Le passioni visive di Marino Marini

Marino Marini davanti ai ritratti di Marina e Anita

Ad ospitare una nuova esposizione intorno ad uno dei grandi protagonisti del secolo scorso, sono ancora una volta gli ambienti della Collezione Peggy Guggenheim. Marino Marini. Passioni visive, è il titolo della prima retrospettiva mai realizzata su Marino Marini (1901-1980), che sarà attiva fino al prossimo 1 maggio a Venezia.

Curata da Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi, la mostra si propone di collocare l’artista pistoiese non solo in una generale storia della scultura ma anche di individuare i punti salienti della sua vicenda artistica. Oltre 50 opere sono bastate per dare voce a questo antico dialogo che ha legato le sue sculture a quelle di epoca greca, antico-orientale, etruscad, sino alla figuratività di Auguste Rodin ma anche dei suoi contemporanei: Giacomo Manzù, Henry Moore, Pablo Picasso, Ernesto De Fiori e Aristide Maillol.

Partendo dal presupposto che negli anni la figura di Marino Marini è stata investita dei più svariati appellativi quali: artista-vasaio, etrusco rinato, primitivo toscano; che non hanno fatto altro che condizionare la lettura sincera della sua opera, l’esposizione si propone come una sorta di riflessione più profonda, al fine di poter individuare quale effettivamente sia stato “il nucleo profondo della riflessione formale dello scultore.

A partire dalla prima sala infatti, si racconta un artista che sin dagli esordi (collocabili tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta) rivela i suoi modelli, le sue “passioni visive”, provenienti soprattutto dall’ambito arcaista. La terracotta intitolata Popolo – modellata nel 1929 e mutilata più tardi dallo stesso artista – è forse l’esempio più emblematico del confronto di Marini con l’archeologia, resa evidente qui dal suo accostamento con un coperchio di un’urna cineraria etrusca dell’inizio del IV secolo a.C.

Degli anni Trenta è il motivo dei nudi virili, tema che era ritornato in voga per via di un eroismo intrinseco e plasticamente più complesso da rendere rispetto al nudo femminile.

Marino Marini nuotatore
Il nuotatore di Marino Marini, sulla destra.(credits: Guggenheim Venice)

Le due sculture in legno di Marini: Nuotatore e Pugile, sono accostate ai nudi maschili di due altri scultori italiani: il Tobiolo di Arturo Martini (suo maestro ideale e più vecchio di lui di 12 anni) e un David di Giacomo Manzù. Le figure realizzate dall’artista pistoiese raffigurano tuttavia due soggetti sportivi e anziché soffermarsi sulla loro forza fisica, ne fa risaltare gli aspetti più pacati quali la concentrazione interiore o l’abbandono dopo la lotta.

La stessa scelta del materiale ligneo, non così comune all’epoca, può facilmente essere letta come decisione volta a ribadire la sua attenzione nei confronti della resa volumetrica e plastica della figura umana. Dalla terza sala si intuisce però come sarebbe profondamente errato considerare Marini uno scultore parco nei temi visivi o coerente con le mode dell’epoca, anzi la sua vicenda artistica ha attraversato fasi stilistiche molto diverse tra loro, così come lo testimoniano i seguenti suoi lavori:

Icaro del 1933 è innovativo nel tentativo di abbattere un principio fondante la scultura, ossia l’imposizione che la statua poggi su un basamento. Icaro al contrario è fissato al muro, sospeso a mezz’aria, quasi fosse un monito della sua infelice sorte.

Il pellegrino in gesso del 1939, testimonianza di una fase felice in cui il tema del cavallo e del cavaliere era appena stato inventato; esso è in aperta dissonanza con il Miracolo ligneo del 1955, in cui il sontuoso cavallo dapprima in posizione di riposo, è ora in torsione col muso schiacciato a terra, con il cavaliere che si inarca all’indietro per fronteggiarne la caduta.

La bizza dell’animale rivela come quel rapporto di fiducia che si instaura fra l’intelligenza umana e la forza della natura, si sia ormai spezzato.

Una scena carica di drammaticità e dal titolo particolarmente eloquente, dove risulta impossibile non riscontrare l’influenza avuta da Guernica di Pablo Picasso, dalla quale riprende senza dubbio la posa del cavallo.

A contrastare questa visione negativa e disillusa sull’incapacità dell’uomo di risollevarsi dai mali della guerra che lui stesso ha creato, si apre la sala dei Nudi femminili e delle Pomone: «donne giunoniche – le definisce – scolpite in un tutto tondo arcaico e concluso», «un ponte per raggiungere la poesia».

Marino Marini, Cavallo rovesciato, Matteo de Fina-
Marino Marini, Cavallo rovesciato, particolare (photo: Matteo de Fina)

Così come anche la sala dei Ritratti, genere amato e molto praticato dallo scultore, che può essere facilmente considerato come uno dei maggiori ritrattisti scultorei del Novecento. Ritorna preponderante il concetto di poesia che in questo caso si rivela proprio nella capacità di saper bloccare l’indole, la psicologia, la profondità di un volto in un ritratto.

La mostra si chiude con il racconto degli anni Cinquanta che per Marino Marini, rappresentano un periodo fertile di sollecitazioni e incontri, durante i quali si dedica a nuovi linguaggi plastici approfondendo tematiche vecchie e nuove.

Protagonisti della scena diventano I Giocolieri, che trovano la loro corrispondenza formale nell’arte di Picasso, dei bronzetti etruschi ma anche delle Tre figure in piedi di Henry Moore.

I Guerrieri, dove si è voluta evidenziare una parentela con una fonte inconsueta quale La lupa con i gemelli di Giovanni Pisano (primo quarto del XIV sec.).

Sino a tornare alla serie dei Miracoli o dei cavalieri rovesciati.

Miracolo-Composizione del 1957-1958, chiude il cerchio in quanto l’opera riassume la molteplicità di tutti i riferimenti visivi che Marini ha presentato nei suoi lavori; essa infatti riesce ad inserirsi all’interno del nuovo panorama artistico che era emerso in quegli anni, riversando in un tema caro come quello del cavallo e del cavaliere (dove quasi non vi si riconosce più qual è l’uno e qual è l’altro), l’astrazione e il dinamismo.

Ciò che rende la mostra imperdibile è senza dubbio il desiderio di voler raccogliere e accostare le fonti di ispirazione alle opere del protagonista. Linguaggi apparentemente incomunicanti ma che dimostrano come quella sorta di inconciliabilità che alcuni leggono fra gli artisti del Novecento rispetto agli antichi o ai moderni linguaggi dell’arte, in realtà non sussista.

 


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Francesca Mavaracchio
Francesca Mavaracchio

Nata a Venezia nel 1992 e diplomata presso il liceo classico Marco Polo. Successivamente mi sono trasferita a Pavia dove ho conseguito la laurea in lettere moderne (indirizzo storico-artistico). Dopo la triennale ho scelto di spostarmi a Bologna per frequentare la magistrale in Arti Visive (indirizzo contemporaneo) dove tutt’ora studio. Il mio amore per l’arte contemporanea, è nato al liceo quando rimasi affascinata dall’opera di Lucio Fontana e dalle realtà che seppe costruire attraverso i tagli nelle tele. Da allora la mia curiosità verso il panorama artistico non si è mai esaurita, ed è stata in questi ultimi cinque anni il moto propulsore dei miei studi e delle mie passioni.