«A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie.
Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale»(Big Fish – Le storie di una vita incredibile, regia di Tim Burton, 2003)
La mitologia assolve, tra gli altri, ad uno scopo molto preciso: dare una spiegazione ad un qualcosa di non ancora spiegato. Non si deve pensare, tuttavia, che questa sia una forma di ingenuità, tipica di popoli “primitivi” che si trovano in uno stato ancora “arretrato”, pronta a venir superata con la “civilizzazione” e l’accesso a spiegazioni razionali e scientifiche. Questa convinzione, fondamento degli studi di antropologia ed etnografia degli albori, è stata ormai superata e messa da parte, non solo per il nemmeno troppo velato sottotesto colonialista, ma sopratutto perché ci si è resi conto che era una visione riduttiva e incompleta.
Come già ci ricordò J.R.R. Tolkien[1], anche nei casi in cui è più lampante il legame tra una figura dell’immaginario e un elemento della natura, la prima ha sempre qualcosa in più: tutti i popoli antichi hanno immaginato una divinità celeste che scagliasse fulmini durante un temporale, ma il greco Zeus e il norreno Thor sono molto più di questo elemento funzionale; hanno una tridimensionalità – tanto iconografica quanto psicologica – ben maggiore rispetto al solo elemento del fulmine, e sono personaggi radicalmente diversi tra di loro, proprio perché non sono semplici antropomorfizzazioni di un fenomeno naturale, ma personaggi dell’immaginario, arricchiti di dettagli e peculiarità.
A maggior ragione, che la costruzione di miti – o di fiabe, che del mito sono una forma – non sia unicamente una razionalizzazione ci viene confermato da un altro elemento ricorrente: l’affiancarsi di un racconto alla pura eziologia[2]. Una parte considerevole delle mitologie è costituita infatti da storie che raccontano l’origine di piante, animali od elementi del paesaggio. A volte queste storie non sembrano avere altro scopo se non di spiegare perché un animale abbia una certa forma, oppure perché una pianta abbia un dato nome; eppure nel racconto permane sempre qualche significato in più rispetto alla cronaca di una semplice origine. Quanti fiori sono spuntati dal sangue di eroi caduti, quanti animali erano un tempo persone? Essi sono diventati eterni nel farsi racconto, e vivono tanto negli elementi cui hanno dato forma quanto nelle storie che ne sono raccontate.
Già gli antichi Greci – come fin troppo spesso capita – ne avevano avuto sentore. Evemero di Messina, un filosofo alessandrino vissuto tra il IV ed il III secolo a.C., avanzò l’ipotesi che gli dèi e gli eroi dell’antichità non fossero stati altro che re e guerrieri, uomini famosi e importanti il cui ricordo si era gonfiato e ingrandito dopo la loro morte, fino a rivestirsi di una grandezza sovrumana – nel suo senso più letterale: “superiore all’umano”, più grande del comune. Il rispetto e la venerazione imponevano il ricordo, e passando di bocca in bocca il racconto si arricchiva e ingigantiva fino a trasfigurare i protagonisti.
Anche la tesi di Evemero, che dal suo nome – discreta ironia – ha preso il nome di evemerismo, deve essere maneggiata con cautela. La critica che Tolkien muove alle antropomorfizzazioni vale anche per le razionalizzazioni spicciole: se pure ciò può spiegare l’origine di un racconto, non ne esaurisce la complessità né la rilevanza[3]; la storia narrata diventa infinitamente più grande e profonda del suo ipotetico correlativo oggettivo storico, il re Artù dei romances è un personaggio ben più interessante del suo ispiratore della Britannia post-romana[4]
Nondimeno, Evemero ci ha indicato con precisione un fenomeno cruciale: durante la trasmissione, un messaggio si modifica, si arricchisce di dettagli prima inesistenti, si colora di quanto di proprio ci mette il suo narratore. Passando di mano in mano e di bocca in bocca, le storie diventano sempre più mirabolanti.
È da queste premesse che nascono le Tall Tales, un peculiare ibrido tra fiaba e leggenda popolare. Il nome (letteralmente «storie alte, storie grandi») viene meglio reso con «racconti esagerati», ma la traduzione letterale ci rimanda subito alla sfera semantica dell’accrescimento: le Tall Tales sono storie larger than life, più grandi della vita vera: gli episodi che raccontano non violano i confini del reale e del verosimile, ma li stirano, li allargano fino ad arrivare all’incredibile. Sono i racconti di pesci così grandi che quasi sfondano la barca del pescatore che li ha catturati, le storie di uomini così forzuti da tirare il carretto al posto del somaro azzoppato, le leggende di bestie così feroci da divorare da sole intere greggi. Episodi implausibili dunque, ma non irreali, saldamente ancorati al nostro lato della soglia del sovrannaturale pur spingendosi il più possibile verso lo stupefacente.
Non per caso nel capoverso precedente ho impiegato parole inglesi: pur essendo un genere universale, le Tall Tales hanno infatti incontrato una straordinaria fortuna negli Stati Uniti, significativamente maggiore di quanto non abbiano avuto in Europa. Questo è con ogni probabilità un riflesso del fatto che gli Stati Uniti sono ancora una nazione giovane, la cui mitologia nazionale si è costruita su episodi ancora prossimi e vivi nella memoria dei suoi abitanti[5] Proprio per questo, la conquista del territorio americano doveva essere accompagnata dalla creazione di una mitologia propria, che rivendicasse il possesso di quella terra anche sul piano dell’immaginario. La costruzione di questo nuovo patrimonio mitico finisce con l’essere un’operazione coloniale: una terra “vergine”, pronta per essere conquistata e “civilizzata”, si presenta come uno spazio vuoto nel quale far nascere nuove storie; poco importa del popolo nativo che c’era già sul continente, e dei racconti cui aveva dato vita per secoli – per i nuovi coloni, quella terra era libera e destinata a loro e alle loro storie.
E tali storie, come i coloni appena sbarcati, si dimostrarono fin da subito sorprendentemente variegate: le Tall Tales statunitensi hanno infatti per protagonisti un insieme molto eterogeneo di figure reali ed immaginarie, di personaggi storici, mitistorici e fittizi. In questa galleria di creatori del mito americano camminano fianco a fianco il cowboy Pecos Bill – che prese al lazo le nuvole per portare la pioggia sul Texas tormentato dalla siccità – e Davy Crockett – il trapper della frontiera morto nella battaglia di Alamo; il pioniere Johnathan Chapman – noto come Johnny Appleseed perché piantò gli alberi di melo in tutti gli Stati Uniti – e Paul Bunyan – un erculeo boscaiolo che creò i diecimila laghi del Minnesota con le impronte dei suoi piedi; e ancora la fuorilegge Calamity Jane e l’operaio afroamericano John Henry, la patriota Molly Pitcher e il barcaiolo Mike Fink.
Nemmeno i Padri Fondatori rimasero intoccati da quest’aura di leggenda: di George Washington, comandante dell’esercito continentale e primo presidente degli Stati Uniti, si racconta che in gioventù sapesse lanciare un dollaro d’argento – che non era ancora stato coniato – da un lato all’altro del fiume. Ancor più celebre e mirabile è la storia di come George bambino piantò un albero di ciliegio assieme al padre, che lo ricompensò donandogli una piccola ascia; ma quando George con l’ascia in questione abbatté l’albero, lo confessò subito al padre che non lo punì, perché un ragazzo onesto sarebbe cresciuto per diventare un uomo onesto, più prezioso di un’intera piantagione di ciliegi. Non poteva esserci origine migliore e più adatta per l’uomo destinato a diventare padre della nazione.
Se la fiaba, ci insegna Tolkien, ci parla dell’incontro dell’uomo col fantastico, le Tall Tales ci parlano di un reale venato di stupore: a sentire questi racconti mirabolanti, il pubblico sa di non doverci credere, ma in cuor suo gli dispiace, perché vorrebbe crederci. E c’è un episodio in particolare che lo ha dimostrato in maniera incontrovertibile: ce lo ha presentato quel grandioso inventore di storie che fu Phineas T. Barnum, fondatore dell’omonimo circo.
Non solo Barnum fu il creatore dell’immaginario moderno del circo – che condivide con le Tall Tales lo stesso spirito di esagerazione ed esaltazione di azioni mirabolanti – raccogliendo “meraviglie” da offrire al suo pubblico, come animali esotici o freaks. All’interno delle sue strutture e del suo itinerario Barnum ospitò il Buffalo Bill Wild West Show, che rappresentava in maniera quintessenziale l’immaginario degli Stati Uniti al crepuscolo dell’età della frontiera; sulle tre piste del circo Barnum si affiancavano tutti gli elementi mitici del West, presentati al pubblico borghese come un romantico souvenir del passato. Personaggi celebri come il capo Sioux Toro Seduto, la pistolera Calamity Jane e lo stesso Buffalo Bill con le loro esibizioni passarono dal dominio della Storia a quello della leggenda, trasfigurandosi nella sostanza di cui sono fatti i sogni.
Ma, tra tutti i portenti imbastiti da P.T. Barnum, forse il più significativo è Joice Heth, una schiava nera che fu presentata nientemeno come la balia di George Washington, la donna che svezzò, accudì e crebbe il primo presidente nella sua infanzia. Per sette mesi la vecchia donna viaggiò al seguito del circo, raccontando aneddoti curiosi e divertenti sul piccolo George, e ad ogni tappa la sua età dichiarata cresceva – 110 anni a Louisville, 121 a Cincinnati, 141 a Pittsburgh – finché Barnum non le attribuì ben 161 anni durante la stagione newyorkese. Quando infine Joice Heith morì, tanta fu la curiosità di sapere se davvero quella donna poteva essere stata la balia di Washington che si dispose un’autopsia pubblica; naturalmente, l’esame rivelò che la povera donna aveva avuto un’età sì venerabile, ma certo non bicentenaria. Eppure, presto si diffuse la notizia – montata ad arte dallo stesso Barnum – che l’autopsia era stata effettuata su di un altro cadavere, e Joice Heth era viva e si esibiva ancora altrove; e il pubblico volle crederci: quella storia era sì inverosimile, ma troppo bella per non raccontarla.
Così d’altronde disse John Ford, un altro dei più illustri creatori di una mitologia americana:
«Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda»
(L’uomo che uccise Liberty Valance, regia di John Ford, 1962)
In copertina: Copertina del programma di sala del William F. “Buffalo Bill” Cody: 1895 Wild West Show, particolare.
William Cody fu un celebre pioniere, cacciatore e scout dell’esercito, premiato con la Medaglia d’Onore del Congresso, più alta onorificenza militare degli Stati Uniti, per le sue azioni durante le Guerre Indiane. A partire dall’incontro con il celebre romanziere Ned Buntline, Cody divenne una celebrità con il nome di “Buffalo Bill”, allestendo una compagnia di giro che modellò in maniera determinante l’immagine del Vecchio West.