In quale lingua si debba scrivere è un annoso problema. Alcune nazioni, in genere quelle con un’amministrazione statale centralizzata, l’hanno risolto prima. Altre, invece, hanno difficoltà a risolverlo ancora adesso. Una di queste nazioni è proprio l’Italia, e il problema è ampiamente conosciuto come questione della lingua. Questione che nasce per via della grande frammentazione linguistica presente nel nostro paese, e che ha fatto sì che l’italiano, come lingua, sia sorto tardivamente e non fosse parlato dalla totalità della popolazione, ma solo da alcune classi sociali.
L’italiano come lo conosciamo noi, infatti, è stata una lingua creata quasi a tavolino nella seconda metà dell’Ottocento, sulla base dei Promessi Sposi del Manzoni, e diffusasi poi davvero e in profondità solo con la televisione. Come si sa, la maggior parte della popolazione non parlava in italiano, bensì in uno dei tanti dialetti del nostro paese, tanti quanti i nostri comuni; anzi, tanti quanti i nostri quartieri. Un uso che, nonostante la televisione, nonostante le scuole, la centralizzazione burocratica, ancora sopravvive e diventa in alcuni casi una deliberata scelta stilistica: gli aficionados del nostro blog infatti ricorderanno che ogni tanto ci imbattiamo in autori che prendono proprio la bizzarra decisione di scrivere in dialetto.
E qui veniamo alla prima domanda, che salta sempre fuori quando si parla di dialetto:
«Ma[1]… allora il dialetto è una lingua?».
La risposta corretta è «Sì e no».
Sì perché il dialetto, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non è una storpiatura dell’italiano, o una degenerazione dovute all’ignoranza della lingua, ma un idioma a sé stante, che deriva dal latino in maniera autonoma, indipendente dall’italiano. Ogni dialetto, nessuno escluso, ha una sua grammatica e, al contrario di quanto pensava il Manzoni, può esprimere qualsiasi concetto, dai più concreti ai più astratti. Certo, ogni dialetto ha le sue specializzazioni: in milanese non esiste una parola per “gabbiano” per esempio, perché prima di una certa data, semplicemente, non esistevano; mentre, invece, presenta numerose parole e sfumature per indicare gli attrezzi agricoli. Ma questo è proprio di ogni lingua, come è noto. I dialetti, dunque, sono idiomi del tutto autosufficienti.
No perché i dialetti, pur essendo linguisticamente autosufficienti, vivono sempre un rapporto di subalternità nei confronti di una lingua più potente o più prestigiosa, e questo ha degli effetti importanti, più che sul piano linguistico, sull’uso che i parlanti fanno della lingua. Tenderanno infatti a non scriverla, a non usarla in contesti ufficiali; tenderanno a usare prestiti dalla lingua più potente, indebolendo invece la propria; tenderanno poi a non apprenderne la grammatica in modo sistematico, ma ad usarla a seconda degli usi pratici.
Come diceva il lingusta Max Weinreich: «una lingua è un dialetto con un esercito e una marina». Vale a dire: dal punto di vista linguistico lingua e dialetto sono equivalenti; la differenza è squisitamente politica. Il problema, però, è che questa differenza politica si traduce poi in una differenza sostanziale, profonda, nell’uso effettivo del dialetto, che dunque rimane sempre una lingua in potenza, una lingua che non si è ancora espressa n tutto il suo potenziale.
In particolare, la mancanza di un’amministrazione centrale rende il dialetto un idioma estremamente evanescente, mutevole, poco codificato rispetto ad una lingua ufficiale. Molti dialetti, come il milanese, hanno enormi problemi di ortografia[2], numerossissimi sinonimi e varianti che rendono difficile capire dove inizi un dialetto e ne finisca un altro. A questo proposito è stato fatto il meraviglioso Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera Meridionale. Vi è però un problema ulteriore: il dialetto muta non solo nello spazio, ma anche nel tempo. E muta non solo in relazione a se stesso, ma anche e soprattutto in relazione con la lingua ufficiale, in questo caso l’italiano: più l’italiano è debole, più il dialetto lo influenzerà; più, al contrario, l’italiano è forte, più sarà il dialetto ad essere influenzato, a italianizzarsi e a sparire man mano.
Tutto questo ha un effetto importante sulla letteratura.
Le opere dialettali, o pregne di parole dialettali, in Italia, ci sono sempre state: san Francesco e Iacopone scrivevano in un italiano marcatamente umbro; Bonvesin da la Riva scriveva in un milanese arcaico; la Cronica di Anonimo è scritta in dialetto romano, ecc… Però non possiamo definire queste opere dialettali in senso stretto: si trattava della lingua di quei territori, l’unica disponibile, e non di una deliberata scelta linguistica a favore di una lingua popolare diversa dalla lingua ufficiale.
Per trovarci in questa situazione, del tutto diversa, dobbiamo slittare fino al Seicento e al Settecento: a Milano abbiamo il Tanzi e il Maggi; lo stesso Goldoni, che nella Locandiera fa parlare i suoi personaggi in forbitissimo fiorentino, scrive un gran numero di opere dialettali. Ma è nell’Ottocento che vi è una vera fioritura del dialetto, se non per quantità, sicuramente per qualità. L’intento è parallelo a quello di Coleridge e Wordsworth nelle Lyrical Ballads: parlare nella lingua di tutti i giorni, nella lingua del popolo.
I romantici Carlo Porta e Tommaso Grossi raccolsero subito la sfida, creando forse le opere più grandi della letteratura dialettale in Italia. Da qui la letteratura dialettale si sviluppò a Roma, con il Belli, e poi nel corso del Novecento in tutta Italia: solo per fare alcuni nomi, il grandissimo Virgilio Giotti a Trieste, che inaugurò una letteratura friulana fiorentissima, da Pasolini fino a Pier Luigi Cappello; oppure Ignazio Buttita e Salvo Basso in Sicilia, o la torinese Bianca Dorato; e poi in veneto il Filò di Andrea Zanzotto, per poi tornare a Roma con Trilussa, e a Milano con Franco Loi.
La letteratura dialettale diventa sempre più diffusa, al punto da essere una parte imprescindibile della letteratura italiana: pensare la letteratura italiana espungendo i poeti dialettali significherebbe privarla non semplicemente di una poesia comico-popolaresca, come poteva essere la letteratura dialettale delle origini, bensì dei grandi capolavori. Eppure questa fioritura del dialetto scritto si accompagna ad una proporzionale decadenza del dialetto parlato. Il dialetto scompare e diventa appannaggio degli scrittori, degli artisti che provano artificialmente a riportarlo in vita. E qui sta il paradosso: la letteratura dialettale, nata per parlare in un linguaggio colloquiale, popolare, diventa sempre più simile a quell’italiano antico in bocca ai letterati cinquecenteschi e non ai contadini e agli artigiani.
Ma allora, perché scrivere in dialetto?
Facciamo un passo indietro.
La lingua italiana che conosciamo oggi è frutto, semplificando brutalmente, di due momenti cruciali: il 1525 e il 1840, quando, rispettivamente, il brillante letterato e pessimo poeta Pietro Bembo pubblicava le Prose della volgar lingua e il ben noto Alessandro Manzoni pubblicava gli ancora più noti Promessi sposi. L’idea alla base non è la stessa ma è molto simile: di tutti i dialetti e le parlate locali, bisogna sceglierne una e fare di quella la lingua ufficiale. Il toscano è la lingua prescelta, per chiari motivi di prestigiosità artistica e culturale: Dante, Petrarca, Boccaccio. Anzi, Petrarca e Boccaccio, dato che l’Alighieri si trastullava a imbarbarire la sua lingua di forestierismi, cosa che i raffinati letterati cinquecenteschi disprezzavano alquanto.
Gli effetti di questa politica linguistica, meravigliosamente espressi da un articolo di Carlo Emilio Gadda sulla “Ronda”, o, per meglio dire le degenerazioni, consistono nella costruzione di una lingua eccessivamente codificata, scarna, al limite dell’impoetico. A fine Ottocento, per la realizzazione del Novo Vocabolario, i linguisti manzoniani scartarono tutti i sinonimi considerati dialettali o regionali, contribuendo a impoverire l’italiano, a renderlo una semplice lingua di comunicazione, che può permettersi di scartare “padule” in favore “palude”, in quanto un doppione è superfluo. C’è una ragione in questo: la lingua non può servire solo per l’arte, o solo per i poeti che hanno difficoltà a riempire il verso con la parola del giusto metro.
Una lingua ha delle esigenze pratiche che, anche se limitano quelle espressive, non possono essere eluse: deve infatti essere facile da imparare, comprensibile per tutti, il più semplice e razionale possibile, deve poter informare le persone ed essere una lingua adatta per i giornali, deve fare le leggi e tutti quei compiti meno nobili che regolano la vita umana. Anzi, da un certo punto di vista, i manzoniani hanno reso l’italiano più simile al dialetto, in quanto lingua adatta ad esprimere le cose quotidiane. Al prezzo però di un irrigidimento generale che lo rende meno poetico, meno flessibile.
Dunque, ecco che il dialetto incomincia ad essere un’alternativa allettante.
La mancanza di istituzioni, unita alla concorrenza del più altolocato italiano, ha permesso infattal dialetto di essere lingua malleabile per eccellenza, anche se non è più una lingua di popolo. Per di più, se ne ritrova l’eco in ogni espressione, in ogni suono: si ritrova la bellezza e la poesia di un popolo perduto. Un popolo non lontano, ma di cui si è fatto parte, si fa parte: il dialetto, infatti, è un grande privilegio.
È il privilegio di chi, da bambino, ha imparato così, gratis, senza fatica, una seconda lingua da usare a proprio piacimento. E non una lingua secondaria, di seconda importanza: ma la lingua che per più tempo è risuonata nel luogo dove si vive. Una lingua più vicina alle cose perché nata dal rapporto con quelle cose, con quella realtà specifica. Una lingua inadatta a esprimere la vita contemporanea, perché nata e sviluppatasi quando quella vita non c’era, ma adattissima a parlare di tutto il resto, a parlare la lingua dei campi e delle acque, o i muggiti e i mugugnamenti dei pascoli alpestri.
Inoltre, non essere più moneta corrente preserva questa lingua dalla banalizzazione. Lo scrittore in dialetto, dunque, diventa realmente poeta perché può scegliere la parola da adattare all’oggetto, calzargliela appieno. Il parlante dialettale può con una pennellata aggiustare il colore alla sua parola, renderla più ruvida o più levigata; ed è un privilegio che al parlante di lingua non è accordato. Può decidere di andare a prendere una parola un po’ più a sud o un po’ più a nord, può proprio cambiarla, viste le infinite possibilità del dialetto, che è come un mito greco, e vive di varianti. C’è la stessa differenza che passa tra l’arcaico Omero e il raffinato Virgilio: il secondo sarà anche più aggraziato, ma non ne ha la stessa forza primordiale.
Ecco perché è così importante che il dialetto continui a vivere. Non per l’effimera libertà che si può avere nel mettere una parola o un’altra nel proprio discorso, ma perché la padronanza di una lingua imparata così, dai discorsi delle donne in strada, parlata solo in certi luoghi, solo in certe situazioni, senza la regoletta, senza giusto e sbagliato, con la possibilità infinita di lavorarci su, determina radicalmente la propria vita. Le parole non sono semplicemente strumento, ma compagne; le cose che quelle parole esprimono, ogni volta che sono chiamate col loro secondo nome, il nome in dialetto, diventano diverse, tornano a far parte di un proprio mondo, di un mondo che era prima di noi e di cui siamo chiamati a far sentire l’odore.
In copertina: Carlo Emilio Gadda a Milano.