Ernest Hemingway

Perché Il vecchio e il mare è il testamento spirituale e letterario di Hemingway

Il vecchio aveva visto molti pesci grossi. Ne aveva visti molti che pesavano più di quattro quintali e mezzo e ne aveva già presi due di quelle dimensioni in vita sua, ma non era mai stato solo. Ora, da solo e in pieno mare aperto, era legato al pesce più grosso che avesse mai visto e di cui avesse perfino sentito parlare, e aveva la mano sinistra ancora serrata come la morsa degli artigli di un’aquila.

(E. Hemingway, Il vecchio e il mare, pp. 51-52)

Ernest Hemingway è, forse, il caso più emblematico del legame a doppio filo tra biografia dell’autore e sua produzione letteraria. Al punto che, in lui, non solo le due cose si influenzano a vicenda, ma si completano in modo simmetrico e consequenziale, in maniera talmente pura, che è impossibile scindere dalla persona di Hemingway la propria vita e la narrazione letteraria che la registra scandendola. Si può dire, senza riserve, che l’opera di Hemingway deve essere letta con la lente narratologica della diegesi esistenziale, anzitutto della sua stessa esistenza. Ne Il vecchio e il mare la narrazione esistenziale assume i tratti di un’epica individuale (epica in senso omerico) che Hemingway racconta attuando il dispositivo narratologico della meta-narrazione, con l’intento di fare del breve racconto il suo testamento non solo spirituale, ma anche letterario.

Hemingway nasce a Oak Park nel 1899, durante gli anni del liceo si vide pubblicati due articoli nel giornale scolastico. Nel 1917, diplomatosi, intraprese la carriera di reporter per il Kansas City Star, dopo essersi trasferito nella città. Lì si confrontò con il realismo suburbano della cronaca cittadina. È come cronista che Hemingway impara a sviluppare uno stile ipotattico, asciutto, ma al contempo profondamente interpretativo, e ad applicarlo alle vicende concrete della vita reale. Fu una prima crescita professionale che lo rese suscettibile alla comprensione profonda delle vere “storie” umane.

Lo scrittore americano fu un uomo ironico e sferzante, colto e passionale, ferino come la natura selvaggia che ha amato e vissuto. Ma, allo stesso tempo, era dotato di una spiccata intelligenza osservativa e sensibilità intellettuale. Amava svolgere attività. Scrivere, più di tutte le altre, era parte integrante del suo processo di degustazione e di esorcizzazione dell’esistenza.

Hemingway non era l’intellettuale da salotto, ma era, invece, un verace assaporatore delle esperienze forti della vita, quelle che lasciano un segno nell’anima, dopo aver fatto secretare endorfina al corpo. La narrativa e la letteratura erano attività per lui, non un vezzo artistico.

Per questo ha scritto solo di ciò di cui fece esperienza diretta.

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Mr. Papa ha saputo capire che la complicazione della trama narrativa e la costruzione di personaggi artificiosi non sono che l’aggiunta dello scrittore, dell’estro letterario. La complicazione non aggiunge niente alla verace complessità delle vicende esistenziali reali, che, quindi, devono essere raccontate con la semplicità con cui, solo a prima vista, appaiono.

In attesa della pubblicazione del racconto inedito Pursuit as happiness, scoperto dal nipote Sean nell’archivio della J.F. Kennedy Library and Museum, opera che, da quello che sappiamo, potrebbe dirci ancora di più sulla poetica e sulla filosofia dello scrittore americano; riscopriamo il racconto che, ad ora, le esprime meglio.

Il vecchio e il mare, è l’opera narrativa più nota e letta di Hemingway. Gli accademici svedesi organizzatori del Premio Nobel, che vinse per la letteratura nel 1954, fecero sapere che gli avevano attribuito il premio sopratutto per quel racconto. Un’opera di cento pagine, che aveva fatto guadagnare a Hemingway il Pulitzer nel 1952. Nella postfazione dell’edizione italiana del 1972, Fernanda Pivano riferisce che Hemingway comunicò al suo editore di aver scritto, con il vecchio e il mare, la più bella cosa in vita sua, la quale «gli pareva potesse fare da epilogo a tutto quello che aveva imparato o aveva cercato di imparare mentre scriveva e cercava di vivere». Hemingway, in effetti, scrisse questo racconto alla fine della sua carriera di scrittore, circa dieci anni prima della sua tragica morte, senza che qualche editore o qualche giornale gliela avesse commissionata e perfino senza l’idea di pubblicarla. Suggerimento che gli venne da Leland Hayward, il produttore teatrale di Broadway, che gli consiglio di pubblicare il racconto su un numero unico della rivista Life. Quel numero vendette oltre 5.300.000 copie in 48 ore.

Proprio in merito all’origine giornalistica della sua prosa e dei suoi contenuti narrativi, il vecchio e il mare è l’esempio più emblematico dell’intera opera di Hemingway. Il racconto è ambientato a Cojímar, un villaggio di pescatori a una decina di chilometri ad est dall’Havana, che Hemingway frequentava abitualmente dopo essersi stabilito a Cuba, perché ci teneva il Pilar (la sua barca). Fu proprio il primo marinaio del Pilar, Carlos Gutiérrez che nel 1936 gli raccontò la storia dalla quale Hemingway trasse ispirazione per il racconto, che, nella sua prosa straordinaria, leggiamo ancora oggi. L’opera trae origine da una “storia vera” e questo è un dato imprescindibile per capire il modo di scrivere di Hemingway e ciò a cui dava maggiore importanza.

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Ne il vecchio e il mare Hemingway mostra come la semplicità di un’esistenza ordinaria, persino sciagurata, possa trasformarsi in vicenda straordinaria. La “normalità” nella dolcezza del rapporto tra il ragazzo Manolo e Santiago, è, in generale, inserita nella descrizione dell’amicizia paesana, della vita indigente e scarificata, e della solidarietà fraterna nel contesto civile di cittadinanza, che Hemingway aveva esperito vivendo a Cuba. La complessità è data, invece, dall’imprevedibilità di una vicenda inattesa e straordinaria che capita ad un uomo semplice, umile, onesto, persino povero, persino ritratto come incarnazione della sconfitta e della sfortuna. Una vicenda che anzitutto capita da sé, non cercata, al massimo sperata come improbabile illusione trasognante.

De il vecchio e il mare sono state date molte interpretazioni. Ciascuna di esse argomenta una riflessione introno a uno dei molteplici temi contenuti nella narrazione. Una, e persino probabilmente la più significativa interpretazione de il vecchio e il mare, è stata sottovalutata dalla critica letteraria in tutti questi anni, forse perché questa era occupata a cercare il senso del racconto nella metafora e nel simbolismo (Berenson), e non dove Hemingway aveva riposto la sua profondità e il suo scopo. La sua profondità, quella legata al modo in cui il suo autore concepiva l’attività letteraria.

Il tema cardine del racconto è quello del successo che si tramuta nell’insuccesso. La vittoria sul marlin, sagacemente conquistata da Santiago, è vuota, ma al contempo eterna. Pur non recando con sé frutti concreti, perché la vita “pezzo per pezzo” toglie ciò che uno guadagna e accumula, comunque essa non toglie i segni (lo scheletro del pesce) dell’impresa compiuta, che diviene quindi narrazione epica. La storia che leggiamo diventa, nel contenuto della narrazione, in virtù del suo finale, un’esperienza tramutata in racconto di sé stessa. In questo senso, Hemingway traccia un circolo virtuoso che testimonia la genesi e la natura delle sue opere, le quali si originano da una verità di cronaca (true story) che viene eternata attraverso la sua narrazione letteraria, che non è finzione, ma esaltazione in forma epica, che restituisce il racconto stesso alla sua dimensione di storia reale. Così, la true story de il vecchio e il mare, diventa, per Hemingway, l’espediente per redigere il suo testamento spirituale e letterario.

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Con una prosa prodigiosa Hemingway rende il vecchio e il mare sia lo scrigno di se stesso e della sua concezione della scrittura, sia delle modalità in cui le sue opere si generano. Ci ha lasciato un racconto che ha per oggetto l’ontogenesi del racconto stesso, in una implicita, nascosta tra le righe, lezione sul suo stile letterario, oltre che sull’uomo che era. Intessendo un legame compensativo di esperienza concreta di vita e trama narrativa che da essa viene contestualmente dedotta e narrata.

Nel racconto, per quanto breve, in effetti, è racchiuso tutto Hemingway. La veemenza e la strenua caparbietà della capacità reattiva del vero uomo, l’idea che l’uomo sia stoico e impassibile al dolore, ed anzi, fatto proprio per sapervi resistere con coraggio e sprezzante indifferenza. Al contempo è presente la fragilità psicologica ed emotiva che in Santiago manifesta in modo umbratile nella contraddittorietà dei sui intimi pensieri, che Hemingway narra con abilità nei tre giorni e nelle due notti che il vecchio trascorre in assoluta solitudine in mare aperto.

Coraggio e fragilità, fanno emergere nel comportamento umano l’eleganza dinnanzi alle avversità, qualcosa di diverso dal contegno borghese, pieno di perfidia e risentimento inespresso. Ma soprattuto tutt’altro rispetto al “machismo” attribuitogli da Anthony Burgess ne L’importanza di chiamarsi Hemingway (Minimum Fax, Roma, 2008) che ha portato a considerare, erroneamente, lo scrittore come un esponente della “mascolinità tossica”, autore di una prosa rozza e grezza propria della Midcult, secondo la stroncatura di Dwight Mcdonald.

Questa eleganza di fronte alle situazioni di pericolo e di dolore è la reazione esteriore, visibile, che si oppone all’angoscia e alla disperazione. È quindi il sintomo esterno della resistenza che restituisce tutta l’antropologia hemingwayana del “doppio dicho”. Sebbene Santiago dica a sé stesso, inizialmente, «l’uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto» questa posizione risulta alla fine rovesciata. «mi hanno battuto, Manolin. Mi hanno proprio battuto», non vuol dire che il vecchio sia stato annientato, seppur sconfitto.

Ernest Hemingway Il veccho e il mare

Lo scrittore di Oak Park ci fornisce una descrizione della vita popolare attraverso la magnificenza di un eroismo mutilo, incompiuto, che fa coincidere l’epos individuale costruito attorno alla psicologia e alle vicende del vecchio, con una universale rappresentazione della vita come alternarsi nevrotico di vigoria aggressiva, resistenza, sconforto, e dolci sentimenti.

Questo è, forse, l’insegnamento di vita che ci dà la prosa dell’opera di Hemingway. Occorre, per lo scrittore, parlare con gli altri, ascoltare storie, vivere esperienze di vita pratica, attiva, altrimenti, la mente dello scrittore può essere anche la più brillante, avere un repertorio immaginario e una cultura straordinaria, ma resta deprivata della passione del vissuto, che sia emotivo, partecipativo, empirico o empatico.

L’opera di Hemingway appartiene al genere di un realismo che è un intreccio armonioso tra il romanzo-verità, il romanzo esistenziale, e il romanzo sociale.

L’aspetto più straordinario de il vecchio e il mare risulta essere, perciò, la circolarità virtuosa della meta-narrazione di una storia vera. Cioè il fatto che il racconto si origina da una storia reale e, passando attraverso la prosa letteraria che la dispiega, ritorna alla dimensione della narrazione orale popolare da cui proviene come vicenda di vita vera. Infatti, l’esperienza vissuta dal vecchio nel mare che leggiamo nel libro diventa il racconto atteso al suo ritorno, quello che farà al ragazzo e a tutti gli altri, una volta che si sarà svegliato e avrà ripreso le forze. L’esperienza vissuta dal vecchio nel mare, in quanto grande impresa vissuta in solitudine, diviene la storia che solo il vecchio stesso può raccontare al ragazzo e agli altri concittadini, proprio perché l’unico esito dell’esperienza epica vissuta dal vecchio è la sua narrabilità, non recando con sé altri frutti concreti se non uno scheletro e la spada del pesce, anche essi segni di un vissuto solo raccontabile.

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In ciò c’è anche il realismo che fa del racconto un’epica individuale, la quale non porta né emancipazione, né svolta evidente e concreta in un passaggio dal “prima” al “poi” della condizione di vita. Ma vi è l’accentuazione della auto-conclusività dell’azione, anche della più eroica e spettacolare, che ha il sapore universale delle vicende di chiunque si impegna e lavora per un obiettivo.

L’azione che risulta vana perché non vincente, è stato indicato dallo stesso Hemingway come il cuore del racconto. Perché è nell’azione vana, ma portata a compimento, che si situa quello che lo scrittore chiamò «il più vecchio doppio dicho che conosca», ovvero l’affermazione in due direzioni “l’uomo può essere sconfitto, ma non distrutto” su cui Hemingway gioca rovesciandone i termini. È, infatti, il sintomo esterno della resistenza che restituisce tutta l’antropologia dell’unica sequenza del “doppio dicho”. Sebbene Santiago dica a se stesso, inizialmente, «l’uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto» questa posizione risulta alla fine rovesciata.

E infatti, Santiago trionfa come uomo, per la propria resistenza e tenacia nell’affrontare dolore e pericolo: torna a casa e si fa portatore di una storia unica che solo lui può raccontare. Per Hemingway un uomo non è altro che le vicende straordinarie che vive e il modo in cui le affronta.

Hemingway, quindi, ne il vecchio e il mare, non solo condensa la trattazione dei temi esistenziali che contraddistinguono la sua produzione letteraria, e le sue idee personali rispetto alla vita, ma racconta anche il modo in cui, da scrittore, nascono le sue storie. Ovvero, dall’esperienza reale, che, ricostruita nella trama di un’opera letteraria, la salva dall’oblio dell’oralità, proprio nel gesto di riconsegnarla alla dimensione reale da cui proviene. Per questo il vecchio e il mare è il testamento spirituale, ma anche letterario, di Hemingway.

 

In copertina: Yousuf Karsh, Ernest Hemingway, 1957


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