In montagna, in città o al mare, o in qualche luogo sconosciuto del pianeta, i libri sono sempre dei fedeli compagni di viaggio, e parte imprenscindibile di un kit di sopravvivenza di tutto rispetto. E se si rimane a casa, non c’è modo migliore di viaggiare senza muoversi di un centimetro. Ma quali sono i libri da leggere in questo agosto? Di tutti i libri che ogni anno vengono pubblicati, che vediamo sugli scaffali delle librerie, quali possiamo portare con noi in valigia o nello zaino?
Come ogni anno, questa è la nostra piccola selezione: buona estate e buon ferragosto!
Durian Sukegawa, Le ricette della signora Tokue
– Assaggi intanto che è calda. Le piacerà anche se non ama i dolci.
Sentarō non era mai riuscito a mangiare una ciotola di zenzai. Ma al primo boccone, i suoi lineamenti si distesero naturalmente.
– È buono… – gli uscì istintivamente dalla bocca.
Lo zucchero allentò la tensione negli zigomi e nel collo, e una specie di sollievo gli salì alle guance.
“Le ricette della signora Tokue” di Durian Sukegawa è un romanzo che ruota attorno alle vite di due personaggi, Sentarō, pasticcere inesperto in una bottega di dolciumi specializzata in dorayaki (tipici dolcetti giapponesi simili a frittelle che potreste ricordare come i preferiti di Doraemon), e Tokue, anziana signora con un grande segreto e uno sconfinato patrimonio di ricette da insegnare. Mentre le stagioni scorrono e fanno sbocciare e sfiorire i fiori dell’albero di ciliegio davanti al negozio, il rapporto tra i due evolve e l’amicizia si rafforza, fino a culminare nelle confessioni dei reciproci dolorosi passati.
La penna di Durian Sukegawa sviscera con delicatezza temi profondi sotto un velo di leggerezza soltanto apparente; la semplicità della narrazione rende la lettura scorrevole e a tratti persino commovente. Il connubio tra le descrizioni minuziose dei luoghi e dei procedimenti delle ricette e l’evanescenza delle sensazioni e sentimenti dei personaggi è molto efficace nell’evocare immagini vivide e nel dipingere atmosfere oniriche. Il messaggio centrale del romanzo è l’importanza di mettersi in ascolto: siamo tutti nati per osservare il mondo e per aprirci a ciò che ha da comunicare, e solo così possiamo scoprire la gioia delle piccole cose e ridimensionare le situazioni dolorose che affrontiamo.
Se volete avere un assaggio dell’affascinante cultura giapponese, della sua grazia e dei suoi profumi, non posso quindi che consigliarvi la lettura di questo romanzo, da gustare in un sol boccone come fosse una delle prelibatezze della signora Tokue.
Medeline Miller, Circe
L’estate è sicuramente un ottimo momento per recuperare alcuni di quei libri di cui abbiamo sentito parlare spesso (sui blog, sui social, nei forum di lettura), che abbiamo acquistato e che, magari, non abbiamo avuto ancora il tempo di affrontate.
Tra questi un buon titolo è sicuramente Circe di Medeline Miller, un’ottima occasione per rimmergersi nella mitologia greca.
Quale è stato il nostro primo incontro con Circe?
In molti ricorderanno l’episodio narrato da Omero nell’Odissea, degli uomini trasformati in porci, della maga misteriosa che accoglie il secondo degli eroi greci per grandezza (dopo Achille) e il primo per intelletto, del loro lungo soggiorno presso la rigogliosa isola di Eea, della loro improvvisa partenza.
Circe però rimane in gran parte un mistero nelle pagine di Omero e la Miller, consapevole di ciò, la rende protagonista della sua seconda incursione nella mitologia greca donandoci un nuovo primo incontro con questa figura misteriosa del mito, con questa dea dalla voce umana che ci sembra sin da subito una cara amica, di cui condividiamo le paure e i desideri, le gioie e i dolori.
È un romanzo di formazione appassionante quello scritto dalla Miller, un romanzo dalla scrittura scorrevole e non privo di pagine davvero piacevoli. Eppure, in più di un’occasione, si notano delle piccole sbavature nella narrazione di alcune scene, a volte troppo superficiali, altre decisamente prolisse nell’economia generale del testo.
Nonostante ciò, alla fine della lettura, possiamo dire di aver conosciuto Circe. Non la maga descrittaci da Omero, né quella tramandataci dalla tradizione classica, ma una versione moderna in cui si fondono gli elementi classici che l’hanno resa una figura tanto affascinante e terribile e quelli introdotti dalla Miller, su tutti quella voce umana, che ce la rendono un personaggio tanto familiare.
Fannie Flagg, Pomodori verdi fritti al Caffè di Whistle Stop
Ruth si chinò su di lei e le mormorò, all’orecchio: “Sei un’incantatrice d’api, Idgie Threadgoode, una vecchia incantatrice d’api…”
Idgie le sorrise e guardò il cielo azzurro che si rifletteva nei suoi occhi. Si sentiva felice come si può essere soltanto quando ci si innamora in tempo d’estate.
Per molti l’estate è rilassarsi sotto all’ombrellone e dimenticare la realtà guardando un mare cristallino. Per altri lunghe passeggiate tra i vicoli di città sconosciute o tra musei troppo grandi per essere visitati in un giorno solo. Per qualcuno la scoperta di luoghi lontani ed esotici.
Per tanti l’estate è ritornare a casa.
Il libro che in assoluto preferisco quando ho voglia di sentirmi a casa è Pomodori Verdi Fritti al Caffè di Whistle Stop di Fannie Flagg.
Pomodori Verdi Fritti (come lo chiamerò per brevità ed amicizia da qui in poi) racconta di Evelyn, una casalinga con figli oramai grandi e un marito troppo distratto per comprendere la sua solitudine e di Ninny, un’arzilla signora ospite di una casa di riposo. Dopo loro incontro avvenuto per caso, Ninny comincia a raccontare una storia destinata a cambiare le loro vite.
Con Evelyn veniamo catapultati in un mondo lontano e nostalgico, in una cittadina dell’Alabama oramai quasi abbandonata. Attraverso i racconti di Ninny, però, Whistle Stop ritorna vibrante di vita e di colori, quasi come aprire la cassettiera dove la nonna custodisce i suoi ricordi più preziosi. Lettere ingiallite dal tempo, fotografie con volti sorridenti, familiari e irriconoscibili insieme.
Ci viene raccontata la storia della famiglia Threadgoode, dalla quale Ninny è stata praticamente adottata dopo la morte della madre, di Buddy bello e simpatico per cui tutte le ragazze avevano un debole e che è morto investito da un treno in un giorno di festa, di Sipsey, la donna nera che lavorava per loro e che ha adottato Big George un neonato enorme abbandonato alla stazione, diventato l’uomo grande e grosso che si occupa del barbeque.
Ma soprattutto Ninny racconta la storia di Idgie, ribelle e selvaggia che ammalia le api e si diverte a raccontare storie inverosimile, di Ruth, che sposa l’uomo che le dicono di sposare e conquista il cuore di tutti con la sua dolcezza, della loro storia d’amore e del locale che aprono insieme.
Le vite dell’intera cittadina si intrecciano intorno a quel locale, regalandoci episodi amari o divertenti, raccontati con la delicatezza della narrazione orale. Perché a forza di raccontare sempre le stesse storie, come chissà quante volte aveva già fatto Ninny prima di incontrare Evelyn, queste vengono spogliate di rabbia e dolore, rimanendo solo velate di una tristezza lontana e di malinconia. E della vita di ognuno degli abitanti di Whistle stop non rimane altro che questo. Vecchie foto, qualche cartolina e ritagli del giornale locale
Lessi per la prima volta Pomodori verdi fritti l’estate della maturità, subito dopo il colpo di fulmine causato dalla prima visione del film. Volevo sapere di più di Idgie e Ruth, del loro caffè, delle api e della loro storia d’amore nemmeno troppo velata. Volevo ascoltare ancora i racconti di Ninny e i racconti un po’ grotteschi di Idgie. Volevo assaporare di nuovo quell’atmosfera che tanto mi aveva emozionato, sentire quasi l’odore di bacon caldo e pomodori verdi fritti. Non sono rimasta delusa.
George Sand, Pellerossa a Parigi
È un libro piccino, pubblicato da Endemunde, che raccoglie appena due lettere, scritte da George Sand. Due lettere che però potrebbero far scaturire lunghi discorsi e discussioni. Due lettere contraddittorie, amare, aspre. Ma andiamo con ordine.
Siamo nel 1845. A Parigi è arrivata una nuova intrigante attrazione. Già Victor Hugo e Baudelaire sono andati a vedere, rimanendone impressionati. A maggio anche George Sand decide di andare. Erano nientemeno che gli hommes sauvages, come li chiamava la buona borghesia del tempo. Da sei anni infatti George Catilin, pittore ed etnografo, percorreva in lungo e in largo gli Stati Uniti alla ricerca di baldi pellerossa da dipingere; alla fine della sua ricognizione parte per l’Europa portandosi dietro ben cinquecento dipinti, frecce, svariati tomhawk, e persino qualche scalpo. Già che c’era, decide di portarsi dietro dei pellerossa in carne ed ossa.
George Sand si trova così faccia a faccia con Nuvola Bianca, Piccolo Lupo, Pioggia che Cammina: è spettatrice di una civiltà destinata a svanire, e ciò la riempie di meraviglia; eppure, sa di essere al cospetto di un crudele zoo umano, di una museificazione dell’uomo, ridotto a oggetto, cosa da guardare e sezionare in nome della scienza. A cosa sta assistendo? A un’iniziativa culturale o a un’aberrante trovata pubblicitaria? Il dissidio si fa strada nella scrittrice come di rado è accaduto in una persona della sua epoca. I pellerossa che vede sono veri, autentici, e nello stesso momento sono attori che mettono in scena se stessi; sono protetti da un regolare contratto, ma non sono liberi. Si può scegliere di mettersi in gabbia?
D’un tratto queste lettere, da semplice racconto di una gita al museo, diventano il resoconto dell’abisso che separa i due popoli. Si frantumano, rendendo evidente il dominio cui gli Indiani d’America sono soggiogati, la beffa che devono subire. E appare l’impossibilità radicale di conoscere l’altro, di poter «penetrare nella sua anima», come scrive George Sand. Conoscere per noi europei è cristallizzare, infilzare farfalle, trasformare in museo.
Così, dietro l’occhio malinconico di Nuvola Bianca, dietro queste brevi pagine su questi demoni d’oltreoceano, così lontani dalla molle Europa, si nasconde un’ombra inquieta, l’ombra della nostra cultura, del nostro mondo di vivere e conoscere, che si lascia una scia amara dietro di sé.
Igiaba Scego, La mia casa è dove sono
Storia storia, oh storia di seta… Così cominciano tutte le fiabe somale. Tutte quelle che mia madre mi raccontava da piccola. Fiabe splatter perlopiù, fiabe tarantinate di un mondo nomade che non badava ai merletti.
Mi sono spesso trovato a pensare alle città come ad esseri viventi, dotati di personalità e carattere, a volte anche più di uno: quella specie di atmosfera, di sensazione che si finisce per provare passeggiando per le strade, che va oltre la bellezza soggettiva delle architetture o la qualità del tempo che vi si trascorre. È per questo forse che La mia casa è dove sono mi ha tanto affascinato: Scego tesse la sua storia di seta intersecando Roma e Mogadiscio, le due città che più le appartengono, ma nel farlo questi luoghi sembrano smarginarsi e rifrangersi alla luce di quello che per lei rappresentano, attraverso le lenti del suo vissuto.
Leggiamo quindi la storia di una famiglia che sembra stendersi come un ponte tra queste due città, lontane ma legate da una storia che la scuola italiana ama nascondere sotto il tappeto educativo: il colonialismo italiano.
Scego questo racconto ce lo disegna, nello stesso modo in cui lei e i suoi fratelli provano a disegnare i loro ricordi di Mogadiscio su un foglio di carta: con uno stile fresco e scorrevole, tenero e sentito, che rifiuta di indugiare sul dramma.
Finiamo per chiudere il libro con una domanda spontanea: se dovessimo disegnare la nostra – le nostre – città, da dove inizieremmo?
Emil Ferris, La mia cosa preferita sono i mostri
L’estate è un buon momento per dedicarsi a grandi libri. “Grandi” con tanti significati diversi: nel senso di “importanti”, perché in estate abbiamo più tempo per pensare, ma anche di “lunghi” e “voluminosi” perché, se si ha una borsa-mare abbastanza capiente, quel “mattone” che volevamo leggere da una vita può diventare il nostro migliore compagno sotto l’ombrellone.
Con qualunque accezione vogliate intendere questa parola, la graphic novel La mia cosa preferita sono i mostri, è un ottimo candidato a diventare la vostra “grande” lettura estiva.
Il volume si presenta come il diario grafico scritto (e disegnato) dalla sua protagonista, Karen, una ragazzina di origini messicane che vive in un quartiere difficile nella Chicago degli anni Sessanta. La storia si sviluppa su diversi livelli: la vita di Karen, mostriciattolo adolescente alla ricerca del suo posto nel mondo, ma anche quella di Anka, immigrata ebrea che nel suo passato di mostri ne ha incontrati davvero. Gli eventi si intrecciano con i più importanti avvenimenti storici del tempo, dall’assassinio di Martin Luther King alla guerra nel Vietnam.
La vicenda, sceneggiata con maestria, prende forma nei sorprendenti disegni di Emil Ferris. L’autrice ha scelto di disegnare l’intero fumetto sulle pagine di un blocco ad anelli e di impiegare tecniche differenti che, se da un lato rendono con verosimiglianza il tratto grezzo di Karen, dall’altro consentono alla Ferris di sperimentare tutta la potenza visiva di medium poco utilizzati, in particolare pennarelli e penne colorate. Alcune delle tavole più iconiche rappresentano copertine di giornaletti horror, una delle passioni della protagonista, o riproduzioni di opere d’arte del museo dell’Art Institute di Chicago, che Karen visita spesso insieme al fratello Deeze.
È ancora più impressionante pensare che la Ferris ha disegnato le 420 pagine di quest’opera durante la riabilitazione da una lunga malattia, che aveva paralizzato il suo braccio destro. Addentrandosi tra le pagine della graphic novel si ha la netta sensazione che l’autrice abbia riversato sul foglio bianco tutta la sua anima, oltre che la sua storia personale ed i suoi pensieri più intimi. Certi passaggi che colpiscono dritti allo stomaco non possono che essere il frutto dell’esperienza diretta, per quanto rielaborata attraverso l’arte.
La mia cosa preferita sono i mostri è una lettura “gigantesca”, ottima da recuperare in estate prima dell’uscita del secondo e ultimo volume.
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