aperta notte e giorno;
ma ritrarre il passo e uscire all’aria superna,
questa è l’impresa e la fatica.VIRGILIO, Eneide, traduzione a cura di Luca Canali, Mondadori, Milano 1985, Libro VI, vv. 126-129, p. 251.
E che incubo di gorgoni e centauri, bestie immonde, fuochi e pallidi spiriti è quel mondo immaginato dal nostro maestro! Ascoltiamo percependo il suo rispetto per le anime dei defunti, la sublime dignità (mista a rancore) della sua Didone, il tentativo alessandrino di sommare le fonti, di trattare variamente la materia, la fede in una religione che si avvia, che muove i primi passi verso il tramonto, il suo tramonto.
Inutile negare la totale differenza (di funzione e percezione) che intercorre tra il pantheon religioso omerico e quello virgiliano: solo il primo crede nelle ragioni profonde del mito e nella funzione decisionale delle singole divinità (su tutte Zeus) mentre il secondo le rielabora finemente e le pone sotto l’egida del Fato. E nel far ciò risponde ad un bisogno personale ma pure della comunità: l’integrità di un credo, il ritorno a porti sicuri dopo la fine della tormenta causata dalle Guerre Civili e che tanto avevano scosso gli animi dei Romani.
Così continuano una piana discussione, noi semplici ascoltatori, Dante nuovo interlocutore. Prima del mito e delle anime dei defunti poi di streghe e pratiche magiche. Nominano la sacra Sibilla, fossile dei tempi andati, ancora la grottesca Canidia (ai riti della quale la statua in legno di Priapo risponderà con una sonora scorreggia) e infine dell’immonda Erichto, forse uno dei soggetti più inquietanti partoriti dalla mente di un poeta latino.
Il brusio si interrompe all’improvviso quando, sbucato dal nulla, appare (forse da dietro il castello) una figura in foggia romana. Dante non lo riconosce, forse perché non ha mai letto qualche suo brano mentre Virgilio lo accoglie sorpreso.
Il nuovo arrivato ci osserva e saluta, come un conoscente, forse un amico, Lucano; ci chiede se siamo curiosi di ascoltare una storia che narra di una donna e di un morto, ma pure di un soldato: una tresca divertente, aggiunge, rivolto ad Orazio.
Si siede proprio accanto a noi, giunto chissà da quale angolo dell’Inferno, Petronio.
In copertina: Evelyn de Morgan, La pozione magica (particolare).