L’arte è un gioco: il processo di gamification e le sue radici

Balloon Museum, esempio di museo-mostra tipico della gamification dell'arte

Fino a qualche anno fa trovare pubblicità di mostre immersive e interattive era subito motivo di grande curiosità, sicuramente unita a un po’ di scetticismo della vecchia guardia e dei puristi dell’arte. Nel giro di poco però ciò che era eccezione è diventato normalità, dividendo il pubblico in due schiere, chi a favore e chi contro.

Ma cos’è questo processo di gamification che si è trovato a subire l’arte? Quanto è marketing e quanto tentativo di allargare il bacino dell’utenza di mostre ed esposizioni? Chi è contro, perché lo è? E chi è a favore, quali meriti attribuisce a questo nuovo tipo di fruizione?

Prima di ogni considerazione sul presente, è doveroso fare un salto indietro nel tempo, a quando l’arte ha smesso di essere materia da accademia e ha deciso di accogliere tra i suoi soggetti la quotidianità, con la gente e gli oggetti comuni.

Una prima transizione è avvenuta già alla fine degli anni ‘10 con il Dadaismo, che voleva rendere l’arte un gioco e lasciarsi per sempre alle spalle la sua dimensione sacrale, facendo dei ready-made il proprio vessillo. E così nel gioco artistico di Man Ray lo spettatore è chiamato a ragionare davanti alla sua “Ostruzione”, osservando grucce sgangherate che si incatenano le une con le altre dando vita a un ipnotico dondolio, che ben poco aveva a che vedere con l’arte pittorica a cui tutti erano abituati. Non era forse questo un primo tentativo di interazione con lo spettatore, portato a osservare, a deridere, forse anche a indignarsi davanti a un’opera così insolita che in molti facevano addirittura fatica a riconoscere come tale? Da quel momento in poi qualcosa si romperà per sempre nella canonicità e nella percezione della sfera artistica.

Mostra Da Vermeer a Van Gogh a Les Baux de Provence, organizzata da Carrières des Lumières
Mostra Da Vermeer a Van Gogh a Les Baux de Provence, organizzata da Carrières des Lumières (credits: lesbauxdeprovence.com)

A partire dagli anni ‘20, una serie di correnti artistiche e culturali sfideranno gli spettatori a spingersi oltre a quello che era sempre stato considerato meritevole di essere ritratto, presentando soggetti scomposti, fantasiosi, onirici, con colori anacronistici e forme mutevoli. Fino agli anni ‘50, quando tutti i supporti e i materiali usati fino a quel momento diventano d’un tratto insufficienti per un’espressione soddisfacente dell’io dell’artista, che sceglie quindi di mettersi in gioco in prima persona: nasce così la performance. Kaprow e Oldenburg oltre oceano, Manzoni e Klein in Italia, sono solo alcuni degli artisti che proprio in questi anni hanno sentito la necessità di spingersi oltre le barriere imposte da decenni di tradizione e utilizzare suoni, attrezzi, corpi e movimento per veicolare il proprio messaggio, ottenendo come risulto la rottura della quarta parete.

Lo scopo di queste esibizioni artistiche non era diverso da quello di un quadro o di una scultura, i tempi lo erano. La necessità di parlare la lingua della contemporaneità e di rendere l’arte qualcosa di popolare – e allo stesso tempo di criticare la mercificazione dell’oggetto artistico – ha portato Kaprow a cospargere di marmellata una macchina per poi farla leccare via, Manzoni a creare la propria “merda d’artista” giocando anche con la fede incondizionata che spesso il pubblico ripone nel creativo; ha spinto Oldenburg a rendere vive le proprie sculture  e installazioni e Klein a trasformare un corpo nudo in tela.

Questi primi approcci alla performance costituiranno fertile terreno per molti artisti degli anni a venire, che faranno di questa tipologia di comunicazione la propria firma artistica. Un radicale cambiamento che ha per sempre modificato la fruizione dell’arte, per lo meno di quella contemporanea, rendendola sempre più partecipata e interattiva e che ha di fatto gettato le basi per tutte quelle mostre esperienziali che dividono la critica in due fazioni.

Tempi nuovi, strumenti nuovi: la tecnologia in questi casi la fa da padrona per creare stanze immersive e catapultare i visitatori in un mondo altro, dove spesso le opere non sono fisicamente inserite nello spazio ma proiettate sulle pareti, con il supporto di giochi di luce, musiche e spesso anche profumi particolari in grado creare grande suggestione in chi guarda. Uno degli esempi più longevi di questo tipo di esposizioni arriva dai vicini francesi, dalla Provenza per essere più precisi: a Beaux de Provence delle cave di calcare dismesse ospitano dal 2012 le Carrières de Lumières, uno straordinario spettacolo di luci e musica che ha come soggetto ogni anno un artista o una corrente artistica diversi.

Van Gogh Experience: mostra immersiva esempio di gamification dell'arte
Van Gogh Experience a Napoli (credits: Ansa.it)

Tornando in Italia sono stati sotto gli occhi di tutti i casi delle Van Gogh experience o Monet experience, mostre spesso itineranti che richiamano sempre una grande quantità di pubblico e che riproducono nelle sale alcuni dei più grandi capolavori degli artisti, immersi in atmosfere da favola. Altro caso è quello del Balloon Museum, una struttura che ha occupato le maggiori città italiane ed europee facendo divertire grandi e piccini con installazioni immersive, stroboscopi, bolle di sapone e piscine di palline, ottenendo un gran successo e un assicurato sold out.

Le critiche fatte a questo tipo di esposizioni sono tante, a partire dalle perplessità sulle opere esposte, che non sono praticamente mai quelle vere ma riproduzioni mediante foto o video; inoltre l’eccessivo abbellimento delle sale tenderebbe a sminuire l’artista e il suo operato, rendendo il tutto una semplice esperienza da immortalare magari con un selfie che verrà poi postato sui social.

Se questo rischio di banalizzazione e semplificazione può essere concreto, non va dimenticato che l’arte non ha pubblico di serie A e di serie B, e che spesso queste occasioni possono costituire un primo “touching point” per visitatori che difficilmente si sarebbero avvicinati a una mostra diversa da questa: non addetti ai lavori, indifferenti o semplicemente ragazzi e bambini possono più facilmente essere attirati da un’esperienza di questo tipo rispetto al classico ambiente museale.

I tempi come abbiamo detto cambiano, ma la volontà insita nel manufatto artistico di creare un’emozione e una reazione in chi la guarda rimane sempre un punto fermo. E nel 2023 limitarsi a un’osservazione passiva sarebbe forse riduttivo e poco efficace in un mondo costantemente guidato da stimoli e impulsi. Lasciamo quindi che la storia faccia il suo corso, senza mai dimenticare quel tacito accordo tra artista e spettatore che prevede reciproco rispetto e viva curiosità, ma mettendo da parte un po’ di scetticismo.

D’altronde, quali saranno stati i commenti dei primi spettatori di Kaprow e Klein?

 

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In copertina: Maritè Toledo, Gioco di specchi, di palle, di colori, 4 febbraio 2023.

elisa enrile
Elisa Enrile

Sono nata a Savona sotto il segno dei gemelli e forse è proprio a questo che devo la mia creatività e la propensione per le materie umanistiche. Amo leggere e scrivere, la danza e la musica. Dopo la laurea in Lettere moderne ho scelto di proseguire il mio percorso di studi seguendo la mia passione per la storia dell’arte e specializzandomi in ambito contemporaneo.