Get Out Jordan Peele

Run, rabbit, run. Get Out di Jordan Peele

Iniziamo dall’inizio: Andre Haywort, afroamericano, cammina inquieto, accerchiato dalle casette a schiera d’un quartiere residenziale upper-class. Una macchina bianca, bianchissima, l’affianca a passo d’uomo – e la macchina bianca, bianchissima, suona una vecchia (!) canzone che fa, pressappoco: run, rabbit, run run run / don’t give the farmer his fun, fun, fun. Musica diegetica e assieme extradiegetica, perché effettivamente proviene dall’auto bianca bianchissima, e con quella e come quella si rivolge ad Andre – e però, canta quel che canta anche allo spettatore, quasi a dire: iniziamo dall’inizio e dall’estremo e dall’esterno, vi parlerò a chiare lettere, vi illustrerò passo per passo; il discorso sarà in ogni suo punto evidentemente epidermico, certo non per questo meno profondo.

La macchina inghiotte Andre, e la scena si riapre altrove.

È così che si spalanca Get out (2017), esordio alla regia di Jordan Peele, già noto al pubblico per sketch comedy televisive e one man show teatrali. Ovvero, a carte scoperte – la modalità con cui Peele e la sua creatura Get out prima, e Us poi, giocano con il genere horror e con la grammatica filmica più in generale è anch’essa elementare, sincera: per dirlo in una parola, manifesta. Iniziamo dall’inizio, con un breve percorso della trama: Chris Washington, giovane nero, parte con la fidanzata Rose per conoscere i suoi.

Primi tre appunti (o fermi immagine): è Chris, e non Andre, ormai scomparso nel nero cofano dell’auto bianca, il protagonista effettivo del film, e sarà tramite il suo sguardo che entreremo nel vivo dell’opera, d’ora in avanti. Tramite il suo sguardo in un senso pieno, anche perché Chris è, di mestiere, un abile e rinomato fotografo.

Quindi, secondo: vedremo che il gesto stesso del fotografare – nella sua più piena matericità: il rumore meccanico dell’otturatore, il lampo del flash – assume, nella pellicola di Peele, un significato non secondario. La storia è narrata dagli occhi di Chris, e dalle sue lenti, e in un certo senso dalle sue camere. Come in ogni buon horror che si rispetti, essere un attento osservatore nei riguardi dell’intorno non può che essere una questione cruciale, o ancora vitale.

Get Out Jordan Peele

Terzo: osserviamo bene. Quella che sembra la classica premessa da commedia annoiata americana (ti presento i miei, meet the parents) non tarderà a rovesciarsi in tutt’altro discorso, e a intridersi di paranoia. Paranoia progressivamente filtrata, appunto, dagli occhi di Chris.

Ecco dunque che il nostro, nonostante le rassicurazioni di Rose («i miei non sono certo razzisti: te lo avrei detto!») viene, ancora, inghiottito dalla casa degli Armitage, in cui una famiglia ricca, progressista, borghese – e bianca, bianchissima – vive circondata da stralunati, se non smarriti e piuttosto muti, domestici – c’è bisogno di dirlo? – neri. Il trucco non è nascosto, ma esposto dal regista in bella vista – il nervosismo a prima pelle di Chris andrà ingrossando e ingrossando, e la macchina fotografica, costantemente appesa al collo, servirà a volte da scudo (l’utilizzo della camera, nel genere horror ampiamente navigato, qui può più semplicemente raccontare l’ansia delle persone nere nell’America post-razziale, e la ripresa di aggressioni come unico strumento di difesa). Gli Armitage sono benintenzionati eppure maldestri – e con loro Rose? Quale allora il motivo di circondarsi d’uno stuolo di domestici neri, di cui nessuno sembra essere pienamente in sé  –  paternalistica e dunque stucchevole filantropia? Il timore di Chris cresce tra inquietanti accenni e sussurrati ammonimenti (il titolo già (ci) grida: Scappa!), percorrendo i corridoi e i sentieri di quella così bella, così bianca, tenuta.

I sospetti del giovane si riveleranno presto fondati. Non semplicemente gli Armitage vivono grazie, o alle spalle, della comunità nera che presta loro servizio. E similmente dietro all’invito di Rose si nasconde un tranello. Perché la famiglia Armitage, questo sì, vive dei corpi neri, e nei corpi neri, per mezzo di un inquietante rituale che consente di trasferire altrove la propria bianca coscienza e i propri bianchi pensieri.

Non semplicemente per perpetuarsi più a lungo del normale, ma per potenziarsi: abitando corpi (quali simulacri, quali involucri, quali pelle) che, si dice, sono più forti, resistenti, veloci. Potenti. E quindi: luminosa, ci dice Peele, è ogni volta la critica all’America bianca e agiata, che si dice liberal e che rimpiange Obama, facciata sotto la quale si nasconde un inveterato e sistemico razzismo di stampo coloniale. Come è esplicito anche il discorso sulla feticizzazione della nerezza, e la dialettica che la cattura e inghiotte – un versante è quello della disistima e del disprezzo, che consente e con cui si giustifica la materiale marginalizzazione; l’altro, suo speculare, è quello dell’elogio egualmente artefatto e strumentale di un’essenza che in qualche modo si ritiene altra (il corpo nero possente e florido, quasi un continente da cui prendere a piene mani, la mente nera forse più pura, certo più istintiva e scattante, quasi quella animale: run, rabbit, run run run). Peele non adopera nessun gioco formale nel far interagire queste riflessioni con il lessico cinematografico del thriller e dell’horror, né mostra esitazione, adagio, compiacenza nel concedersi forme e contenuti già ampiamente frequentati. Nessun esercizio stilistico, insomma. Solo una grande – estrema, esterna, epidermica – sincerità. Che però, continuamente, si spalanca, e spalanca, e inghiotte.

E perciò: cominciamo dall’inizio.

Fotogramma di Get Out

Scena prima: l’uomo che rapisce Andre (lo vedremo ricomparire al servizio della famiglia Armitage, ribattezzato, rivificato, come Logan, e sarà proprio il flash di Chris, che gli sta scattando una fotografia, a farlo per un attimo destare dal mortifero torpore, e disperare: «get out!») e lo costringe nel bagagliaio della bianchissima auto indossa un elmo che pare medievale. Più avanti, vedremo che la procedura di appropriazione e d’innesto – effettivamente neurochirurgica – viene svolta alla luce di tenui quanto lugubri candele, e al cospetto di un ottuso televisore catodico, che sembra provenire dagli anni ’60. Run, rabbit, run run run canta una radiolina che pare obsoleta. La madre di Rose pratica ipnosi e propugna all’ospite un pensiero psicomagico non banalmente new age, quanto inquietante – e altrettanto antiquato e stantio. La fedeltà di Peele, la sua attinenza al reale, s’incrina per un attimo, quasi presa da una suggestione anacronistica. Quel che sembra citazionismo velleitario forse però ci dice altro – a patto di non cercare oltre, e di fermarsi alle apparenze. Potrebbe essere che un tale ricupero, quasi caricaturale, del passato, possa dirci qualcosa.

Sì, la secolare esperienza coloniale non si cancella a colpi di spugna, e ogni segno dell’oggi testimonia di un antico e inemendabile passato, ora rimosso ora rielaborato ma sempre pronto a ricomparire – Sartre, aprendo quel magnifico testo di Fanon che è  I dannati della terra, ricordava e ammoniva i benpensanti:

«se il regime per intero e fin i vostri nonviolenti pensieri son condizionati da un’oppressione millenaria, la passività vostra non serve che a schierarvi dal lato degli oppressori. Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori. Sapete bene che abbiam preso l’oro e i metalli, poi il petrolio dei “continenti nuovi” e li abbiamo riportati nelle nostre vecchie metropoli (…): un uomo, da noi, vuol dire un complice, giacché abbiamo approfittato “tutti” dello sfruttamento coloniale[1]».

Ma forse l’antirazzismo liberale è facciata (ipocrita, o meno, lo decida poi anche il pubblico) di quel che James Perkinson[2] e, sulla sua scorta, Aph-Ko[3]  chiamano più semplicemente col proprio nome: witchcraft, stregoneria. Tecnica parassitaria, con una storia lunga quanto quella dell’uomo almeno. E pronta a riemergere non appena la si guardi con le giuste lenti e gli occhi puliti: la camera di Chris la espone e la rinfrange – la famiglia Armitage, si diceva, vive innestandosi in altri corpi, li vampirizza e li addomestica. Li divora, li strega.

Anacronistico, forse – l’Occidente bianco, che crede alla razionalità e al progresso, e che razionalità e progresso ha sempre raccontato, celebrato, promosso, esportato – è in realtà covo di un più ascosto complotto, di un millenario rituale che si consuma, da secoli eguale, alla luce di flebili e lugubri candele? Questo sembra suggerire in alcuni luoghi della propria cinematografia Peele (ed è per questo, forse, che Aph-Ko vi applica l’intuizione di Perkinson. Nella bianchezza, la sua supremazia, abita una fascinazione morbosa per i corpi altri, che quindi desidera (per sé), e non solo. Nella bianchezza esiste una stregoneria, che manifesta il suo potere anche attraverso l’ipnosi. Lo squilibrio dei rapporti di forza non è sufficiente, non può essere (solo) imposto dall’alto – la bianchezza controlla le menti nere, le incanta e le incatena, perché ratifichino la prospettiva del padrone. E solo affidarsi a una differente lente, che esponga le cose così come appaiono, come su pellicola, come in fotografia, può risultare un movimento salvifico.

Fotogramma di Get Out

Sulla pelle di qualcuno si fonda ogni comunità politica – lo vedremo ribadito oltre, con Us, secondo lungometraggio del regista –, e questa verità non ha smesso di vestire i panni del cerimoniale sortilegio. Così Perkinson in European Race Discourse as Witchcraft: il razzismo e il pensiero coloniale, potentissimi estrattori di potenziale e di ricchezza da intere popolazioni e regioni, altro non sarebbero che una moderna pratica di stregoneria eurocentrica – che «crea quel gruppo di consumatori di carne che condividono un potere/conoscenza segreti, definiti come “whiteness”». «Sappiamo che la carne viene effettivamente consumata (attraverso schiavitù e lavoro salariato), e sappiamo come tutto ciò venga assicurato (tramite forze militari, discriminazione istituzionalizzata e normalizzazione a livello culturale (…). La “whiteness”, sotto la patina del suo angelico pallore, nasconde stregati stridor di denti, succhiar sangue e strappar brandelli senza scuse né scusanti[4]».

Non la si chiami semplicemente supremazia bianca, o meglio: che l’accento sulla sua sistematicità non ci porti a concepirla come un’istituzione o un fisso sistema. Sempre eguale a se stessa, e quindi, almeno in parte, innocua o circoscrivibile («Loro non sono razzisti: te l’avrei detto»). Si tratta piuttosto di una forza viva e in costante espansione – ha sempre fame, e sempre inghiotte, e sempre si spalanca e divora -, al lavoro non semplicemente nell’appropriarsi dell’alterità, ma prima per leggerla come tale (e dunque: passibile d’espropriazione), e poi per divorarla – consumarla e viverne. Ogni volta, avviene così come all’inizio – “un uomo, da noi, vuol dire complice”, ovvero ancora iniziato. Così allora Aph-ko:

«La stregoneria zoologica suprematista bianca è una pratica per cui la classe minoritaria viene fisicamente e concettualmente consumata e “imbottita” di definizioni dalla classe dominante. La classe dominante ha l’abilità e i mezzi per “entrarvi”, e manomettere l’essenza dell’Altro, riducendolo a gusci epidermico e oggetto di scena. L’obiettivo è quello di rendere la coscienza nera pressoché estinta, mentre si fa sempre più visibile il corpo nero o l’involucro epidermico: i corpi minorizzati[5] servono come involucri svuotati che diventano emblemi della superiorità bianca suprematista, e che vengono così esibiti per mostrare la degradazione razziale[6]».

Pelle nera, parafrasando Fanon, che diventa maschera bianca. La lente di Chris, e a monte, la lente di Peele, non si lascia ingannare da questa magica sostituzione. E dietro il superficiale discorso d’inclusività, riconoscimento e accettazione riconosce – appena sottopelle – la volontà della classe egemone di proseguire, con altri mezzi, un’appropriazione fisica e materiale prima ancora che culturale.

Vedremo comunque il discorso espandersi oltre la razza e oltre la pelle, per farsi non più solo epidermico, ma epidemico o meglio endemico – questa lotta ci coinvolge tutti, ed è a ogni “noi” come comunità connaturata – in Us (2019), secondo lungometraggio. Prendendo le mosse, ancora una volta, dall’inizio.

 


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