Categoria: Origines

Cosa significa avere delle origini? In questa rubrica andremo indietro nel tempo, all’antica Grecia, a Roma, al Medioevo.

  • La musica per gli antichi greci: alle origini della teoria della tonalità

    La musica per gli antichi greci: alle origini della teoria della tonalità

    Sebbene ad oggi per la maggior parte sconosciuta, la dimensione musicale è parte integrante del mondo greco dalle origini fino all’età ellenistica: basti pensare, ad esempio, alla recitazione di poemi epici come l’Iliade e l’Odissea, accompagnata dalla cetra, o ai componimenti poetici che venivano eseguiti con il flauto durante i momenti conviviali, i simposi. Anche gli spettacoli teatrali delle tragedie e delle commedie erano inframezzati da importanti sezioni dedicate al coro, che, a quanto sappiamo, cantava e danzava a ritmo di musica. Durante queste performance, dunque, gli esecutori coniugavano competenze e abilità musicali, come canto e accompagnamento strumentale, poetiche, come la composizione del testo, e gestuali, con lo svolgimento, dove previsto, di una coreografia.

    L’idea di “musica”, quindi, per i Greci, era un concetto ampio che comprende vari aspetti, non solamente l’esecuzione strumentale in sé, ma si inseriva, in senso più ampio, all’interno di uno spettacolo «che era in grado di coinvolgere il pubblico a un livello non solo intellettuale, ma anche emozionale[tooltip tip=”B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari 1989 p.32″][1][/tooltip]».

    Gli antichi attribuivano quindi un alto valore pedagogico a tale disciplina, posta alla base della formazione dei giovani, tanto da farne diventare la conoscenza come un vero e proprio bagaglio tecnico indispensabile per l’attività non solo del poeta, ma anche del cittadino.

    Nonostante questo variegato e interessante panorama, ci è quasi del tutto impossibile conoscere quali fossero, di preciso, le melodie scritte e pensate dai Greci: a parte un frammento musicale della tragedia Oreste di Euripide, non è rimasta alcuna altra testimonianza. Questo è accaduto perché le melodie dei canti non erano usualmente affidate a un supporto scrittorio, ma erano imparate per imitazione nelle cerimonie pubbliche, nelle scuole e nei luoghi di ritrovo.

    Tuttavia, grazie ad alcuni riferimenti letterari e ad alcuni trattati teorici, è possibile affermare, con un certo grado di sicurezza, che la musica greca non conosceva il sistema degli accordi, cioè la sovrapposizione contemporanea di più note, l’armonia, ma solo l’esecuzione di note singole, la melodia. Il sistema musicale greco era inoltre basato non sulla successione di sette note, ma su suoni disposti e ordinati in sequenze di quattro, dall’acuto al grave, chiamati tetracordi, utilizzati in Grecia già dall’VIII secolo. I tetracordi possedevano le due note estreme fisse a intervallo di quarta (cioè, in una successione di due toni e un semitono, ad es., nella notazione contemporanea, fa-do), mentre le due intermedie risultavano mobili, potevano cioè cambiare ed essere alterate tramite l’aggiunta o la rimozione di un semitono (ad es.: nella successione fa-mi-re-do le note fa-do sono fisse, mentre il re e il mi possono diventare re/mi diesis (♯) o re/mi bemolle (♭)).

    Fyodor Bronnikov, I pitagorici celebrano il sorgere del sole, 1896, Tretyakov Gallery, Mosca.

    Accostando opportunamente due tetracordi, si otteneva una successione di otto note (chiamata, impropriamente, “armonia”, intesa però come “intonazione, accordatura”) discendenti dall’acuto al grave. Tale successione di otto note è più generalmente conosciuta con il termine di “modo”, come illustrato da Aristide Quintiliano nel trattato De Musica[tooltip tip=”R. P. Winnington Ingram, Aristidis Quintiliani De musica libri tres, Leipzig 1963.”][2][/tooltip], che indica quindi una successione ordinata di otto suoni vicini che variano a seconda del cambiamento della nota iniziale.

    I tetracordi, quindi, che potevano essere variamente combinati, davano origine a otto modi – chiamati eolico, ionico, ipolidio, dorico, frigio, lidio, misolidio e ipodorico – e a ciascuno di essi veniva riconosciuto un ethos particolare, cioè una caratteristica, capace di determinare e/o definire un certo stato d’animo. Ad esempio, il modo dorico era ritenuto grave e virile, adatto a promuovere iniziative nobili, mentre quello frigio sembrava idoneo a suscitare entusiasmo. Il modo misolidio era considerato estenuante e snervante, adatto a intonare canti d’amore e ad esprimere sentimenti di evasione, mentre il modo lidio era visto come elemento equilibratore tra la severità controllata del dorico e l’entusiasmo del frigio.

    Le radici remote della fede nel condizionamento musicale del carattere e dei costumi non risalgono tuttavia alle speculazioni filosofiche, ma hanno la loro origine nei miti e nell’antico impiego della musica nei riti religiosi e magici[tooltip tip=”P. Boyancé, Le culte des Muses chez les philosophes grecs. Études d’histoire et de psychologie religieuses, II ed., Paris 1936.”][3][/tooltip]: basti pensare, ad esempio, ai miti che raccontano come Orfeo, tramite il proprio canto, abbia reso più mansuete le belve dell’oltretomba.

    Le differenze dei modi dal punto di vista non solo strutturale, ma anche emotivo, costituiscono argomento di grande interesse presso gli intellettuali greci, già a partire dal VI sec. a.C.: l’idea di una corrispondenza generale tra modo e reazione emotiva dell’ascoltatore risale infatti già a Pitagora, al quale si devono i primi studi di teoria musicale. Una definizione e strutturazione più precisa della teoria dell’ethos si deve però a Damone di Oa: maestro e consigliere di Pericle ad Atene, sembra sia stato il primo che abbia attribuito un’accezione specificamente morale ed etica ai modi musicali. Damone avrebbe affermato che la musica possiede degli effetti positivi che influiscono sull’agire dell’uomo e che per questo essa deve essere studiata anche da chi governa la città, in modo che essi, tramite l’esecuzione di determinate melodie, possano essere spinti a migliorare la gestione delle questioni politiche.

    Gavin Hamilton, Donna con la lira, 1775, olio su tela.

    Non a torto dicevano i seguaci di Damone ateniese che necessariamente i canti e le danze implicano un certo moto dell’anima, e che i canti e le danze liberi e belli rendono tali le anime, mentre quelli contrari, contrarie anche le anime[tooltip tip=”Fr. C 1 Wallace. Traduzione nostra.”][4][/tooltip]

    Diversi tipi di musica, inoltre, esercitano la loro influenza non solo nei confronti del singolo individuo, ma possono avere delle ripercussioni anche dell’intera collettività. La musica può infatti assumere una funzione fondamentale nell’organizzazione della società, tanto che, secondo Damone, a un mutamento di regole in campo musicale può addirittura corrispondere un’analoga rivoluzione nelle strutture sociali: per garantire la formazione di buoni uomini politici, è necessario formare i cittadini, già dalla prima infanzia, alla virtù, anche attraverso l’educazione musicale, evitando quei modi che possono suscitare invece emozioni negative.

    Damone musicista, essendo una volta presente quando una suonatrice di flauto suonava secondo lo stile frigio ad alcuni fanciulli i quali, ebbri per il vino, compivano atti insensati, le ordinò di suonare secondo lo stile dorico: ed essi subito cessarono quel loro agitarsi sconsideratamente[tooltip tip=”Fr. B 7 Wallace. Traduzione nostra.”][5][/tooltip].

    È poi Platone, nella Repubblica ad approfondire e delineare nuovamente le caratteristiche dei modi musicali. Secondo il filosofo, ad ogni modo corrisponde un rispettivo stato d’animo: l’armonia misolidia è definita «lamentosa», quelle ionica e lidia sono definite «molli e simposiastiche», mentre quella dorica e frigia sono definite come «utili per gli uomini destinati alla guerra». Riferendosi al modo dorico Platone afferma che «può convenientemente imitare i toni di voce di un uomo coraggioso impegnato in un’azione di guerra e in ogni impresa in cui è costretto»; mentre quella frigia «è adatta a chi attende ad un’azione di pace e non compiuta sotto costrizioni, bensì volontariamente, o mentre cerca di convincere qualcuno di qualcosa o lo esorta»[tooltip tip=”Repubblica III, 399-401, ed. italiana a cura di M. Vegetti, Platone. La Repubblica, Milano 2006″][6][/tooltip].

    VictorLagye, Le danzatrici al tempio, 1896, olio su tela, collezione privata.

    Platone riprende l’analisi dell’ethos musicale anche nelle Leggi, in cui il consenso della comunità cittadina si basa sulla possibilità di persuaderne i singoli membri attraverso un sistema educativo sostanzialmente coreutico-musicale, che utilizzi il piacere quale incentivo per l’acquisizione della virtù (Leg. 654 b). Per Platone, se è vero che la percezione dei ritmi e delle melodie musicali deve accompagnarsi in primo luogo a una sensazione di gradevolezza, allo stesso tempo non va dimenticato che i modi possiedono una validità etica che deve contribuire a infondere, all’interno della comunità, valori positivi come il coraggio e la temperanza.

    Anche Aristotele (IV a.C.) si occupa delle implicazioni etiche della musica, riprendendo la teoria della dialettica tra ethos ed utilità in campo artistico-musicale, considerandone, come già Platone, anche l’aspetto ludico. Egli ritiene formativo utilizzare ogni genere di musica conosciuta dalla società del suo tempo, contestualizzandone però le differenti funzioni: la musica non ha solo scopo educativo, ma anche ricreativo. Nel descrivere nella Politica le tre funzioni della musica, Aristotele sottolinea come il piacere ne sia una componente fondamentale:

    Perché il divertimento è in vista del riposo e il riposo è di necessità piacevole […]. La ricreazione intellettuale, per ammissione concorde di tutti, deve avere non soltanto nobiltà ma anche piacere […] e la musica diciamo tutti che è tra le cose più piacevoli[tooltip tip=”Politica 1339 b, ed. italiana a cura di R. Laurenti, Aristotele. Politica, Bari 1993.”][7][/tooltip].

    Se quindi Aristotele ammette contesti in cui la musica non mira solamente a esprimere contenuti morali, tuttavia egli riconosce quanto le melodie influiscano su determinati stati d’animo e che, in determinati contesti, esse abbiano addirittura la capacità di produrre quel tipo di purificazione che libera l’anima dalle emozioni pericolose ed eccessive, nota con il nome di “catarsi”: suscitando sentimenti quali la pietà e la paura, la musica può portare l’uomo a purificarsi[tooltip tip=”Poetica VI 1449 b, ed. italiana a cura di P. Donini, Aristotele. Poetica, Torino 2008.”][8][/tooltip].

    Sebbene la teoria dell’ethos costituisca, come visto, un tratto peculiare dell’esperienza musicale greca antica, essa subisce anche una radicale negazione per opera di alcuni teorici: alla musica, considerata neutra da un punto di vista morale, è negata ogni funzione educativa e pedagogica riconosciuta solo alla parola. La critica più compiuta alla teoria dell’ethos è quella del filosofo epicureo Filodemo di Gadara (I sec. a C.)[tooltip tip=”M. West, Ancient Greek Music, Oxford 1992, p. 251.”][9][/tooltip], ma il ritrovamento del papiro Hibeh 13, avvenuto nel 1902, conferma che una critica alla teoria dell’ethos fosse diffusa, già nel V/IV secolo, anche nell’ambiente sofistico.

    Edward John Poynter, La danza ionica, 1895, olio su tela, collezione privata.

    Tutto questo complesso sistema musicale che collega strettamente i modi, l’ethos e i sentimenti umani, viene comunemente definito con il termine “modalità”, che si rifà quindi a una concezione orizzontale della musica, basata, come visto, sulla melodia intesa come successione di suoni.

    Tali teorie non vengono, successivamente, abbandonate, ma rivestono un ruolo di grande rilevanza anche nel XVI/XVII secolo. Già a Firenze, nella prima metà del Cinquecento, Vincenzo Galilei, nel Dialogo della musica antica e moderna, riprende e attualizza quanto affermato dai Greci, sostenendo che la musica deve muovere i sentimenti dell’uditorio, suscitare o placare le passioni umane[tooltip tip=”Si tratta della teoria degli “affetti”, cf. E. Fubini, L’estetica musicale dall’antichità al Settecento, Torino 1964″][10][/tooltip]. Successivamente, anche Monteverdi richiama l’idea platonica secondo la quale la musica è nata per toccare l’anima e, proprio nell’introduzione al Libro VIII di Madrigali del 1638, si spinge alla ricerca di nuove vie espressive, basate sull’analisi delle passioni umane e la corrispondenza della musica a queste ultime.

    Le teorie dei Greci saranno oggetto di una così ampia diffusione al punto che il compositore e teorico tedesco Werckmeister cercherà, nel XVII secolo, di spiegare su basi scientifiche e fisiche il diverso effetto esercitato dai differenti modi.

    L’idea che determinate melodie possano veicolare specifici sentimenti non viene abbandonata nemmeno quando, a un certo punto, intorno forse al XVIII secolo, avviene il passaggio dalla teoria delle strutture modali a quella delle strutture tonali, che comprendono lo studio della musica in senso verticale, basato cioè sulle strutture degli accordi e dei rapporti che tra essi intercorrono. Il passaggio tra modalità e tonalità non possiede dei confini definiti e va piuttosto inteso come un processo che, in modo graduale e tramite varie sperimentazioni, prende sempre più piede, fino a diventare preponderante tra la fine del Seicento e l’inizio dell’Ottocento. Nonostante questo cambiamento, ciò che è certo è che, sebbene la dimensione etica legata all’utilità della collettività sia assente, la corrispondenza che già i Greci avevano individuato tra determinate sonorità, successioni di suoni e stati d’animo, sebbene a partire da presupposti differenti, verrà tenuta in considerazione e riproposta almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento.


    Leggi anche: Uno sguardo sulla musica bizantina: tra notazione e codici manoscritti

    In copertina: Leopold Schmutzler, Giovane donna con la lira, 1940, olio su tela (dettaglio).

  • Le Storie di Isacco e il loro mistero

    Le Storie di Isacco e il loro mistero

    La Basilica di San Francesco ad Assisi è forse uno dei luoghi più potenti in cui entrare: ci troviamo completamente circondati da affreschi dai colori intensi, brillanti, con scene in cui vivono personaggi lontani. La sensazione è di entrare in uno scrigno: ogni elemento è perfetto, quasi un gioiello, in totale contrasto con l’aspetto della facciata, bianca e austera. 

    Questo contrasto rispecchia, in un certo senso, tutto il movimento francescano. Come si sa, la predicazione di Francesco d’Assisi fu particolarmente influente per la cultura medievale italiana, e anche per lo sviluppo successivo della Chiesa: la sua scelta pauperistica e il suo rigore colpirono molti fedeli, e nel tempo si creò uno degli ordini più importanti della Chiesa stessa.

    La Basilica è, visivamente, la somma di queste due anime: un esterno semplice, rigoroso, e un interno invece riccamente decorato, pur senza lussi e sfarzi, e questo diventerà un elemento caratteristico delle fondazioni francescane. La chiesa, infatti, venne iniziata subito dopo la morte di Francesco (che ebbe uno dei più rapidi processi di santificazione di sempre) e venne da subito intesa come un grande tributo alla sua figura e alla sua importanza, anche se questo significava cedere rispetto alla radicale morigeratezza del frate stesso. Inoltre il cantiere si protrasse per più di vent’anni, dal 1228 al 1253, e gli affreschi vennero dipinti ancora diversi decenni dopo, in più fasi, per cui l’effettivo completamento si ebbe solo nei primi del Trecento. 

    Uno degli aspetti più curiosi della chiesa è il suo svilupparsi su due livelli: non si tratta di un’unica basilica, bensì di due, una costruita sopra l’altra. La prima basilica, infatti, fu quella effettivamente edificata dai frati alla morte di Francesco, con gli affreschi di Cimabue, e, successivamente, ne venne aggiunta una seconda. Entrambe le chiese sono, come dicevamo, riccamente affrescate, e l’effetto grandioso e stupefacente è dato proprio da questi affreschi, organizzati in cicli tematici che spaziano dalla vita del santo a quella di Gesù e, per quanto riguarda la Basilica Superiore, alle opere dell’Antico Testamento. 

    L’intento è – come sempre nell’arte medievale – sia estetico sia ideologico: si tratta innanzitutto di un elogio al santo, alla sua vita. Ma anche di un’opera monumentale e universale, in cui si ripercorre tutta la storia umana, legandola alla storia della salvezza divina. 

    Giotto, San Francesco
    Storie di San Francesco, Affresco, Basilica superiore di Assisi

    Le opere più famose e apprezzate sono le Storie di San Francesco, nella basilica superiore, tradizionalmente attribuite a Giotto; meno conosciuti invece sono gli affreschi del ciclo tratto dalla Genesi, anche perché sono quelli meno conservati. Si tratta però di opere di grande fattura, attribuite a maestri della scuola romana, in particolare a Jacopo Torriti. Due di questi, nello specifico, hanno fatto discutere a lungo gli studiosi e gli storici dell’arte, in un dibattito che non si è ancora concluso: la cosiddetta “questione giottesca”. Infatti le due scene sono piuttosto diverse dalle altre, e per via del loro stile e della loro tridimensionalità sono state attribuite a Giotto, anche se non abbiamo alcuna prova né alcun documento a dimostrarlo e, almeno a prima vista, vi è una certa differenza con le opere di sicura attribuzione giottesca. 

    Il dittico, detto anche Storie di Isacco, si trova all’inizio della Basilica Superiore, sulla destra, e riguarda l’episodio biblico di Giacobbe ed Esaù. La storia è piuttosto nota: il patriarca Isacco, ormai sul letto di morte, deve dare la benedizione al primogenito Esaù, che così diverrebbe il suo successore. Ma sua moglie, Rebecca, ordisce un intrigo per far benedire il secondogenito, Giacobbe.

    Così Giacobbe si traveste, si mette del pelo animale per assomigliare a suo fratello (Esaù è un nome parlante e significa infatti “villoso”) e ne recita la parte di fronte all’anziano padre, il quale, cieco e ormai anziano, pur con qualche tentennamento gli concede la benedizione, pensando che si trattasse del fratello giusto. E, quando il vero primogenito si presenta alla porta, lo scaccia a male parole. Solo in un secondo momento Isacco si rende conto dell’errore, ma ormai il danno è fatto: la benedizione è data e non si può più revocare. 

    È interessante osservare, en passant, come l’episodio biblico abbia una certa connessione con la materia fiabesca: anche qui, infatti, la benedizione, come la maledizione, non può essere revocata a piacimento: può al massimo essere alleviata, ma ormai ciò che è detto è detto, la legge è legge. Ed è interessante vedere come l’autore del dittico interpreta questa storia. 

    Isacco benedice Giacobbe
    Isacco benedice Giacobbe, Affresco, Basilica Superiore di Assisi

    Sono due, dicevamo, le scene dipinte dal nostro pittore, e vanno lette da destra verso sinistra: la prima, purtroppo molto rovinata, mostra Isacco, disteso sul letto, che viene ingannato da Giacobbe; e la seconda, dove Isacco respinge Esaù. I due affreschi si somigliano: la scena è circoscritta da un letto a baldacchino, di cui vediamo la struttura e i pesanti panneggi rossi, che fanno da quinte dell’azione, e compaiono quasi gli stessi personaggi. A cambiare è solo Giacobbe nella prima, che viene sostituito da Esaù, nella seconda: la benedizione di uno, la maledizione dell’altro.

    C’è però anche un’altra differenza. Mentre Isacco è sempre uguale, disteso quasi nella stessa posizione, nella prima scena vediamo Rebecca in primo piano, al centro dell’immagine, con uno sguardo fisso e determinato e il viso pulito, quasi giovane, mentre un’ancella, che si vede appena, sorregge il corpo di Isacco. Nella seconda scena, le due si scambiano: l’ancella è al posto di Rebecca, con uno sguardo preoccupato, piuttosto espressivo; Rebecca invece è di spalle, avvolta in un panneggio blu: l’inganno si è compiuto. 

    Particolare è anche la caratterizzazione di Esaù: mentre nella Bibbia è descritto come un uomo rozzo e villoso, qui lo vediamo invece come un giovane nobile, dal volto contrito e incredulo rispetto al gesto dell’anziano padre. 

    Da questa rappresentazione, dunque, appare un’interpretazione della storia piuttosto diversa da come ci viene presentata nella Genesi, in cui si mostra maggiormente il punto di vista di Giacobbe, che poi prenderà il nome di Israele e sarà il terzo grande padre del popolo ebraico: qui vediamo come, invece, il passo biblico venga ribaltato – probabilmente anche per via del pregiudizio antigiudaico che vede gli ebrei come gli uccisori di Cristo, e dunque come popolo infido e ingannatore – in favore di un’interpretazione più vicina a Esaù: quello che era l’intento del passo biblico, e cioè ribaltare il diritto di sangue in cui il primogenito era sempre il favorito, e quindi riscattare Israele, popolo reietto e senza alcuna nobile ascendenza, passa in secondo piano rispetto a un’interpretazione più letterale e più semplice del testo, in cui vediamo un vero e proprio inganno. Che, al di là dei giudizi semplicistici che se ne potrebbero ricavare, è anche un modo di leggere il passo più vicino alla nostra sensibilità contemporanea.

    Inoltre la rappresentazione ha degli indubbi elementi di modernità: i corpi hanno un aggetto e una tridimensionalità quasi prospettica; le figure sono delineate in modo realistico ed espressivo, come fossero personaggi di un’azione teatrale e non come semplici simboli, com’era nella tradizione precedente; i volti (specie Giacobbe e l’ancella) sono molto debitori della ritrattistica tardo-romana, e dunque particolarmente realistici. Si vede un cambio di paradigma: mentre la pittura altomedievale è soprattutto simbolica, e dunque le proporzioni dei personaggi, il loro movimento, la loro posizione nello spazio non sono per forza realistici, qui vediamo invece che ogni elemento è innanzitutto realistico, e poi, in un secondo momento, si carica di un valore simbolico.

    Isacco respinge Esaù
    Isacco respinge Esaù, Affresco, Basilica Superiore di Assisi

    Per questo si è fatto da più parti il nome di Giotto: si tratta dello stesso cambio di paradigma per cui il pittore divenne in poco tempo uno dei nomi più celebri e acclamati della pittura del suo tempo. Inoltre Giotto compare anche in diversi altri cantieri legati alla Basilica: ha probabilmente affiancato Cimabue negli affreschi della Basilica Inferiore, e a lui è attribuito sin dal rinascimento il ciclo delle Storie di San Francesco. Un giovane Giotto sembra essere una spiegazione plausibile, ed erano di questa opinione diversi storici dell’arte ottocenteschi, come Giovanni Battista Cavalcaselle, Robert von Zimmermann e, in epoca successiva, Pietro Toesca. Però, per quanto l’ipotesi appaia suggestiva, non abbiamo documenti né prove certe: si tratta solo di una congettura.

    Apriamo qui una parentesi. La questione giottesca è una diatriba che, a più riprese, ha appassionato storici e studiosi in epoche diversissime, e continua ancora adesso ad appassionare. Perché? In fondo, potrebbe sembrare una questione speciosa: del resto, l’opera in sé è notevole e mirabile a prescindere da chi effettivamente l’ha creata. 

    Eppure le attribuzioni sono sempre questioni che appassionano, intrigano, fanno discutere e litigare. Un po’, forse, per il loro assomigliare a un enigma: come in un romanzo giallo dobbiamo scovare l’assassino, qui c’è da scovare l’autore. Un po’, anche, per un certo feticismo da classificazione, come se si stesse collezionando farfalle. O, ancora, perché il concetto stesso di autore ha un’aura in sé, un fascino rassicurante: se si conosce l’autore, allora abbiamo l’impressione di aver capito l’opera, di poterla inserire all’interno di un quadro completo e coerente. 

    Però, in fondo, non è questo il motivo per cui l’attribuzione è un nodo tanto cruciale nella storia dell’arte. Ogni volta che guardiamo un’opera, che la apprezziamo, che la analizziamo, non stiamo mai guardando l’opera “in sé”: la mettiamo sempre in relazione con altri elementi, con altre opere, con il suo contesto, con le influenze che ha avuto e quelle che eserciterà. In altre parole, nessuna opera è un’isola: ed è proprio questo, la relazione fra le opere, a farci desiderare anche un autore. 

    Non è tanto il gusto effimero della catalogazione, quanto il desiderio di tracciare una mappa, con i suoi snodi, le sue filiazioni, le sue parentele: se un’opera è di Giotto anziché di Cimabue, sarà imparentata con una serie di altre opere, avrà altre relazioni e altri collegamenti.

    Questo è proprio uno di quei casi in cui si vede particolarmente come basti cambiare un nodo della rete perché la rete stessa cambi: se il dittico non è di Giotto, infatti, dobbiamo concludere che il cambio di paradigma di cui abbiamo parlato, e che abbiamo sempre attribuito alla figura di Giotto, in realtà non è frutto esclusivo dell’estro del pittore, ma qualcosa che si respirava già in quell’epoca, un gusto condiviso anche da altri.

    Al contrario, se l’opera è di Giotto, dobbiamo ancor di più rafforzare l’idea di una “rivoluzione giottesca” iniziata proprio da lui. Conoscere questo, quindi, ci permette non solo di conoscere meglio il dittico, ma anche un passaggio determinante dell’arte duecentesca, e, non meno importante, ci permette di riflettere su quanto potere abbiano i singoli di cambiare il corso degli eventi, o la mentalità di un’epoca.

    Storie di Isacco, volto di Giacobbe (dettaglio)
    Storie di Isacco, volto di Giacobbe (dettaglio)

    Peccato, però, che in questo caso vi siano più dubbi che certezze. L’attribuzione a Giotto, infatti, non è soddisfacente non solo perché non si hanno carte e documenti – cosa abbastanza comune – ma perché il pittore sarebbe stato piuttosto giovane per una committenza del genere: se gli affreschi sono databili nei primi anni ‘90 del Duecento, l’artista avrebbe avuto all’incirca vent’anni. Più probabile che a un ventenne fossero affidati compiti di esecuzione, più che la progettazione e il disegno di un’opera.

    Il primo ad avanzare nuove ipotesi fu Bruno Zanardi, che si occupò dei restauri dopo il terribile terremoto del 1997 e attribuì l’opera ai maestri della scuola romana, gli stessi che hanno dipinto la volta e gli affreschi della parte alta della chiesa. In particolare uno dei nomi più papabili potrebbe essere quello di Pietro Cavallini, maestro già ampiamente affermato all’epoca. L’ipotesi è stata accolta favorevolmente da Federico Zeri, noto critico d’arte, anche se gli studiosi sono molto divisi, e la proposta ha suscitato anche forti scetticismi. 

    D’altro canto, però, bisogna aggiungere che nemmeno l’attribuzione alle Storie di San Francesco è certa: ne parla Lorenzo Ghiberti, ma in modo sibillino (dice che Giotto avrebbe dipinto tutta “la parte di sotto” della Basilica, senza che si capisca quale delle due); mentre il primo a darne per certa la paternità è Vasari, che però lo fa solo nella seconda edizione delle Vite (e sappiamo che non sempre la racconta giusta).

    Vasari, dunque, potrebbe aver influenzato tutta la storiografia successiva senza che ci siano delle prove concrete a riguardo, e questo poi avrebbe influenzato anche l’attribuzione delle Storie di Isacco. Anche qui, dunque, si sono fatti i nomi di chi già lavorava o lavorerà alla parte superiore della Chiesa: Cavallini, Jacopo Torriti e in generale la scuola romana. 

    Un’altra ipotesi peculiare, per le Storie di Isacco, è stata avanzata dalla studiosa Angiola Maria Romanini, con il nome di Arnolfo di Cambio. L’idea è la stessa: un nome chiaramente più affermato del giovane Giotto, e che sicuramente ha già diretto alcuni cantieri. Ciò che rende, però, questa ipotesi piuttosto stravagante – e anche abbastanza improbabile – è che noi conosciamo Arnolfo solo come architetto e scultore: queste sarebbero le uniche opere pittoriche giunte fino a noi. 

    Il mistero, dunque, rimane fitto. È certo che tutti i cantieri medievali sono opere collettive, dove si avvicendano più persone e dove il nome del singolo spesso scompare. Eppure non possiamo fare a meno di farci delle domande: com’è possibile che più persone abbiano, casualmente, dato vita a un cambio di paradigma che vedremo operato da Giotto solo diversi anni dopo? E se invece sono stati Pietro Cavallini e la scuola romana, com’è che le loro altre opere non presentano dei tratti così marcatamente “giotteschi”? 

    E se non è stato nessuno di questi, allora chi? Chi potrebbe mai passare inosservato, senza lasciare alcuna traccia di sé, dopo aver dipinto due affreschi così?

     

    L’articolo ti è piaciuto? Leggi anche Giotto: il mito di un’arte più reale della realtà stessa


    Per approfondire:
    A. M. ROMANINI, L’arte medievale in Italia, Sansoni Editore, Firenze, 1988.
    SERENA ROMANO, La O di Giotto, Electa, Milano, 2008.
    C. BERTELLI, G. BRIGANTI, A. GIULIANO, Storia dell’arte italiana- Volume 2, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori – Arte, Milano, 2009 (1990).

  • La tregua olimpica, la guerra e l’ordine del cosmo

    La tregua olimpica, la guerra e l’ordine del cosmo

    I Giochi della XXXIII Olimpiade, ospitati a Parigi nell’anno 2024, probabilmente si ritaglieranno un primato poco invidiabile: essi hanno infatti collezionato un numero spropositato di polemiche, per la maggior parte sterili e infondate, su qualunque aspetto della competizione, quasi sempre esulando dallo sport o cogliendone singoli episodi per imbastire narrative spropositatamente rumorose. In particolare, tra le tante cose citate a sproposito, si è spesso tirato in ballo un carattere peculiare delle Olimpiadi antiche, la cosiddetta tregua olimpica (in greco ἐκεχερία, ekechería): come è noto, in occasione dei Giochi olimpici le póleis sospendevano le ostilità e non combattevano per tutta la durata delle gare, garantendo il passaggio e un alloggio sicuro anche agli atleti provenienti da città in lotta.

    Tali sono il fascino e la speranza di questa istituzione che, a partire dal 1992, all’inizio di ogni Olimpiade il Comitato Olimpico Internazionale con il supporto dell’ONU ha chiesto agli Stati della comunità internazionale di osservare la tregua olimpica – non sempre riuscendo nell’intento. Ma l’appello alla tregua olimpica si basa su una concezione sbagliata – piena di proiezioni e opinioni personali – tanto di cosa fossero i Giochi dell’età antica quanto di cosa sono diventati i giochi dell’età moderna. I primi occupavano un posto ben più significativo nella cultura dell’antica Grecia, all’interno del quale la tregua olimpica assolveva ad uno scopo ben preciso; i secondi si collocano invece in un quadro valoriale totalmente diverso, che richiederebbe ben altro spirito. Qui cercheremo, con i nostri semplici mezzi, di far luce sul significato delle Olimpiadi, nella speranza di dare uno spunto di riflessione valido per l’oggi.

    Pur essendo i più famosi, i giochi olimpici erano ben lungi dall’essere i soli Giochi panellenici: altre celebri gare si tenevano a Nemea, a Delfi e a Corinto, uno per ogni anno in un ciclo di quattro anni che prende appunto il nome di Olimpiade[tooltip tip=”Ancora oggi, nonostante la diffusione inarrestabile e l’uso comune, sarebbe scorretto parlare di “Olimpiadi” in riferimento ad una singola edizione: poiché “Olimpiade” indica il ciclo quadriennale, il termine esatto sarebbe “Giochi olimpici della città ospite” oppure “Giochi della tale Olimpiade” indicata col suo numero. Mentre i giochi di Olimpia e i giochi di Delfi si tenevano una volta ogni quattro anni, i giochi nemei e i giochi istmici si tenevano una volta ogni due, negli anni che intercorrevano tra i giochi olimpici e i giochi pitici.”][1][/tooltip], impiegato per scandire il calendario di tutto il mondo ellenico. Tutti i giochi erano posti sotto l’egida della divinità protettrice della città organizzatrice – Zeus per Olimpia e Nemea, Apollo per Delfi e Poseidone per Corinto – e come tali pervasi di un valore sacro e sacri essi stessi; difatti, i Giochi olimpici dell’età antica avranno fine nel 393 d.C., soppressi dall’imperatore Teodosio in quanto irrimediabilmente connotati di valori pagani. Il primato di Olimpia risiede sia nell’antichità – i primi giochi di cui abbiamo notizia furono disputati nel 776 a.C., anticipando di quasi due secoli le altre póleis – sia nella grandezza e nella rilevanza: i giochi erano dedicati a Zeus Olimpio, padre degli dèi e signore del cosmo, e comprendevano tanto gare sfarzose quanto sacrifici ingenti.

    Per gli antichi Greci, i giochi sportivi non erano un fatto meramente atletico, quanto più propriamente identitario. Il mondo ellenico aveva una concezione quanto mai stratificata dell’identità, che si esprimeva tanto su scala locale quanto su scala “nazionale”, una parola che uso qui con molta cautela. Mentre tutto attorno a loro si costituivano grandi imperi, dove numerosi popoli e lingue diverse convivevano sotto un solo sovrano, i Greci come è noto rimasero sempre devoti alle loro città, orgogliosamente convinti della particolarità di ogni singola pólis e gelosamente attaccati alla propria autonomia ed indipendenza; bastava muoversi di pochi chilometri, quelli che separano Sparta da Argo, Megara da Atene, che subito ci si sentiva arrivati in una terra straniera, abitata da uomini diversi, con proprie leggi ed usanze, con un senso della propria identità cittadina che non ha nulla da invidiare ai campanilismi dei nostri comuni.

    Salto in alto rappresentato su una kylix conservata presso l'Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig.
    Salto in alto rappresentato su una kylix conservata presso l’Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig.

    Al contempo, nonostante un’identità così parcellizzata, dove la prima dimensione del sé era quella della città – e addirittura, all’interno della città, del quartiere o del villaggio – i Greci conservavano un’altrettanto profonda concezione di un’identità più estesa: erano sì primariamente Tespiesi o Focesi, Corinzi o Tebani, ma erano altrettanto e non meno Elleni, una comunità (in greco antico κοινή, koiné) non meno unita di quanto fossero altri popoli. La peculiarità dei Greci era che tale unità aveva basi non politiche – che anzi rigettavano con sdegno – ma esplicitamente culturali: erano Greci tutti coloro che parlavano la lingua greca, in qualunque dei suoi numerosi dialetti, in contrapposizione ai barbari[tooltip tip=”Βάρβαροι, bárbaroi, erano appunto “quelli che balbettano, che dicono bar bar”, ovvero tutti coloro che non sapevano parlare la lingua greca.”][2][/tooltip]; erano Greci tutti coloro che adoravano gli dèi dell’Olimpo, anche se ogni città aveva la sua divinità d’elezione e il culto di un proprio eroe; erano Greci tutti coloro che avevano partecipato alla grande spedizione contro Troia al comando del re Agamennone[tooltip tip=”Per tutta l’epoca antica e buona parte del nostro Medioevo, la veridicità dei poemi omerici non fu messa in discussione: quanto narrato nell’Iliade e nell’Odissea era considerato un fatto storico realmente accaduto, e gli eroi omerici personaggi storicamente esistiti. Dalla verità del ciclo troiano derivano non solo genealogie personali – Alessandro Magno rivendicava di discendere per parte di madre da Achille, mentre Giulio Cesare faceva risalire la sua stirpe a Iulo Ascanio – ma anche miti fondativi di interi popoli e città; addirittura la Britannia prenderebbe il nome da Bruto di Troia, nipote di Enea. Per i Greci dunque, la guerra di Troia era non solo un evento storico, ma l’episodio centrale e il mitomotore della loro identità.”][3][/tooltip]; infine, erano Greci tutti coloro che partecipavano ai giochi panellenici.

    Tutti gli Elleni, tanto della madrepatria quanto delle colonie in Ionia e Magna Grecia, erano invitati a partecipare ai giochi, a Olimpia come a Delfi, a Nemea come a Corinto; al contempo, agli stranieri era vietata la partecipazione, e tale diniego poteva mettere in questione la grecità dell’escluso: capitò più volte ai re di Macedonia di venire respinti perché considerati mezzi barbari, e non a caso quando Filippo II vinse nei giochi del 356 a.C. impose a sua moglie il nome di Olimpiade, per presentarsi come un sovrano pienamente greco e dunque degno di unificare la Grecia. Col declino delle póleis, in epoca romana tali vincoli si allentarono, e Nerone poté concorrere e vincere a tavolino in tutte le gare. Nondimeno, per tutta l’età arcaica e classica e buona parte di quella ellenistica, fino almeno alla conquista romana, i giochi olimpici mantennero tanto il loro prestigio quanto la loro funzione di evento aggregatore del mondo greco, specchio in cui la società greca si autorappresentava; infatti ai giochi erano ammessi, tanto come atleti quanto come spettatori, soltanto uomini liberi e che parlavano greco, mentre rimanevano esclusi coloro che erano forzati ai margini della società: le donne, gli stranieri, gli schiavi, i sacrileghi e gli assassini.

    La tregua olimpica è uno degli aspetti per noi più affascinanti di questa istituzione. Tuttavia, contrariamente a quanto farebbe pensare il nome, non era una caratteristica dei soli giochi di Olimpia, ma era parte integrante di tutti i giochi panellenici[tooltip tip=”Nel 412 a.C., nonostante la guerra tra Atene e Corinto, gli Ateniesi furono invitati a partecipare ai giochi istmici.”][4][/tooltip]. La ragione di questa peculiare tradizione va ricercata nella concezione che i greci tanto dello sport quanto della guerra. I giochi, come abbiamo detto, erano consacrati alle divinità dell’Olimpo (con buona pace di certe polemiche contemporanee); in quanto occasione in cui dar mostra del proprio valore, chi gareggiava compiva non soltanto un gesto fisico, ma un vero atto di esibizione di forza e grazia, segno del benvolere degli dèi e della superiorità morale dell’atleta[tooltip tip=”È alquanto indicativo che le classi dominanti del mondo greco si definissero άριστοι (áristoi, i migliori) e si presentassero come καλοί καί αγαθοί (kalói kái agathói, i belli e i buoni): la bellezza e l’armonia del fisico, come l’abilità ginnica, erano considerate manifestazioni evidenti e concrete del favore degli dèi, che beneficiavano uno spirito altrettanto valevole.”][5][/tooltip]. Le gare erano dunque più di una semplice competizione, ma un’occasione di venerazione per gli dèi, onorati tanto con sacrifici e cerimonie quanto con lo sfoggio di talento, forza e abilità; una ricorrenza sacra nella propria essenza profonda, e come tale da onorarsi rifuggendo dalla guerra.

    Quando Omero descrive lo scudo di Achille[tooltip tip=”Iliade, Libro XVIII, vv. 478-608.”][6][/tooltip], e su di esso illustra un microcosmo, descrive tanto una città in pace – che prospera nell’agricoltura e nel commercio – quanto una città in guerra – con agguati e battaglie, scontri e violenza – perché la guerra non può essere eliminata dalla vita umana. Per i greci la guerra era un’occorrenza relativamente frequente: ogni cittadino prima o poi sarebbe finito a combattere in qualche capacità per la propria pólis, e spesso più di una volta; del pari, le póleis si affrontavano ripetutamente in schermaglie e scaramucce per dare prova di forza, rettificare i confini a proprio favore od influenzare la politica della città rivale. Tuttavia, ciò non degenerava mai in una guerra totale[tooltip tip=”L’unica vera guerra “totale” della storia greca fu la guerra del Peloponneso, che vide due alleanze rivali capeggiate da Atene e Sparta affrontarsi per quasi trent’anni su tutto il bacino del Mediterraneo. Ciò tuttavia fu reso possibile proprio dall’ampiezza dei due blocchi e dalla natura delle due rivali: Sparta aveva un’organizzazione totalitaria, volta a consentire a tutta la propria popolazione di combattere; Atene, potenza mercantile, si riforniva tramite il suo impero marittimo. Nondimeno, anche così la guerra fu intervallata da numerosi periodi di pace.”][7][/tooltip]: gli episodi in cui una città rivale viene distrutta sono pochissimi; le campagne militari duravano pochi mesi all’anno, quando la stagione era favorevole e gli uomini non erano necessari per i raccolti; le battaglie avvenivano su un terreno favorevole, spesso scelto di comune accordo, e lo scontro tra falangi assomigliava per certi versi alla mischia del rugby, un cozzare di masse che spingono tentando di far perdere coesione all’avversario. Tutto ciò attribuiva alla guerra e al modo di fare la guerra una certa ritualità, che si estendeva al calendario.

    Giovani sportivi e i loro allenatori. Kylix del V sec. a. C. conservata al Louvre di Parigi.
    Giovani sportivi e i loro allenatori. Kylix del V sec. a. C. conservata al Louvre di Parigi.

    Per molti popoli dell’antichità, esisteva una divisione molto netta tra giornate consacrate alle divinità – tipicamente occupate da feste religiose, cerimonie e sacrifici – e giornate “libere”. I romani, sempre metodici organizzatori, ripartiranno sistematicamente il proprio calendario tra giorni “fasti” e “nefasti”, vale a dire tra giorni “leciti” e “illeciti”: questo perché nei giorni votati alla divinità, o cooptati da scopi religiosi, non era appunto lecito svolgere attività quotidiane, come lavorare o trattare affari; bisognava invece partecipare alla ritualità, purificarsi o sacrificare, dedicarsi al rapporto con il divino, che nel mondo antico aveva sempre una dimensione pubblica e sociale e non fu praticamente mai una semplice questione di interiorità. Questa logica perdurò anche dopo l’avvento del cristianesimo e per buona parte della sua Storia, e solo con l’Illuminismo e la secolarizzazione il tempo è stato sottratto a Dio e concesso integralmente all’uomo.

    Il punto cruciale sta proprio in questo: per la maggior parte della Storia umana, la guerra è stata considerata un’attività del tutto comune, odiosa sì ma non estranea all’orizzonte umano, del tutto parte dell’ordine delle cose terrene se non addirittura dell’ordine del cosmo. Questa non era peculiarità dei soli Greci, ma piuttosto un atteggiamento diffuso presso tutti i popoli e le società che hanno preceduto l’età contemporanea, per i quali la guerra era una realtà concreta, presente e prossima. Di questa concezione dell’ordine del cosmo rimane traccia in un celebre passo del sapienziale libro biblico del Qohelet:

    Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire; […] un tempo per amare e un tempo per odiare; un tempo per la pace e un tempo per la guerra[tooltip tip=”Qohelet, 3:1,8.”][8][/tooltip].

    In questa visione del mondo, la guerra ha un suo posto, per quanto sgradevole, ma è al contempo inserita in un disegno organico: la guerra nel mondo antico – ma ancora nel Medioevo e per buona parte dell’età moderna – opera a bassa intensità ed è sottoposta ad alcune regole, tanto nel modo in cui la si approccia quanto nella maniera in cui viene condotta. E, tra queste regole, la prima è che non si combatte durante i giorni consacrati e le feste religiose: esattamente come i commerci, anche le guerre si fermano nei giorni che Dio ha reclamato per sé. L’ultimo episodio di questo genere avvenne, come è noto, la notte di Natale del 1914, quando i soldati tedeschi, britannici e francesi sospesero spontaneamente le ostilità per festeggiare insieme, arrivando addirittura a improvvisare una partitella a calcio; inconsapevolmente, quei fanti ripeterono nelle trincee quanto i greci avevano praticato per secoli nelle arene di Olimpia, rinunciando a far scorrere il sangue del nemico in una giornata pervasa dal sacro.

    Quando il barone Pierre de Coubertin ebbe l’idea di riportare in vita le Olimpiadi, viveva in un contesto molto differente da quello greco. Alcuni elementi erano rimasti constanti – l’idea che si affrontassero atleti dilettanti, oppure la scelta di discipline di gara che premiassero lo sforzo, l’allenamento e la precisione – ma altri erano radicalmente mutati, a partire dal carattere internazionale. D’altronde, il barone de Coubertin visse negli anni della Belle Epoque: un periodo sorprendentemente cosmopolita, in cui un gentiluomo poteva girare tutto il mondo (non proprio in ottanta giorni, magari qualcuno di più) con non molta fatica e quasi nessun controllo alla frontiera; ancor più rilevante erano gli ultimi anni del lungo Illuminismo, dominati dall’idea che la scienza e la ragione avrebbero presto condotto l’umanità verso magnifiche sorti e progressive, fiduciosi che diplomazia e buon senso avrebbero evitato ogni guerra nonostante il nazionalismo soffiasse sempre più sulle braci.

    È in questa temperie che visse de Coubertin, ed è questo contesto ad aver informato le prime Olimpiadi moderne, chiamate ad uno scopo tanto nobile quanto sognatore: fornire una valvola di sfogo pacifica ed istituzionalizzata al nazionalismo, facendo sfidare le varie nazioni sul campo d’atletica piuttosto che sul campo di battaglia, impugnando il giavellotto e il disco invece del fucile e della granata. Come le Esposizioni Universali, altro lascito di quell’epoca, i giochi olimpici avrebbero permesso di far incontrare uomini – anche allora le donne erano escluse, ma si conquistarono l’ammissione nel 1920 – di tutto il mondo; le nazioni avrebbero mantenuto il gusto di prevalere sugli odiati rivali in giochi d’abilità senza bisogno di versare sangue; e se ogni atleta era invitato ad arrivare Citius, Altius, Fortius[tooltip tip=”Più veloce, più in alto, più forte, è il motto olimpico ufficiale, coniato da Henri Didon. Proposto da Pierre de Coubertin, fu adottato dal Comitato Olimpico Internazionale fin dalla sua fondazione nel 1894, ma impiegato per la prima volta ai Giochi di Parigi 1924. Dal 2021 si è aggiunta la parola Communiter, “insieme”, per riconoscere i valori di unione e solidarietà dello sport.“][9][/tooltip], a tutti il barone de Coubertin ricordava: «L’importante non è vincere, ma partecipare».

    Il sogno del barone de Coubertin naufragò miseramente nelle trincee della Grande Guerra, al pari della fiducia nel progresso e nell’idea di un mondo governato da leggi razionali. Quel mondo che aveva danzato sull’orlo del precipizio fu consumato per la prima volta dalla guerra totale, un conflitto i cui orrori si impressero a fuoco sulla pelle e negli occhi di un’intera generazione. Ci si augurò che quella fosse la Guerra per porre fine a tutte le Guerre, e non si riuscì a far niente di più che seminarne una ancora più cruenta e gravosa. È questa la guerra che domina nel nostro immaginario, anche se la maggior parte di noi non l’ha mai vista, o forse proprio perché non l’abbiamo vissuta; è una guerra enormemente insopportabile, tanto più orribile quanto più si è diradata dall’orizzonte della nostra quotidianità.

    Pierre De Coubertin e il comitato olimpico delle olimpiadi del 1914 dietro i cerchi olimpici. Pierre de Coubertin, Mémoires Olympique, Bureau International de Pédagogie Sportive, Lausanne, 1932.
    Pierre De Coubertin e il comitato olimpico delle olimpiadi del 1914 dietro i cerchi olimpici. Pierre de Coubertin, Mémoires Olympique, Bureau International de Pédagogie Sportive, Lausanne, 1932.

    Nel secolo scorso, la guerra è stata espulsa dall’ordine del cosmo, tramutata in un’aberrazione crudele e mostruosa, inconcepibile ed impresentabile; ben lontana dalla guerra che intendevano i greci, la guerra della contemporaneità è estranea alla giustizia, e dunque priva di ogni ritualità e di ogni regola; è un male assoluto da evitare a tutti i costi, ma poi non si compie nessuna azione per impedirla al momento opportuno; in questa guerra si combatte non un avversario nostro pari, ma un nemico mortale da annientare e non da sconfiggere. In quest’orizzonte, la tregua olimpica non ha più spazio né senso: non solo non esistono più «giorni del sacro», come li definì Franco Cardini, ma la guerra stessa si presenta come una tale violazione dell’ordine del mondo da infrangere ogni regola, anche quella di non combattere durante i giochi olimpici. Adattando von Clausewitz, lo sport da tempo è divenuto una prosecuzione della guerra con altri mezzi[tooltip tip=”La frase originale recitava «la guerra è una prosecuzione della politica con altri mezzi»; lo sport internazionale ne è divenuto un’estensione.”][10][/tooltip], ma perdendo la capacità di intercettare la spinta competitiva delle nazioni e incanalarla verso uno sfogo pacifico.

    Delle Olimpiadi dell’età moderna non ricordiamo, se non pochi, gesti atletici: Dorando Pietri che crolla poco prima della linea del traguardo alla maratona di Londra 1908 e viene sorretto dai giudici di gara; i quattro ori (100, 200 metri piani, 80 metri a ostacoli e 4×100) di Fanny Elsje Blankers-Koen, trentenne e madre di due figli, a Londra 1948; Abebe Bikila che vince la maratona di Roma 1960 correndo a piedi nudi; Dick Fosbury che inventa una tecnica di salto rovesciata – che da lui prenderà il nome – a Città del Messico 1968. Purtroppo, questi ed altri sono oscurati nelle memoria comune da episodi molto più tetri e tragici, in cui la politica e l’ostilità hanno prevalso sul desiderio di armonia: basti ricordare i giochi di Monaco 1972 – quando un commando terrorista di Settembre Nero sequestrò e uccise undici atleti israeliani – i boicottaggi incrociati di Mosca 1980 e Los Angeles 1984, il doping di stato delle nuotatrici della Germania Est. Tutti momenti in cui c’è stato ben poco di sport e ancor meno di sportivo, episodi in cui l’atletica è stata piegata agli interessi e alle ambizioni del potere politico.

    Due episodi di questa triste rassegna meritano maggior spazio: i giochi di Berlino 1936 e quelli già menzionati di Città del Messico 1968. Quest’ultimo è l’unico a risultare edificante, perché è uno dei pochissimi in cui la politica ha tracimato sullo sport non per volontà di un governo ma per valore di testimonianza: sul podio dei 200 metri piani, gli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos alzarono il pugno chiuso nel saluto del Black Power, per manifestare la loro vicinanza al movimento per i diritti civili, con il sostegno e la complicità a lungo taciuti dell’australiano Peter Norman. Del tutto diverso è quanto avvenne a Berlino, giacché la vicenda di Jesse Owens è uno degli episodi più mistificati e strumentalizzati della storia olimpica, pressoché sovrascritto dalla propaganda; il racconto che vuole l’atleta afroamericano designato per vincere sotto gli occhi del Führer è del tutto posticcio e pretestuoso[tooltip tip=”Contrariamente a quanto si racconta, l’opinione pubblica americana fu molto restia a partecipare ai giochi di Berlino, per non dare riconoscimento a giochi effettivamente organizzati con l’intento di mostrare la grandezza del regime nazista e il trionfo della razza ariana. Tuttavia – a differenza di quanto accadde alla Coppa Davis del 1976, dove l’Italia scelse di non boicottare il torneo per non lasciare la vittoria a tavolino alla giunta militare cilena – gli Stati Uniti parteciparono ai giochi proprio perché i vertici del comitato olimpico statunitense erano simpatizzanti filonazisti (come una non piccola parte della società dell’epoca).”][11][/tooltip]: contrariamente alla narrazione più diffusa, Hitler non mostrò particolare sdegno o frustrazione per la vittoria di Jesse Owens, ed anzi lo salutò dopo la premiazione e si congratulò per il risultato; per contro, Owens si sentì molto più ferito allorché al suo ritorno il presidente Roosevelt non ricevette alla Casa Bianca né lui né gli altri atleti afroamericani; il 1936 era un anno elettorale, e celebrare ufficialmente un atleta nero avrebbe potuto costare i voti degli Stati segregazionisti del Sud.

    Come speriamo di aver dato conto con questa carrellata – breve e necessariamente incompleta – di episodi, le Olimpiadi dell’età moderna sono state ridotte loro malgrado a nuova vetrina di esibizionismi muscolari, un palcoscenico di lotta tra le potenze in cui gli sport sono mero pretesto e costume. Riproporre al giorno d’oggi la tregua olimpica sarebbe uno slancio di idealismo, venato di ingenuità; a meno che l’intera comunità internazionale non ripensi radicalmente e sinceramente il modo di fare la guerra e di condurre la politica internazionale, sarebbe una costruzione priva di fondamenta. Nel mondo antico, i giochi olimpici fermavano la guerra perché in essi si vedeva una manifestazione del sacro, e al sacro si riconosceva un valore presente ed imperativo. Ma da tempo la nostra società vive in un mondo che al sacro ha completamente rinunciato e ne ha espunto tanto i valori quanto i moniti, e nell’orizzonte materialista del puro guadagno non c’è spazio per una proibizione fondata su un principio. La torcia dei giochi arde sempre a Olimpia, ma alimenta fiamme ben diverse.

     


    In copertina: Pugile in riposo (dettaglio), scultura bronzea di età ellenistica, attribuita a Lisippo (390-300 a.C.), Roma, Museo Nazionale Romano.

  • Compiuta Donzella, Veronica Gambara e altri nomi dimenticati

    Compiuta Donzella, Veronica Gambara e altri nomi dimenticati

    L’emancipazione femminile è un tema che mi è sempre stato a cuore fin da giovanissima ma è solo in età adulta che ho preso davvero consapevolezza, di quanto la letteratura con la quale mi ero formata, fosse scritta per lo più da autori di sesso maschile. Di fatto mi sono confrontata per moltissimi anni solo con anime che avevano con me tante cose in comune, ma una fisicità diversa e quindi un’educazione e un punto di vista diversi, nei quali mi vedevo perdente e inadeguata.

    Per questo da alcuni anni ho concentrato le mie ricerche sulla poesia e la prosa scritta dalle donne di tutti i tempi e, sfruttando la magica rete internet, ho scoperto l’esistenza di autrici italiane, ignorate nei libri di scuola, nei documentari, relegate all’oblio, che solo grazie a studiose attente, oggi stanno tornando a far cantare i loro versi.

    Nonostante si parli di emancipazione, di parità di genere e di pari opportunità, i programmi e i libri di letteratura relegano uno spazio marginale a poeti e scrittici donne. Tutte noi ci siamo formate nello studio con i pensieri, i versi, le descrizioni degli uomini, nelle cui pagine siamo state amate, odiate, compatite, oltraggiate, sognate; ma non eravamo mai noi, la nostra fantasia, i nostri sogni, il nostro eros. Per esempio conosciamo Petrarca, Dante e il Dolce Stil Novo e da loro riceviamo l’immagine di una donna non reale ma vagheggiata, una figura avvolta nella nebbia del sogno.

    Coeva di costoro era Compiuta Donzella.

    Vissuta a Firenze nella seconda metà del 1260 e morta probabilmente agli inizi del 1300, Compiuta Donzella è la prima voce femminile a scrivere poesie in volgare italiano e non vagheggia sul tema dell’amore con la lacrima e il fiore, come capita ai suoi colleghi. Perché per lei, come per la maggioranza delle donne, dietro al concetto dell’amore ci si nascondono catene e frustrazioni profonde, maternità precoci dall’esito incerto, obblighi di famiglia cui sottostare, che hanno subìto e ancora subiscono le donne.

    A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora
    acresce gioia a tutti fin’ amanti,
    [e] vanno insieme a li giardini alora
    che gli auscelletti fanno dolzi canti;

    la franca gente tutta s’inamora,
    e di servir ciascun tragges’ inanti,
    ed ogni damigella in gioia dimora;
    e me, n’abondan marrimenti e pianti.

    Ca lo mio padre m’ ha messa ‘n errore,
    e tenemi sovente in forte doglia:
    donar mi vole a mia forza segnore,

    ed io di ciò non ho disìo né voglia,
    e ‘n gran tormento vivo a tutte l’ore;
    però non mi ralegra fior né foglia[tooltip tip=”Compiuta Donzella, A la stagion che ‘l mondo, in Gianfranco Contini, La letteratura italiana delle origini, 1976, Sansoni. “][1][/tooltip].

    Christine de Pisan presenta il suo libro alla regina Isabella di Baviera. Miniatura dal Libro delle Regine, British Library, ms Harley 4431.
    Christine de Pizan presenta il suo libro alla regina Isabella di Baviera. Miniatura dal Libro delle Regine, British Library, ms Harley 4431.

    Qui non è il poeta che immagina i pensieri di una ragazza, il cui padre obbliga a sposare un uomo che lei non ama. Qui è la ragazza che ci racconta il suo tormento, per questo matrimonio combinato dalla famiglia e invidia chi può innamorarsi e vivere con gioia l’amore. La nostra autrice sicuramente appartiene a una famiglia facoltosa, visto che ha potuto studiare e scrivere, ma proprio per questo non ha la facoltà di scegliersi il compagno di vita, seguendo il suo cuore.

    Questa storia dei matrimoni combinati è ancora attuale in Pakistan, in India e in chissà quanti altri paesi del pianeta. Conosciamo tutti la terribile fine di Saman, la ragazza pakistana che si è opposta al matrimonio imposto dalla famiglia ed è stata barbaramente uccisa dai cugini, con la complicità del padre e della madre: vedete come passato e presente nella letteratura si fondono, allo scopo di indicarci la strada per migliorare la condizione delle società umane.

    Camminando sulle ali del tempo, ho scoperto un’altra donna interessantissima, la cui poesia è attualissima. Sto parlando di Christine de Pizan.

    Nasce a Venezia nel 1365 Cristina da Pizzano, figlia di Tommaso di Benvenuto, detto da Pizzano perché appunto la sua famiglia possedeva delle terre in quella zona. La conosciamo come Christine de Pizan, perché già da piccola si trasferì col padre a Parigi. Oggi viene riconosciuta come la prima scrittrice di professione in Europa e la prima storica laica di Francia, quattro secoli prima di Madame de Staël.

    Christine ha una vita davvero interessante, vista l’epoca possiamo immaginare quale fosse l’educazione impartita alle bambine di buona famiglia, che dovevano essere dedite solo ai lavori domestici. Fortunatamente per la nostra autrice il padre Tommaso, docente di medicina e astronomia all’Università di Bologna e poi consigliere di Carlo V, opponendosi alla moglie, consentì a Christine di studiare e di sposare un giovane notaio, con il quale ebbe tre figli. Due disgrazie a distanza di pochi mesi l’una dall’altra stravolgeranno la tranquilla esistenza di De Pizan.

    L’amatissimo padre e l’altrettanto amato e stimato marito vengono a mancare e Christine si ritrova da sola a dover provvedere ai suoi tre figli, a «diventare uomo» come scriverà nella sua autobiografia. Facendo tesoro della sua cultura e delle sue doti letterarie, divenne la prima donna francese scrittrice a vivere del proprio lavoro intellettuale. È stimata e conosciuta, i suoi libri sono molto letti nelle più importanti corti d’Europa. Partecipa al clima culturale vivace, arrivando ad affermare che gli uomini e le donne sono «pari per natura» in quanto a capacità intellettuali, suscitando scalpore per l’audacia del suo pensiero.

    Christine de Pizan", miniatura tratta dal manoscritto "Libro della Città delle Dame", ms. 609, c. 2v, 1401-1500, Bibliothèque nationale de France, Parigi.
    Miniatura tratta dal Libro della Città delle Dame raffigurante Christine de Pizan, ms. 609, c. 2v, 1401-1500, Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia.

    Christine De Pizan fin da quei tempi ha ben chiara l’importanza dell’educazione e del ruolo sociale, che la società impone alle donne, considerandole inferiori e prive di forza morale, intellettuale e fisica. Questa donna si ribella e lo fa utilizzando la cultura, la penna ardita e fluente, forte della stima acquisita, non teme censure. Scrive per questo un libro importante: La città delle dame (Livre de la Citédesdames) un pamphlet femminista che consegna direttamente alla regina Isabella.

    «Sembrano tutti parlare con la stessa bocca, tutti d’accordo nella medesima conclusione, che il comportamento delle donne è incline ad ogni tipo di vizio».

    La città delle dame è un libro nel quale la nostra autrice rovescia tutti i luoghi comuni sull’incapacità delle donne di fare politica, di fare la guerra, di scrivere leggi e al tempo stesso essere madri. Bisogna che le giovani si formino, conoscendo cosa può davvero essere una donna.

    La nostra Christine dedica La città delle dame a Giovanna D’Arco, di cui scrive:

    «Che onore per il sesso femminile quando questo nostro regno interamente devastato, fu risollevato e salvato da una donna, cosa che cinquemila uomini non hanno fatto…».

    Che fierezza in queste parole, galvanizzano la lettrice e sembrano scritte negli anni Settanta del Novecento, invece parliamo di un’epoca lontanissima.

    Salutiamo la superba Christine de Pizan con questa poesia un po’ lunga che non ho voluto spezzare. Ricca di anafore incalzanti, neanche fosse un testo scritto da una rapper, le parole lacerate senza tempo ci abbracciano tutte come sorelle. Sorelle delle iraniane, delle afgane, sorelle di milioni di donne vittime di ogni tipo di abuso. Sorelle persino delle vittime di un sistema che le vuole belle, perché le ha rese merce al pari di un oggetto e sfrutta l’insicurezza e il vuoto interiore. Sorelle di quella Giovanna D’Arco che ha sfidato il patriarcato, dimostrando forza e coraggio, di Antigone e di tante altre di cui è piena la storia.

    Christine de Pizan in una miniatura medievale (da Andrea Hopkins, Six Medieval Women, Barnes & Noble Books, 1999, p. 108)
    Christine de Pizan in una miniatura medievale (da Andrea Hopkins, Six Medieval Women, Barnes & Noble Books, 1999, p. 108)

    Sono sola, e sola voglio rimanere.
    Sono sola, il mio dolce amico mi ha lasciata,
    sono sola, senza compagno né maestro,
    sono sola, dolente e triste,
    sono sola, a languire sofferente,
    sono sola, smarrita come nessuna,
    sono sola, rimasta senz’amico.

    Sono sola, alla porta o alla finestra,
    sono sola, nascosta in un angolo,
    sono sola, mi nutro di lacrime,
    sono sola, dolente o quieta,
    sono sola, non c’è nulla di più triste,
    sono sola, chiusa nella mia stanza,
    sono sola, rimasta senz’amico.

    Sono sola, dovunque e ovunque io sia;
    sono sola, che io vada o che rimanga,
    sono sola, più d’ogni altra creatura della terra,
    sono sola, abbandonata da tutti,
    sono sola, duramente umiliata,
    sono sola, sovente tutta in lacrime,
    sono sola, senza più amico.

    Principi, iniziata è ora la mia pena:
    sono sola, minacciata dal dolore,
    sono sola, più nera del nero,
    sono sola, senza più amico, abbandonata.

    Leggendo i versi di Compiuta e di Christine una giovane allieva sicuramente potrebbe trovarne conforto, in quanto le loro parole seppure estreme, rappresentano la condizione femminile. Christine de Pizan è una figura di letterata molto positiva, perché è un esempio di tenacia, di autostima e di coraggio. Nelle avversità non si è piegata a matrimoni umilianti, ma ha saputo rialzarsi e diventare un faro illuminante per le generazioni a venire. Se a queste fosse permesso di conoscere, studiando storia della letteratura, la poesia e la prosa femminile e non solo i soliti noti e arcinoti.

    Andando avanti nel tempo, dopo Christin de Pizan troviamo tante voci femminili italiane, che ignoravo; tra queste voglio parlarvi di Veronica Gàmbara, un’altra donna dalla storia interessante come la sua poesia.

    Nata nel 1485 a Pralboino da una delle famiglie più importanti del tempo, i Gàmbara, Veronica ha una corporatura piuttosto pingue, ma dimostra un’intelligenza vivace e una predisposizione per le lettere. Si sposa nel 1508 con Gilberto X da Correggio, dopo aver ottenuto la dispensa papale, in quanto Veronica era parente di Gilberto, per parte di madre. Fu un’unione serena, impostata sulla stima e l’affetto reciproco. Frequentava il loro palazzo il famoso pittore Allegri Antonio, conosciuto come Correggio, che ritrasse il resto della famiglia ma non la nostra poeta.

    Veronica Gambara predilige le discussioni letterarie e politiche ed è molto attenta alla gestione dell’amministrazione familiare e del feudo, insieme al marito, che però morì ancora giovane nel 1518; durante tutta la lunga vedovanza scriverà versi dolcissimi parlando del marito.

    Quel nodo. in cui la mia beata sorte
    per ordine del ciel legommi e strinse,
    con grave mio dolor sciolse e discinse
    quella crudel che ’l mondo chiama morte.
    (…) [tooltip tip=”Veronica Gambara, Sonetto XVII, vv. 1-4, in Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara, Rime di tre gentildonne del secolo XVI, Liber Liber, 2009, p.311 “][2][/tooltip]

    Antonio da Correggio, Ritratto di dama, 1517-1518, Olio su tela, San Pietroburgo, Hermitage. Non c'è accordo fra gli studiosi circa l'identità della dama, alcuni ritengono che fosse Veronica Gambara.
    Antonio da Correggio, Ritratto di dama, 1517-1518, Olio su tela, San Pietroburgo, Hermitage (dettaglio). Anche se non vi è accordo fra gli studiosi, è probabile che la donna ritratta fosse Veronica Gambara.

    A soli 32 anni Gàmbara si ritrova da sola ad amministrare Correggio e a crescere i suoi figli, che divennero uno militare di alto rango e l’altro prelato. Seppe da subito “diventare uomo“ come diceva De Pizan, districandosi nella gestione politica del contado, dimostrando fermezza, equilibrio e capacità. Inoltre, essendo molto colta, vide nella politica estera una risorsa fondamentale per lo sviluppo economico e sociale delle sue terre.

    Dagli anni 1519 fino al 1532 intraprese rapporti con i più grandi regnanti del tempo come Francesco I e Carlo V e i vari papi che si sono avvicendati, dai quali era stimata sia come poeta che come politico; scrive nel 1526 un bellissimo sonetto per il trattato di Madrid, nel quale elogia la nuova pace, dopo le drammatiche guerre che avevano insanguinato la nostra piccola penisola. È l’epoca delle invasioni dei Lanzichenecchi e delle grandi pestilenze, di cui abbiamo vivido ricordo nelle pagine dei Promessi Sposi di Manzoni.

    Vincere i cor più saggi e i re più alteri,
    legar con l’arme o scioglier con la pace,
    dargli e tor libertà quando a voi piace,
    esser dolce agli umili e acerbo ai fieri,
    (…)[tooltip tip=”Veronica Gambara, Sonetto VIII, vv. 1-4, in Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara, Rime di tre gentildonne del secolo XVI, Liber Liber, 2009, p.307″][3][/tooltip]

    Veronica Gàmbara in una situazione tanto delicata e complessa seppe muoversi con oculata attenzione, dimostrandosi lungimirante anche nello stringere accordi diplomatici con Carlo V, e questo ha consentito a Correggio di rimanere fuori dalle guerre e indipendente dalle grandi potenze straniere. Muore nel 1550 molto amata e stimata.

    Ora, sinceramente, mi chiedo se a scuola di questa statista, poeta e intellettuale di pregio italiana si parli mai. Eppure quel periodo storico è trattato con attenzione e da tutti i punti di vista, perché ha visto entrare l’Europa nell’età moderna, con tutte le contraddizioni che subiscono le società nel viverle.

    Le autrici che ho conosciuto sono davvero tante e pian pianino le conosceremo meglio insieme, adesso per chiudere questa passeggiata nel tempo della poesia femminile italiana, voglio parlarvi di Vittoria Colonna, che fra l’altro fu amica di Veronica Gàmbara.

    Sebastiano del Piombo, Ritratto della marchesa Vittoria Colonna, olio su tavola, 1520-25, Barcellona, Museo nazionale della Catalogna.
    Sebastiano del Piombo, Ritratto della marchesa Vittoria Colonna, olio su tavola, 1520-25, Barcellona, Museo nazionale della Catalogna (dettaglio).

    Nata nel 1492 a Marino, località dei Castelli Romani a due passi da Roma, Vittoria subisce al pari di moltissime donne di quegli anni e non solo, la violenza di essere data in sposa, per un matrimonio combinato dal Re di Napoli, a Francesco Ferrante D’Avalos. Paradossalmente la nostra Vittoria s’innamorò di Francesco e soffrì molto per la sua morte, senza che la coppia abbia avuto figli.

    Vittoria non ha la tempra di Veronica, e soprattutto non ha alle spalle figure maschili che la sappiano sostenere nella crescita. È già afflitta da crisi spirituali e dopo la morte del marito vorrebbe entrare in convento, ma Papa Clemente, proprio perché vede nella sua spiritualità qualcosa di fuori dal comune, si intromise e la dissuase dal prendere i voti.

    Vittoria Colonna è un’intellettuale molto arguta e sensibile, ha rapporti epistolari sia con i predicatori più conosciuti che con gli intellettuali del suo tempo. Ha però un’esistenza travagliata da continue crisi spirituali e morali. La sua poesia è pregna di queste sue riflessioni, dalle quali emerge la solitudine amara e dolorosa, l’angoscia di vivere, che attraverso l’inchiostro esce e arriva fino a noi. Vittoria Colonna muore nel convento di Sant’Anna nel 1547.

    A quale strazio la mia vita adduce
    Amor, che oscuro il chiaro sol mi rende,
    e nel mio petto al suo apparire accende
    maggior disio della mia vaga luce!

    Tutto il bel che natura a noi produce,
    che tanto aggrada a chi men vede e intende,
    più di pace mi toglie, e sì m’offende,
    ch’ a più caldi sospir mi riconduce.

    Se verde prato e se fior vari miro,
    priva d’ogni speranza trema l’alma
    ché rinverde Il pensier del suo bel frutto

    che morte svelse. A lui la grave salma
    tolse un dolce e brevissimo sospiro,
    e a me lasciò l’amaro eterno lutto[tooltip tip=”Vittoria Colonna, Sonetto X, vv. 1-4, in Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara, Rime di tre gentildonne del secolo XVI, Liber Liber, 2009, p.307″][4][/tooltip].

    Chiudo questo mio pezzo con una considerazione amara: quest’anno per l’ennesima volta agli esami di Stato è uscita una traccia di letteratura che aveva per protagonisti Ungaretti e Pirandello, segno che la scuola non esce fuori dalla cultura declinata al maschile. Questo è un danno soprattutto per la formazione intellettuale delle donne, che spesso quando arrivano a ricoprire ruoli di comando, non essendo cresciute nelle esperienze femminili del passato: letterarie e politiche, finiscono per favorire solo il proliferare di un pensiero patriarcale, dove a perdere sono le donne, come sempre.

     

    Leggi tutti gli articoli del percorso Una femmina può fare la scrittrice


    Per chi volesse approfondire:

    Greta Marando, Compiuta Donzella, su Enciclopedia delle Donne

    Alessia Pizzi, Compiuta Donzella, la prima voce italiana, su Poetessedonne.it

    Francesca Santucci, Donna non sol ma torna musa all’arte, Casa Editrice Il Foglio,
     2003, estratto su Letteratura al femminile

    Veronica Gambara, su Letteratura al femminile

    Annalisa Palumbo, Christine de Pizan, la scrittrice che scosse il Medioevo, su Storica National Geographic.

    Eva Luna Mascolino, Christine de Pizan, femminista e prima scrittrice di professione in Europa, su Harper’s Bazaar

    Sara Catanese, Veronica Gambara: la signora di Correggio, su Archeoares

    Veronica Gambara, Gaspara Stampa, Vittoria Colonna, Rime di tre gentildonne del secolo XVI, disponibile su Liber Liber

    Sara Mostaccio, Poetesse italiane dimenticate. Veronica Gambara, la “poetessa reggente” del 500 che fu a capo di una Signoria, su Elle

    Maria Teresa Guerra Medici, Vittoria Colonna – marchesa di Pescara, Su Enciclopedia delle donne

    Lorenzo Villa, Il racconto su Vittoria Colonna, la poetessa del Rinascimento, su Harper’s Bazaar

    Daniela Ambrosio, Le grandi mecenati dell’arte. Chi era Vittoria Colonna, la romantica poetessa amata dagli artisti, su Elle

    In copertina: Jules-Joseph Lefebvre, Graziella, olio su tela, 1878, Catharine Lorillard Wolfe Collection (dettaglio). 

  • Tra Kallifatides e Baricco: raccontare l’Iliade

    Tra Kallifatides e Baricco: raccontare l’Iliade

    C’è qualcosa di perfetto che mi ha sempre attratto nell’Iliade; qualcosa che non si può spiegare razionalmente. O, per lo meno, non solamente. In qualunque momento della vita puoi prendere in mano l’Iliade, aprirne le sue pagine con delicatezza, quasi fossero dei petali di un fiore profumatissimo, e quello che troverai sarà sempre lo stesso: i Troiani, dentro le belle mura della loro città, difendendosi dall’assedio degli Achei.

    La storia è cristallizzata in un eterno divenire: Agamennone toglierà sempre Briseide ad Achille, questi sarà vincolato ad un’ira eterna; il corpo senza vita di Ettore verrà per sempre trascinato tre volte attorno alle mura di Troia. In quest’eterno ritorno c’è del magico: l’Iliade inizia in medias res e prosegue senza finire realmente. Anzi, proprio nel suo culmine, ri-inizia.

    Il proposito di quest’articolo è parlare di L’assedio di Troia (Solferino, 2020) di Theodor Kallifatides, ma farlo mantenendomi vicino solamente al testo di Kallifatides, credo sarebbe un grave errore. Sì, perché quest’ultima opera del grande scrittore greco è un tassello importante di un quadro ben più grande del singolo romanzo: il raccontare l’Iliade. Per questa ragione è così importante capire prima la potenza del poema omerico, e poi addentrarsi dentro all’opera di Kallifatides. Leggere L’assedio di Troia come un romanzo di guerra è fondamentalmente sbagliato.

    L’assedio di Troia utilizza senza dubbio il contesto bellico della seconda guerra mondiale come palcoscenico in cui una maestra greca racconta le vicende di Achille, Patroclo, Aiace, etc… ai suoi alunni riuscendo a mitigare, seppur brevemente, gli orrori della guerra con il dolce nettare della narrazione. Però, questo mero palcoscenico fa parte di un teatro intero ed interno, ben più grande, ben più semantico. In questa netta bipartizione tra guerra reale e guerra mitica, Kallifatides gioca a mescolare i piani del racconto, facendo a volte sembrare Achille un soldato di una guerra tangibile o un giovane aviatore tedesco del paesino dei protagonisti, un eroe venuto con la sua nave nera da un’isola lontana e quasi dimenticata.

    Il romanzo, così strutturato, fonda la propria architettura interna su questi due pilastri che sembrano sostenersi a vicenda. Sembrano.

    Se, infatti, uno si prendesse la briga di leggere singolarmente e in maniera continuativa i distinti filoni narrativi, la sensazione che ne trarrebbe sarebbe di leggera disparità. Se per quanto riguarda le vicende reali dei protagonisti, i loro affetti, le perdite, i danni e le delusioni, abbiamo scorci purissimi di alta letteratura e fortissima empatia, leggendo soltanto la narrazione dell’Iliade, e tralasciando tutto il resto, rimaniamo con un’eccitata insoddisfazione.

    Fondamentalmente il problema non è di Kallifatides. Anzi, forse il problema è tutto mio. Il fatto è che l’Iliade è un mondo totalmente autosufficiente, eterno e dotato di regole proprie. Ne facevo menzione poco fa: questo circolo perfetto che parte quando tutto è già nel suo apice, fa un giro immenso e poi si ricongiunge in un’azione imperitura, si dota di certe caratteristiche che chi decide di raccontare non può ignorare.

    In quest’ottica, oltre a L’assedio di Troia, devo fare menzione ad un libro del 2004: Omero, Iliade di Alessandro Baricco. Credo che, per quanto sia impossibile raccontare qualcosa che è già stato raccontato divinamente, Baricco riesce ugualmente ad avvicinarsi al nucleo fondante della bellezza dell’Iliade.

    Omero, Iliade nasce come proposta di lettura pubblica dell’Iliade dentro dei teatri. Considerando che il testo omerico è abbastanza largo, sarebbero state necessarie molte ore, e un pubblico forse troppo paziente. Così, Baricco decide di intervenire sul testo costruendo una nuova foresta: le radici sono quelle di Omero, ma i frutti, dolcissimi, sono suoi. Quasi mai vengono tagliate intere scene, il ritmo di Omero persiste, gli interventi divini vengono eliminati. Quest’ultimo tassello è molto importante in luce al discorso più amplio che sto affrontando sul poter raccontare l’Iliade, e a breve ci ritorneremo.

    Altra caratteristica fondamentale è il giro di vite che Baricco dà all’Iliade: la narrazione viene girata in soggettiva. In questo modo, una selezione di personaggi della stessa opera omerica prendono voce e raccontano in prima persona la propria vicenda o i destini a cui assistono degli altri personaggi. Questo espediente letterario è senza dubbio utile al lato più pratico dell’impresa di Baricco, in quanto per il pubblico sarebbe stato decisamente più facile immedesimarsi nella vicenda ricevendola direttamente da chi, quella storia, l’ha vissuta.

    Sinceramente, il tocco distintivo di Omero, Iliade si racchiude dentro a questo scrigno, e forse non è nemmeno esagerato affermare che la sua importanza non deriva da un semplice “gioco letterario”, o dal mero cambio di prospettiva scenica.

    Il fatto che siano i personaggi della stessa Iliade a prendere voce ed esprimersi, certamente ci aiuta a scolpire a fondo la dura intelaiatura omerica e raggiungere quel epicentro umano che alla fine compone il poema; certamente dona anche un altro ritmo, un altro accento alla narrazione, infondendo una sorta di modernità che aiuta la comprensione dell’Iliade: ma l’incredibile splendore dei caratteri umani esiste già nella stessa Iliade di Omero. È tutto lì, scalfito nella roccia. Eretto come un monumento all’immortalità degli uomini.

    Molti studiosi hanno affermato che l’Iliade è un poema bellico che in realtà nega la stessa guerra, ed esalta invece la vita, e mi ritrovo particolarmente d’accordo con questa lettura dell’opera. E la lettura che ne fa Baricco segue esattamente questa linea. La bellezza del poema risiede infatti nelle esitazioni di Ettore prima di lanciarsi nella battaglia, accarezzando malinconicamente una volta ancora suo figlio, nell’esaltazione rabbiosa di Patroclo mentre veste l’armatura del suo Achille, nei sospiri amari di Elena. Tutto quello che creano i personaggi dell’Iliade sprigiona vitalità: sono estratti di pura vita. La guerra è solamente uno sfondo lontano in cui dimostrare di essere vivi. Di esserlo ancora.

    In Omero, Iliade è importantissima, inoltre, la dimensione umana della vita degli eroi omerici: parliamo di un qualcosa di prevalentemente brillante, privo di punti d’ombra e in grado di assorbire l’esistenza stessa; i movimenti di ciascuno di loro sono autosufficienti e proiettano l’azione in un limbo concreto di eternità. In sostanza, gli eroi dell’Iliade sono come costellazioni che seguono il loro corso incessante, esaurendo in sé la propria ragione d’essere, in virtùm, chissà, di un disegno più grande di loro.

    In effetti, l’intervento delle divinità è una caratteristica principale del poema. Gli dei si interpongono alle azioni dei combattenti, spesso spingendo il favore della battaglia da un bando all’altro, o addirittura decidendo le sorti di ciascuno di loro. Quando un guerriero muore, è immediatamente chiaro tra i restanti che sia stata una decisione di un qualche dio. Dentro a questo contesto pensato da Omero, pressoché chiuso e senza grandi possibilità d’intervento, tanto Kallifatides come Baricco hanno deciso di limitare, se non addirittura eliminare, gli interventi divini dell’Iliade.

    Cosa rimane dunque di quest’impalcatura omerica, tolte le sovrastrutture divine? Senza quest’ingombrante incombenza, resta senza dubbio la matrice più interessante e moderna del poema, molto più fruibile dalla modernità: l’umanità, intesa come essenza terrena e mortale della vita quotidiana. Persistono tutti quei piccoli dettagli che fanno di Achille e di tutti gli altri, caratteri immortali della memoria collettiva e, in qualche modo, sussistono in questo nuovo universo di guerrieri che lottano per la propria vita. In quest’ottica, Baricco riesce a raccontare l’Iliade colpendo nel segno l’essenza pura del poema e rappresentando una delle letture più riuscite del poema omerico.

    Kallifatides, invece, tende a valorizzare molto di più le parti della narrazione “attuale”, rispetto alle parti dell’Iliade, tralasciando proprio queste caratteristiche a cui accennavo. Mancano mordacità, lirismo, e un accento marcato sugli aspetti umani dei personaggi. La narrazione scorre senza nessun intoppo: L’assedio di Troia è un libro che funziona, ma che lascia una sensazione di essere completo solo per metà. Se da un lato abbiamo una vicenda personale davvero emotiva e toccante, dall’altra abbiamo un racconto dell’Iliade che, purtroppo, sembra solo un riempitivo.

    E l’Iliade richiede molto di più: e quest’esigenza non è solo un’impressione. Ne abbiamo la certezza quando finalmente leggiamo opere come Omero, Iliade che la raccontano alla perfezione in tutto il suo splendore, aprendo la via alle vite che la popolano; fossili palpitanti che lottano pelle contro pelle, nudi di tutto, mentre cantano sottovoce una melodia scordata che profuma di vita.

  • Il mito di Prometeo dall’antichità al XX secolo

    Il mito di Prometeo dall’antichità al XX secolo

    Una delle figure eroiche più accattivanti e interessanti è senza dubbio quella del titano Prometeo, presente nella storia della letteratura dal mito greco fino alle opere contemporanee, sia come il dio che procura agli uomini la tecnica e per questo subisce una tremenda punizione, sia come plasmatore di simulacri cui dà la vita.

    Molteplici le caratteristiche che di lui vengono messe in luce: da un lato ribelle ladro di fuoco, strenuo oppositore dell’ordine divino, talvolta benefattore dell’umanità e portatore di progresso. Già il nome rappresenta la caratteristica principale dell’eroe: egli è «colui che rifletta prima», in opposizione allo stolto fratello Epimeteo, che è invece «colui che riflette dopo».

    Prometeo entra per la prima volta nella tradizione letteraria con il poeta greco Esiodo (VIII e VII a.C) che, nella Teogonia – una raccolta poetica di miti volti a spiegare la genealogia degli dèi –  lo presenta come figlio di Giapeto e della ninfa oceanina Climene. Il titano, in contrasto con il volere di Zeus, concede agli uomini il dono del fuoco, di cui il padre degli dèi li aveva privati per vendetta, lasciandoli in una società tecnicamente arretrata.

    Peter Paul Rubens, Prometeo incatenato, 1611-1612, Philadelphia Museum of Art
    Peter Paul Rubens, Prometeo incatenato, 1611-1612, Philadelphia Museum of Art.

    Il gesto di Prometeo scatena terribili punizioni sia per lui che per l’umanità: egli stesso è incatenato ad una colonna, mentre un’aquila gli divora il fegato che ogni giorno ricresce, rendendo eterna la pena; mentre per gli uomini sarà Pandora, come è scritto nelle Opere e i giorni (vv.42-105) che, aprendo il vaso donatole proprio da Epimeteo, diventa origine di tutti le sventure.La figura dell’eroe viene in modo più dettagliato indagata nei suoi chiaroscuri anche nella tragedia greca Prometeo incatenato, spesso attribuita ad Eschilo, ma la cui paternità è incerta. L’opera viene datata intorno al 460 a.C. e è considerata eschilea dai critici alessandrini, ma non dagli studiosi moderni. Nel Prometeo, l’antagonista dell’eroe è Zeus, non padre giusto, ma tiranno che punisce senza pietà colui che, disobbedendo alle leggi stabilite, concede il grande dono del fuoco ai mortali. È proprio il fuoco che permette che si attui quel passaggio osteggiato da Zeus e cercato dal titano, quello dalle tenebre dell’ignoranza alla luce dell’arte e della ragione. Come si legge nel v. 267, che sintetizza tutta la consapevolezza di Prometeo, egli stesso ammette: «volendo, volendo ho peccato» (ἑκὼν ἑκὼν ἥμαρτον). Proprio questa coscienza nell’agire mette in movimento la tensione tragica tra il divino sovrano onnipotente e il titano fermo nel suo convincimento, che non rinnega il proprio ruolo di difensore del progresso.

    È forse proprio la profonda autocoscienza delle sue azioni, che pure portano a una punizione, che fa guadagnare alla figura di Prometeo l’ammirazione di intellettuali, filosofi e poeti, anche nelle epoche successive: Boccaccio, per esempio, lo inserisce nella sua Genealogia Deorum Gentilium (1350-1375), in cui propone l’immagine di un eroe che libera l’uomo dalla sua condizione primitiva.

    È nel XVIII secolo, però, che il mito viene più volte rimaneggiato, fino al raggiungimento di esiti talvolta antitetici. Nel libretto d’opera Pandora (1740 ca), l’illuminista Voltaire riprende il motivo eschileo della lotta contro Zeus, ma con caratteristiche differenti: le azioni dell’eroe sono infatti mosse dal desiderio di conquistare l’amore di Pandora, la prima donna dell’umanità, che tramite l’apertura del vaso aveva, secondo il mito, scatenato i mali sugli uomini. Una lettura opposta viene offerta dal filosofo Rousseau, che nel Discours sur les sciences et les arts del 1750, propone un personaggio con delle caratteristiche molto lontane da quelle del modello. Il protagonista è infatti un Prometeo malefico, colpevole di aver corrotto la felicità umana.

    In pieno spirito preromantico, in seguito, Goethe, nel poemetto Prometeo (1773), ritorna al lato eroico del personaggio, che si ribella per amore dell’umanità, che è «fatta per soffrire e per piangere, ma anche per godere e gioire». Interessante è anche la lettura che Schlegel dà nel suo scritto Prometeo, del 1797, in cui l’eroe arriva a plasmare un uomo d’argilla sempre felice, sfidando l’ottusità di un mondo arcaico e retrivo.

    Jan Cossiers, Prometeo porta il fuoco, 1637, olio su tela, Madrid, Museo del Prado.
    Jan Cossiers, Prometeo porta il fuoco, 1637, olio su tela, Madrid, Museo del Prado.

    La figura di Prometeo arriva ad essere trattata non solo in letteratura, ma anche in musica: è il caso di Die Geschöpfe des Prometheus (Le creature di Prometeo), che Beethoven scrive nel 1801, un balletto in tre atti, su coreografie di Salvatore Viganò. La trama vede Prometeo modellare delle creature nella creta che, prive di sentimento e ragione, si ribellano ad ogni tentativo di umanizzazione. L’eroe vorrebbe distruggerle, alla fine, ma viene fermato dal dio Pan: sul Parnaso, monte sacro alle Muse, le creature verranno educate tramite quelle arti che, sole, nobilitano l’uomo, come la musica e la letteratura. L’interpretazione che Beethoven restituisce del mito priva la figura del titano di quella centralità eroica ereditata dalla tradizione: le creature da lui plasmate restano il punto focale dell’azione, mentre il loro artefice non può dirsi un vero e proprio ribelle fiero della propria indipendenza dagli dèi.

    Celebre ripresa successiva è quella di Byron, Prometheus (1816), seguito da Mary Shelley con Frankenstein or the modern Prometheus (1818). L’appassionante vicenda interessa anche Giacomo Leopardi, che ne La scommessa di Prometeo (1824) sottolinea, in una visione pessimistica, il fallimento di un eroe che non eleva gli uomini con la tecnica, ma realizza invece, dopo averli creati lui stesso, di aver posto nel mondo l’essere imperfetto per eccellenza. In questo scenario si colloca un’opera straordinaria per la sua unicità, il Prometheus Unbound del 1820 di Percy Bysshe Shelley, che si basa sulla tragedia greca perduta del Prometeo Liberato, opera per la quale non è possibile stabilire un autore o una data di composizione certa, di cui non resta quasi nulla, se non qualche frammento. Shelley si focalizza su una parte del mito che, fino a quel momento, non era stata debitamente approfondita: la liberazione di Prometeo da parte di Eracle e la sua successiva vittoria sugli dèi. Lo scrittore inglese si stacca dalla tradizione del mito, secondo la quale Prometeo si ricongiunge con Zeus.

    Questi, che rappresenta il male e il dolore che minaccia l’umanità, viene affrontato senza timore dall’eroe, ma è soltanto nel momento in cui egli viene sconfitto che Prometeo e l’umanità intera ritrovano le rispettive libertà. Il lieto fine, tuttavia, ha un sapore amaro: nel Cielo non può essere ricercato alcun bene, né può esistere una potenza superiore che salvaguardi il mondo. Gli uomini possono essere immortali solo nello spirito e alla fine del primo atto, Shelley scrive: «Prometheus declares that peace comes with death».

    Thomas Cole, Prometeo incatenato, 1846-47, olio su tela, collezione privata.
    Thomas Cole, Prometeo incatenato, 1846-47, olio su tela, collezione privata.

    Questa dimensione prettamente umana, che rigetta nel mondo reale tutto quanto di spirituale e religioso ci fosse dietro all’immagine del “cielo”, viene ripresa da Nietzsche nella Nascita della tragedia (1872): Prometeo è l’eroe che dà significato alla realtà tramite il proprio io, che si precipita con forza all’interno del flusso del cambiamento. Il fuoco che è stato rubato, infatti, apre all’uomo una dimensione dinamica del mondo, che viene visto come sintesi di possibilità infinite, in continua mutazione. Il fuoco che Prometeo porta agli uomini è sapere, potere, possibilità e libertà. La sofferenza che segue la punizione è il prezzo da pagare per liberare l’uomo dalla sua finitezza, è ciò che permette ai viventi di esplicare tutte le proprie potenzialità tramite la tecnica e l’autoaffermazione.

    Il fascino rivoluzionario e il sacrificio di Prometeo non lasciano insensibile neanche Karl Marx che, nella sua tesi di laurea in filosofia all’università di Jena, dal titolo Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro (1841), chiama il titano «il più nobile dei santi e dei martiri del calendario filosofico». Liberando il mondo da ogni forma di alienazione e di reificazione, egli avrebbe reso l’uomo un soggetto partecipe e cosciente del suo destino, anziché oggetto dominato dall’esterno.

    Ancora in ambito musicale, Liszt, nel poema sinfonico Prometeo (1850) – in cui si rifà al Prometeo liberato del filosofo Herder, di cui, con la composizione, vuole celebrare il centenario dalla nascita – mette in musica sentimenti ed emozioni tipicamente romantici che estremizzano, in qualche modo, il modello di ideali classico della figura di Prometeo. La partitura, composta a partire da tanti nuclei originari e messa insieme solo successivamente, e sulla quale Liszt rimette mano più volte, coinvolge l’ascoltatore – che, al tempo, non sempre sembra apprezzare – con suggestioni come dolore, speranza, paura, ma anche trionfo.

    Nel XX secolo Prometeo diventa l’eroe che si affatica nella strenua ricerca del bene, all’interno di un universo problematico che ha visto e subìto tutti gli orrori del “Secolo breve”. In questo contesto Cesare Pavese, nei Dialoghi con Leucò (1946), si identifica con il Prometeo incatenato alla rupe, stanco, vinto e da solo di fronte a quell’aspirazione al bene che non trova modo di esprimersi e in quel titanico rifiuto di venire a patti con la propria epoca.

    Arnold Böcklin, Prometheuslandschaft, 1885, Darmstadt, Hessisches Landesmuseum Darmstadt.
    Arnold Böcklin, Prometheuslandschaft, 1885, Darmstadt, Hessisches Landesmuseum Darmstadt.

    Subito dopo, Camus, ne L’uomo in rivolta (1951) porta a compimento lo spirito che aveva animato fino a quel momento il 1900, offrendo una sintesi che sarà alla base della visione contemporanea di Prometeo. Egli è colui che realizza una rivoluzione metafisica, intesa come ribellione al male che permea il mondo: Prometeo, conoscendo la condizione umana che versa nella miseria, cerca di migliorarla con il dono del fuoco, concedendo agli uomini angosciati dall’idea della morte una speranza per rendere sopportabile il destino che li attende, potendo incidere, con le loro azioni, sul futuro.

    Nel 1984 arriva poi sulle scene Prometeo. Tragedia dell’ascolto, una composizione musicale di Luigi Nono su libretto di Massimo Cacciari, che utilizza non solo il testo greco come fonte, ma anche scritti di vari generi ed epoche (greci e moderni). La particolarità di quest’opera è che essa non possiede un contesto scenico definito, ma è costruita su suoni in movimento, nel quale l’azione si sviluppa seguendo la trama musicale.

    La figura di Prometeo, dunque possiede una fortuna vastissima, a partire dall’antichità e dal medioevo, fino all’età contemporanea. Egli, con il suo spirito “anticonvenzionale”, si presta ad essere una figura che incarna, in modo più o meno spiccato, gli ideali dell’epoca di chi ne racconta le avventure. Che si voglia mettere in luce come la ribellione di Prometeo contro Zeus sia impossibile e incontrollabile – come fanno Beethoven e Leopardi – o che si voglia idealizzare il suo coraggio, insieme alla volontà di perseguire ciò che gli sembra più corretto, come si può riscontrare nella maggior parte delle riscritture moderne e romantiche, resta il fatto che la figura del titano appare estremamente duttile per esprimere un concetto che permea, da ogni tempo, l’animo di una grande parte del genere umano: il desiderio di progresso.

    È questo, infatti, insieme al voler cercare una strada che possa portare ad un futuro migliore, contro le ingiustizie e, talvolta, contro l’ordine stabilito delle cose, che spinge la storia ad andare avanti ed è questa stessa concezione, che coinvolge interamente la figura estremamente umana di Prometeo, a far sì che egli abbia potuto godere di una fortuna così grande nei secoli.

     

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    In copertina: Heinrich Friedrich Füger, Prometeo porta il fuoco al genere umano, 1790-1817, olio su tela.

  • Tucidide e Lucrezio: la peste nell’antichità

    Tucidide e Lucrezio: la peste nell’antichità

    La morte e la malattia nella cultura contemporanea, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale, sono state relegate ai margini della nostra vita. Per quanto ovviamente continuino a far parte del nostro quotidiano, la spinta verso un mondo eternamente giovane è fortissima: lo vediamo nell’industria antiage, lo vediamo nelle pratiche di bio-hacking, e lo vediamo in quello che è a tutti gli effetti un vero e proprio culto del corpo. 

    Anche se il fashion e la moda hanno da un po’ di tempo reagito alla mentalità omologante che imperava nei decenni precedenti proponendo canoni e corpi “non-conformi”, ancora nel pensiero comune, nella pubblicità mainstream e in generale nella società vediamo spesso una non accettazione della malattia come fatto ineliminabile dalla vita, e ancora parlare, per esempio, di tumore in pubblico viene considerato un “fatto coraggioso”, perché nella maggior parte del tempo pensiamo la vita come un eterno presente in cui ognuno deve aspirare, come una sorta di dovere sociale, alla bellezza e alla salute. 

    La pandemia di Covid-19 ha incrinato, per un momento, questa illusione: anche se oggi siamo tornati a vivere le nostre normali esistenze, in quel momento è diventato chiaro, lampante, che come specie non possiamo controllare tutto. Esiste qualcosa che non riusciamo ancora a definire, a ingabbiare, e questo qualcosa bussa alla porta, e probabilmente diventerà sempre più pressante: come sappiamo, infatti, la scorsa pandemia potrebbe non essere l’ultima, e anzi, maggiore è la distruzione degli habitat ambientali, maggiore è il rischio di nuove epidemie. Non solo: è recente la notizia della prima comunità costretta a spostarsi a causa dell’innalzamento del livello del mare

    Abbiamo visto, in un altro articolo, come nel medioevo la risposta alle catastrofi fosse sostanzialmente di tipo religioso: l’idea di una punizione divina era funzionale alla regolazione della società e a un’epoca fortemente instabile. Ma forse è ancora più interessante, per noi contemporanei, vedere come si affrontavano questi fenomeni in un contesto maggiormente laico, spostandoci nell’antichità.

    La tragedia, in questo caso, fu la peste di Atene, che ha coinvolto l’Attica durante la guerra del Peloponneso, e che ci viene raccontata da due autori, Lucrezio e Tucidide, con metodi e finalità differenti. Partiamo da Tucidide, che è stato testimone degli eventi e che sarà modello e fonte non solo di Lucrezio, ma di tutti gli autori che d’ora in poi parleranno di peste.

    Evelyn de Morgan, L'angelo della morte,1881
    Evelyn de Morgan, L’angelo della morte,1881

    Ciò che differenzia Tucidide dai suoi predecessori, primo fra tutti l’illustre Erodoto, è il tentativo di porre le basi per quella che oggi chiameremmo una storiografia “scientifica”. Ciò non vuol dire che i suoi racconti siano sempre attendibili, ma la sua opera è molto più sorvegliata in questo senso, a partire dalla scelta dell’argomento: mentre Erodoto raccoglie storie ed eventi da quasi tutto il mondo allora conosciuto, e spaziando tra le epoche, in modo da creare una sorta di storia universale, Tucidide sceglie di concentrarsi sulla guerra del Peloponneso, un fatto contemporaneo, sulla cui veridicità può avere maggiore controllo.  

    Anche stilisticamente, Tucidide è ben diverso dall’altro grande storico di Atene: Erodoto aveva uno stile prettamente affabulatorio, volto a stupire e affascinare il suo uditorio, anche perché declamava in pubblico le sue opere; Tucidide invece è asciutto, preciso, e questo lo pone agli antipodi rispetto a un Erodoto, il cui “bello stile” è inscindibile da ciò che ci racconta, al punto che alcuni delle sue storie non sono affatto credibili, e valgono al più come esempi, o come simboli. In Tucidide, invece, l’avvenimento non è mai analizzato alla luce di un’idea metafisica, né è usato come esempio edificante, o con intenti manifestamente didattici o edificanti. 

    Io dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che uno potrà considerare e tenere presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati[tooltip tip=”Tucidide, Storie, traduzione a cura di Franco Ferrari, 1985, Rizzoli, p. 341. “][1][/tooltip].

    Non solo: Tucidide interpreta anche i fatti alla luce di una nuova razionalità (quella della sofistica, del rinnovamento ateniese del V secolo, ma di cui parleremo un’altra volta), mettendo in questione le opinioni e le credenze dei suoi contemporanei. Uno dei passi più esemplari è quello che segue:

    E, come era naturale, in quella sventura si ricordarono anche di questo verso, che, secondo le parole dei più vecchi, era stato cantato una volta: «verrà la guerra dei Dori e la pestilenza con lei».  In quell’occasione la gente era in preda alla discordia, perché si sosteneva che in quel verso non era stato detto dagli antichi «pestilenza», ma «fame»; pure, data la sventura in cui si trovavano, ovviamente vinse l’opinione di quelli che pensavano che era stato detto «pestilenza». Giacché gli uomini adattavano i ricordi ai mali sofferti[tooltip tip=”Tucidide, Storie, traduzione a cura di Franco Ferrari, 1985, Rizzoli, pp. 349, 351.”][2][/tooltip].

    Michiel Sweerts, La peste in una città antica, 1652
    Michiel Sweerts, La peste in una città antica, 1652

    Qui vediamo come la tradizionale idea che i mali e le calamità arrivino per punizione divina o per una profezia, venga messa in discussione e demistificata. Tra “pestilenza” e “fame” la gente, il popolo, è più propenso a scegliere la seconda interpretazione, perché adattavano la frase alla situazione che stavano vivendo. Il passato viene cambiato in funzione del presente. La profezia, infatti, ha la funzione di spiegare l’inspiegabile, e crederci diventa dunque un atto consolatorio: ci conforta nella credenza di un ordine superiore, con cui quindi possiamo misurarci, e che possiamo in qualche modo controllare. Ma in realtà la profezia nasce a posteriori, e diventa chiara solo col senno del poi.

    Tucidide, invece, accetta che l’uomo non possa controllare in toto la realtà, e dunque opera una definizione dei limiti della conoscenza, e in questo mostra una modernità sorprendente. Se da un lato l’imponderabile diviene in Tucidide una forza quasi soprannaturale, in grado di determinare i fatti umani al di là della nostra volontà, dall’altro però diventa l’ammissione dei propri limiti di studioso, dell’impossibilità di dare sempre una spiegazione, e anzi, il dovere di scartare tutte le ipotesi facili e consolatorie, come le profezie o l’idea che la peste sia stata portata apposta dagli spartani.

    Il fine di Tucidide, infatti, non è inserire l’evento all’interno di un ordine naturale, o trovare una spiegazione edificante, ma cercare di comprendere le concatenazioni tra gli eventi, i loro nessi: in questo caso, quale sia stato il ruolo della peste all’interno del conflitto, e quanto abbia pesato nella sconfitta ateniese, dato, anche, che ha portato alla morte di Pericle, il leader politico che ha plasmato Atene e la sua politica per più di trent’anni.

    Molto diverso è invece il punto di vista dell’altro autore che, alcuni secoli dopo, ci racconta lo stesso evento: Lucrezio, che conclude il suo De rerum natura (La natura delle cose) proprio con la descrizione della peste. Per molti versi le due descrizioni si somigliano: entrambi si attardano a raccontare gli effetti della peste sul corpo, in descrizioni tremende, estremamente dettagliate; entrambi parlano della paura e della disgregazione sociale che questa comporta. Ma in Lucrezio la peste prende delle vie più particolari e misteriose.

    Lucrezio infatti è un poeta, ma un poeta-filosofo. Un poeta che scrive della realtà per esporre la teoria di Epicuro, una dottrina di tipo materialistico, ma dalla spiccata valenza etica. Per Epicuro infatti il fine è il raggiungimento della serenità: la comprensione del mondo serve a trovare uno stato di pace, di armonia. Ci aspetteremmo dunque che Lucrezio ci descriva la realtà così come la vede Epicuro. E invece le cose sono leggermente diverse.

    Michelangelo, Giudizio Universale, l'Inferno, affresco della Cappella Sistina, Roma, 1508-1512
    Michelangelo, Giudizio Universale, l’Inferno, affresco della Cappella Sistina, Roma, 1508-1512

    Come è stato ampiamente osservato, le esigenze poetiche di Lucrezio sembrano contrastare con il suo essere filosofo; in particolare, se per Epicuro l’essere umano deve raggiungere uno stato di tranquillità e serenità dell’animo, Lucrezio in molti passi è tutt’altro che pacato e sereno. Questo è uno dei casi più emblematici: quando Lucrezio si sofferma sulle sofferenze, sull’orrore che genera la peste, lo fa con versi estremamente macabri, truculenti, anche più di Tucidide, arrivando ad abbandonare la terza persona per rivolgersi direttamente al lettore. 

    Molti corpi, consumati dalla sete lungo le strade e stramazzati
    vicino alle fontane, giacevano distesi per terra, con il respiro
    soffocato dal piacere eccessivo che aveva provocato il gesto di bere.
    E nei luoghi pubblici potevi vedere qua e là per la strada
    una grande quantità di corpi semivivi con le membra disfatte:
    morivano in mezzo agli stracci e in una sporcizia nauseante,
    morivano luridi e sulle ossa avevano soltanto un velo di pelle
    che ormai era quasi sepolta sotto il lerciume e le piaghe spaventose[tooltip tip=”Milo de Angelis, De Rerum Natura di Lucrezio, 2022, Mondadori, pp.505-507,  vv. 1263-1271″][3][/tooltip].

    A differenza di Tucidide, che rifugge dal dare spiegazioni metafisiche agli eventi, per Lucrezio la peste è soprattutto un simbolo: rappresenta l’instabilità del mondo, la sua sofferenza, e anche l’insensatezza dell’attaccarsi alle cose terrene, in quanto effimere. Al contrario, distaccarsi da esse porta l’uomo a una vera serenità: il piacere per Epicuro, infatti, non è godimento fine a se stesso, ma godimento delle cose nell’immediatezza, con quel distacco che ci permette di apprezzarle senza esserne schiavi.

    Lucrezio, tuttavia, mostrandoci le disgrazie del mondo, finisce – un po’ come è accaduto, mutatis mutandis, al Dante dell’Inferno – per esaltarle. In ogni punto in cui il nostro esprime la sua critica alla realtà, quasi a disprezzarla, si lancia in descrizioni così ricche di pathos che finiscono per farcela amare ancora di più, per interessarci ad essa. La poesia, in un certo senso, esonda rispetto la filosofia. 

    Peter Van Halen, La peste tra i filistei ad Ashdod, 1661, olio su tela, Wellcome Collection Museum, Londra
    Peter Van Halen, La peste tra i filistei ad Ashdod, 1661, olio su tela, Wellcome Collection Museum, Londra

    Eppure, non risulta tanto tremendo quanto Tucidide: 

    E il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; le parti interne ardevano a tal punto da non poter sopportare il rivestimento di vesti leggere o di lini, né altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda. E molte persone non curate facevano questo, gettandosi nei pozzi, prese da sete insaziabile; tuttavia il bere molto o poco dava lo stesso risultato[tooltip tip=”Tucidide, Storie, traduzione a cura di Franco Ferrari, 1985, Rizzoli, pp. 343″][4][/tooltip].

    Probabilmente perché Tucidide racconta qualcosa che ha visto con i suoi occhi, riesce con la sua prosa fredda e analitica ad andare addirittura oltre la poesia di Lucrezio. Tucidide non pretende di sconvolgere, di suscitare una reazione nel lettore, e questo lo rende più vero, più inquietante, perché immaginiamo quanto potrebbe dirci e non ci dice: il non-detto di Tucidide pesa molto di più di quanto ci viene detto in Lucrezio. 

    Forse è proprio l’assenza di spiegazioni allora che ci rende oggi più vicino alla nostra sensibilità lo storico greco: oggi, infatti, non abbiamo un sistema all’interno del quale incasellare le tensioni a cui siamo sottoposti ogni giorno. In Lucrezio la malattia e l’ansia per la morte sono descritte con tanta insistenza perché hanno un valore catartico: il lettore, attraversando l’opera, e quindi vivendo tutte le meraviglie, e tutto l’orrore nel mondo, si può emancipare da esso, e superarlo.

    In Tucidide, invece, la malattia colpisce senza alcun preavviso e, come molti altri eventi della vita, rimane senza giustificazione, senza una ragione, ed è per questo che ci fa ancora paura. 

     


    Leggi anche: il Covid di Atene e la fine della Storia

  • La peste nel medioevo: affrontare l’imponderabile

    La peste nel medioevo: affrontare l’imponderabile

    Circa millecinquecento anni dopo la celebre peste di Atene, un cronista di origini francesi dall’animo inquieto ci racconta la dissoluzione e la rovina del suo mondo, ormai destinato ad essere soppresso dai peccati dell’uomo. Il suo nome è Rodolfo il Glabro.

    Nei suoi Historiarum libri quinque, scritti intorno alla metà dell’XI secolo probabilmente all’Abbazia di Cluny, narra le vicende del popolo franco dal 900 al 1044, quindi descrivendo eventi a lui contemporanei che interpreta alla luce di aneddoti che vengono interpretati come segni premonitori.

    Nel nostro autore tutto diviene simbolo: calamità, carestie ed epidemie. Tutti questi eventi sono trasfigurati nell’ottica del cristiano: le eclissi sono mancanza di luce divina, indizi all’avvento delle tenebre infernali; le carestie e le malattie, punizioni propinate da Dio per redimere gli uomini dai peccati. Per questo Rodolfo il Glabro non è interessante in quanto storico, ma per capire come gli uomini del medioevo si rapportassero ad un evento come un’epidemia.

    Siamo infatti in un’epoca che si sente lontana dai fasti dell’impero carolingio e nello stesso tempo è percorsa da un afflato di rinnovamento. Lo stesso Rodolfo il Glabro ci racconta come proprio in quegli anni l’Europa inizia a rivestirsi di un candido manto di chiese e di come ci sia un rinnovamento nella società. Questo rinnovamento però viene interpretato dall’intellettualità dell’epoca in maniera contraddittoria: da un lato si ha la sensazione di una rinascenza, ma dall’altro ogni evento negativo mostra la paura di un’imminente fine dell’umanità e di una irrimediabile corruzione dell’uomo.

    Al contrario di quanto crederanno gli storici dell’Ottocento la credenza che la popolazione europea fosse terrorizzata per la fine del mondo nell’anno Mille è falsa, ma comunque quello era un mondo che credeva fortemente alle Scritture, e le Scritture, nell’Apocalisse ci dicono esattamente come sarebbe finito il mondo: l’intellettualità dell’epoca era quindi estremamente attenta ad ogni indizio che ne rivelasse l’avvento.

    Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo
    Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo

    Un esempio di questo lo possiamo vedere, qualche secolo dopo, con una delle figure più particolari e più affascinanti dell’epoca medievale e cioè Federico II, un sovrano talmente diverso dagli altri, indipendente e anticonformista che più di un intellettuale pensò che potesse davvero essere l’anticristo. Addirittura, quando nel 1250 morì, Fra Salimbene da Parma, una delle nostre maggiori fonti dell’epoca, confessò di esserci rimasto molto male: era così convinto che il mondo sarebbe finito che il fatto di essere stato smentito era peggio della fine del mondo stessa.

    Tuttavia la pestilenza più importante e anche conosciuta di epoca medievale è la peste nera che colpì l’Europa a metà del Trecento. La peste fu così ampia e generalizzata che morì un terzo della popolazione europea e per questo è considerata uno spartiacque nella storia medievale. Non solo perché fu un episodio catastrofico, ma anche perché in realtà portò a un rinnovamento della società europea come è stato evidenziato da alcuni anni. Ciò non toglie che fu un evento traumatico per la generazione che lo visse.

    Tuttavia in un autore come il Boccaccio vediamo una presa di distanza: a differenza di altri autori, soprattutto antichi, che hanno raccontato la peste con dovizia di particolari, ponendo l’accento sulla sofferenza, Boccaccio è più interessato alle relazioni, ai legami che la peste arriva a spezzare raccontando di come i padri abbandonino i figli e i figli  i padri e di come «alcuni erano di più crudel sentimento […] dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti»[tooltip tip=”Boccaccio, Decameron, Letteratura Italiana Einaudi, pagina 8. “][1][/tooltip].

    È ciò che in effetti fanno i protagonisti dell’opera di Boccaccio: si ritirano in una villa e raccontano storie, dimenticandosi e facendoci dimenticare della peste che colpisce Firenze. Nonostante Boccaccio condanni l’idea di fuggire dinanzi alle difficoltà, in realtà il fatto stesso che usi la peste come espediente letterario mostra un modo di pensare decisamente diverso rispetto agli intellettuali dei secoli precedenti: che la peste sia o meno una punizione divina importa meno; quello che è veramente importante è la capacità di sottrarsene.

    Boccaccio nella sua opera ci racconta una società medievale viva, ricca di aneddoti, anticipando un certo gusto favolistico che ritroveremo nelle corti cinquecentesche e nell’opera di Giambattista Basile. In questo non è diverso da un Fra Salimbene che pur essendo un religioso non ha paura di raccontare l’alto e il basso, il pudico e l’impudico, il sacrilego. La differenza però sta nel fatto che Boccaccio fa parlare i  personaggi e a parte che nella cornice rinuncia a dare la propria visione degli avvenimenti e soprattutto rinuncia a inquadrarli in una cornice ideologica, cosa che invece per Fra Salimbene è imprescindibile.

    L’umanità descritta da Boccaccio risulta più vicina a noi proprio perché tende a fuggire la morte, a dimenticarsene, mentre l’uomo medievale credente si muove in un immaginario molto più chiaro e definito rispetto al nostro. Per l’ideologia medievale cristiana la realtà è fortemente polarizzata: esiste il Bene ed esiste il Male, l’Aldilà e l’Al di qua. Queste coordinate permettono di affrontare l’imponderabile.

    Arnold Bocklin, La peste, 1898
    Arnold Bocklin, La peste, 1898

    Infatti per molti secoli, prima dello sviluppo delle città e dei commerci, aggrapparsi a un’idea di mondo così forte e definita era l’unico antidoto alla carestia, alle malattie. La stessa medicina medievale, che è stata la base per lo sviluppo della scienza moderna, era una medicina pratica, funzionale alla cura dei feriti di guerra, mentre invece la medicina araba, pur essendo in larga parte inefficace, ed erronea rispetto ai parametri odierni, tendeva a spiegare in maniera più onnicomprensiva le malattie e la morte.

    Ciò che permetteva dunque alla società medievale di sopravvivere e affrontare le calamità non era tanto legato alla conoscenza tecnica, quanto piuttosto alla capacità di infondere in larghi strati della società la convinzione di vivere in un mondo regolato, ordinato, in cui ognuno ha il proprio compito: una consapevolezza che non dobbiamo immaginare come incrollabile e non soggetta a oscillazioni, come si vede in Boccaccio, ma che, al contrario, in una società in rapida trasformazione come quella basso-medievale diviene più sfumata.

    Per certi versi la situazione odierna è quasi all’opposto: abbiamo conoscenze tecniche incomparabili anche solo a quelle di un secolo fa: lo abbiamo visto con a scorsa pandemia, in cui la medicina da uno stadio di pressoché totale impreparazione è riuscita in pochi mesi ad approntare cure e vaccini efficaci. Abbiamo anche una capacità sociale tale da permettere quarantene e chiusure su scala molto più vasta di quanto fosse immaginabile fino a quel momento. È mancato, però, un insieme di strutture ideologiche altrettanto forte, in grado di comprendere la morte all’interno del proprio orizzonte esistenziale, come avviene ai personaggi di Boccaccio.

    La malattia e la morte, infatti, non sono più viste come parte dell’esistenza, ma sono collocate al di fuori di essa. Il sogno dell’essere umano, in special modo occidentale, è vivere un’eterna primavera, senza sofferenze o ostacoli, e si scontra con una realtà del tutto differente, sia perché non tutti hanno accesso alle cure più recenti ed efficaci, sia perché queste sono comunque realtà ineludibili. La nostra realtà è dunque schizofrenicamente scissa tra il mondo ideale prospettatoci dal progresso tecnologico, e una realtà ben più dura e aspra. E questo finisce per porci in una situazione di ansia e paura costante.

    L’approccio prospettato dall’uomo medievale oggi suscita in noi un forte dissenso, se non rifiuto: sappiamo che le epidemie non sono una punizione divina, e che l’uomo non è inscritto in un disegno al quale non può sfuggire. Noi, però, non abbiamo un’altra visione della realtà altrettanto chiara e limpida di quella dell’uomo medievale. Per quanto cerchiamo di allontanare la malattia e la morte dalle nostre esistenze, queste restano un interrogativo, una presenza ingombrante con cui ancora dobbiamo misurarci.

     


    In copertina: Anonimo, Scuola inglese, La morte conduce il suo esercito, XIX secolo, olio su tela.

  • La Roma riemersa: la Forma Urbis dell’età imperiale

    La Roma riemersa: la Forma Urbis dell’età imperiale

    Quella della Forma Urbis è una storia avventurosa che ha attraversato il tempo tra oblio e riscoperta. Nel settore nord-occidentale del Celio, all’interno del parco archeologico che affaccia sul Colosseo, ha trovato spazio una delle più straordinarie testimonianze della Roma antica, la Forma Urbis: una monumentale pianta marmorea costruita per volontà dell’imperatore Settimio Severo tra il 203 e il 211 d.c. Di dimensioni colossali, occupava una superficie di 13.550.000 metri quadrati, snodandosi lungo uno spazio di 18 metri per 13. Era costituita da 150 lastre marmoree dipinte, sostenute da perni e costellate di sottili incisioni che mappavano la conformazione della Roma severiana secondo una scala di 1 a 240.

    Quartieri con i loro edifici pubblici e i tempi sacri, le case e le ville, le botteghe e i granai, i castra e le terme, segnavano la conformazione di un’intera città e della vita che vi scorreva dentro. Provoca un’emozione appagante poter verificare personalmente la famosa fama dell’estro creativo, sempre associato a capacità tecniche sorprendenti, dell’antico popolo romano. Perché non si tratta della semplice mappatura di una città, ma di un reticolato urbano che prende vita e racconta di un tempo lontano ma sempre rievocabile.

    Ogni elemento che compone la pianta ha un suo segno fatto di semplici geometrie che si incontrano e che potrebbero apparire come un’opera d’arte contemporanea se non si sapesse da chi furono ideate: era un enorme rilievo, che doveva sorprendere. Questo lo scopo per cui la Forma Urbis fu voluta da Settimio Severo e da suo figlio Caracalla.

    Fu affissa, non a caso, sulla parete del Tempio della Pace: l’imperatore, gli imperatori, sono princeps pax, quella pace che deve essere mantenuta anche a costo di fare la guerra, e loro è il compito di garantirla.

    Busto di Settimio Severo
    Busto di Settimio Severo, conservato al Museo Archeologico Nazionale di Roma (credits: Wikimedia Commons)

    Settimio Severo è un princeps romano, anzi, ancora di più: sotto il suo regno, il princeps che è investito del suo potere dal Senato, si trasforma nella figura del dominus legittimato dall’unico vero baluardo dell’Impero: le legioni. Fu innalzato infatti al soglio imperiale con l’appoggio della forza militare, riformò l’esercito romano, volle legittimare l’ufficialità della propria successione dichiarandosi, nella titolazione imperiale, figlio di Marco Aurelio, fratello di Commodo, e si fece riconoscere il titolo di deus dando origine al concetto di investitura per volere divino.

    Fu commissionando una colossale rappresentazione del suo potere espanso sulla gloriosa città di Roma che il nuovo imperatore poté manifestare la grandezza della sua dominatio. La Forma Urbis ha un ruolo propagandistico, le sue dimensioni sarebbero altrimenti ingiustificate: chi entrava nel Tempio sarebbe dovuto rimanere esterrefatto, dominato da quello che gli si manifestava di fronte.

    Infatti, nella posizione verticale in cui si trovava, una piattaforma marmorea di quella dimensione sarebbe stata impossibile da consultare integralmente. Lo sguardo poteva arrivare fino ad un certo punto, poi era obbligato a desistere e a contemplarne – semplicemente – la grandezza. Un’estensione considerevole e volutamente impossibile da cogliere nella sua interezza.

    Forse il suo destino era quello di essere dispersa in tanti pezzi, chi sepolto, chi riutilizzato, nessuno avrebbe potuto più ricomporla nella sua interezza. Un’interezza che voleva essere negata sin dalla sua costruzione a vantaggio dall’imponenza di un manufatto, simbolo del potere di Roma e del suo imperatore. E infatti questo è accaduto. La Forma Urbis è stata dimenticata, poi riscoperta, e alla fine salvata.

    Il Tempio della Pace venne inglobato nella Basilica dei Santi Cosma e Damiano (su una delle pareti sono ancora visibili i fori in cui erano stati posizionati i perni che sorreggevano la mappa severiana). Fu riportata alla luce solo nel 1562, grazie al mecenatismo di Alessandro Farnese (futuro papa Paolo III) che ne finanziò e favorì l’attività di recupero e di valorizzazione.

    La Forma Urbis com'è oggi (foto di Benedetta Palmieri)
    La Forma Urbis com’è oggi (foto di Benedetta Palmieri)

    Ma la fortuna non è affidabile, spesso ci tiene in balia dei suoi capricci. Dopo un temporaneo interesse legato ai tempi e a uomini eccezionali più che alla coscienza storica, La Forma Urbis venne destinata a un nuovo oblio che durò fino al 1742 quando entrò a far parte della collezione dei Musei Capitolini.

    Quel che resta oggi è circa un decimo del totale. Nel corso del tempo sono stati rinvenuti centinaia di frammenti, ma solo 200 sono stati identificati e idealmente collocati nella ricostruzione della pianta la cui ultima esposizione fu realizzata tra il 1903 e il 1924 a Palazzo dei Conservatori e fino al 1939 collocata, in parte, presso l’Antiquarium del Celio.

    Dopo quasi un secolo la Forma Urbis trova una nuova sede e un nuovo allestimento. L’intenzione del progetto è stata quella di renderne possibile la fruizione e la leggibilità che il tempo e la monumentalità avevano sempre compromesso.

    Per farlo, sul pavimento della sala principale del Museo archeologico del Celio, i frammenti sono stati sovrapposti alla Pianta Grande di Giovanni Battista Nolli, usata come base planimetrica. Una doppia storia che si può letteralmente ricostruire passo dopo passo, essendo tutta la superficie percorribile dall’osservatore.

    Si tratta di una pavimentazione in vetro il cui fondale consiste nella riproduzione della pianta del Nolli e su cui, a sua volta, sono incastonati i frammenti della Forma Urbis. La sovrapposizione con la Pianta Grande permette di rintracciare, nella Roma settecentesca, l’antica collocazione degli edifici che popolavano il centro della Roma severiana.

    Forma Urbis di Settimio Severo
    La Forma Urbis com’è oggi (foto di Benedetta Palmieri)

    Un gioco di rimandi, riferimenti e inaspettate corrispondenze che mostrano una Roma trasformata ma in cui è sempre possibile rintracciare qualche segno di continuità. Nella pianta del Nolli traspare una città che, al visitatore moderno, potrebbe apparire non così tanto stravolta rispetto alla metropoli che oggi gli si para davanti agli occhi.

    Come il lavoro dietro la pianta commissionata da Settimio Severo anche quello del famoso cartografo e incisore settecentesco fu considerevole. Insieme al figlio Carlo e a nomi illustri come quello di Piranesi, nel 1748 riuscì a portare a termine l’opera. Inizialmente si dovette autofinanziare, ma ben presto venne sostenuto dal futuro Papa Benedetto XIV che, oltre all’aiuto economico, permise l’accesso a palazzi, giardini, proprietà private e perfino a conventi di clausura.

    Ad essere giustapposte sono due storie ognuna appartenente in modo inequivocabile alla propria epoca. All’essenzialità geometrica della Roma antica segnata da linee che si congiungono tra loro su marmo bianco si sovrappone un tratto ornato, elaborato e netto di una Roma figlia del Settecento Barocco.

    Insieme, questi due straordinari capolavori raccontano al visitatore un’unica storia in cui è possibile sperimentare le straordinarie trasformazioni del tempo che non cancella nulla ma che ha il potere di nutrire l’immaginazione. Camminando e ricostruendo, passeggiando su una liscia superficie di vetro (che, quando dalle finestre entra il sole di una bella giornata romana, è animata da pulviscoli di luce che si alternano alle ombre) in questo viaggio attraverso il tempo, ognuno di noi può scoprire come sia sorprendentemente possibile immergersi in un racconto che continua da secoli ad emozionare l’uomo.

     

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    In copertina: foto di Roma Today

  • L’eccezionalità della figura di Dioniso: dualismo e polimorfismo

    L’eccezionalità della figura di Dioniso: dualismo e polimorfismo

    La figura del dio Dioniso, Bacco per i Romani, è una delle più interessanti e controverse del pantheon greco tradizionale. Sia l’etimologia del nome greco che di quello con cui viene venerato dai romani è incerta. Il primo deriva probabilmente dai termini Dios (Διός, cioè “di Zeus”) e nysos (νύσος), termine ignoto di cui si suppone un’origine tracia, che significherebbe “ragazzo, fanciullo”: Dio-nysos sarebbe allora il “fanciullo di Zeus”[tooltip tip=”Kerényi 1963, 207″][1][/tooltip]. Il nome con cui viene conosciuto a Roma deriva invece forse da un termine lidio, bakchos (βάκχος), che significa “urlo, grido”.

    Del mito di Dioniso esistono diverse versioni, una delle quali lo identifica come figlio di Demetra, ma quella più conosciuta lo vede come progenie di Semele, figlia mortale di Cadmo re di Tebe, e Zeus. La donna, istigata da Era gelosa, chiede al re degli dèi di mostrarsi nelle sue vere sembianze: Zeus appare sotto forma di folgore e fulmina Semele. Il figlio che ella porta ancora in grembo, però, viene salvato e cucito da Efesto nella coscia di Zeus, dove viene protetto fino al momento della nascita[tooltip tip=”Otto 2006, 67″][2][/tooltip].

    La versione tramandata dall’orfismo – movimento religioso che, rispetto alla tradizione greca, aveva un carattere più spiccatamente soteriologico e metteva in rilievo l’esigenza di un’ascesi etica personale – vede invece Dioniso, chiamato Zagreo, ucciso dai Titani, che lo avrebbero fatto a pezzi per poi cibarsi delle sue carni. Alla fine Zeus, conosciuto il misfatto, farebbe nascere una seconda volta Dioniso, proprio utilizzando una parte rimasta del suo cuore.

    Una volta venuto – o tornato – al mondo, per sfuggire alle ire di Era, il dio viene mandato presso Atamante e Ino, sorella di Semele, dove viene nascosto nei panni di una fanciulla. Successivamente, ancora in fuga, verrà trasformato in capretto nella regione della Nisa, in Asia, dove scopre la vite e diventa dio dell’arboricoltura. Viene poi condotto alla pazzia dalla moglie di Zeus ma, dopo aver errato per molte terre, giunge in Frigia, dove Rea lo purifica e gli insegna proprio quei riti misterici di cui diventa protettore. In seguito a numerosissimi viaggi, che lo conducono anche in India, Dioniso riesce ad affermare il suo culto: chi gli si oppone, come Licurgo o il Penteo delle Baccanti (Euripide), deve sottostare a delle punizioni tremende. Infine, sceso negli inferi, riporta in vita la madre Semele e la rende immortale.

    William Adolphe Bouguereau, Baccante, 1894
    William Adolphe Bouguereau, Baccante, 1894

    Dioniso, che affronta numerose avventure lungo il suo cammino per affermare la sua natura divina, non è solamente il dio protettore della vite e del vino, ma anche della natura primordiale e selvaggia, cioè ctonia: Omero lo collega, per esempio, con alcune piante selvatiche, come il pino e l’edera, e con alcuni animali selvaggi. Egli è anche il dio della forza della natura ciclica e della linfa vitale. Lo studioso Karoly Kerényi[tooltip tip=”(1992, 340)”][3][/tooltip] osserva inoltre come la consacrazione divina del fanciullo si compia mediante il passaggio attraverso il sacrificio, dopo il quale avviene definitivamente la sua identificazione con un essere divino. Proprio questa morte rituale, che ha carattere simbolico, insieme alla separazione del corpo del dio e alla riaggregazione – che avvengono nel mito di Dioniso Zagreo – sono le fasi proprie di un rito di passaggio, lo stesso che forse veniva rievocato e rivissuto proprio nei riti di iniziazione che si avevano nel culto privato della celebrazione di Dioniso.

    Se infatti da un lato il dio era celebrato nelle feste pubbliche, come le Antesterie e le Grandi Dionisie, che avevano lo scopo di ricondurre sotto il controllo della polis gli atteggiamenti fuori dalla norma tipici dei riti bacchici, dall’altro, il culto veniva celebrato in gran parte in privato, da gruppi ristretti di iniziati che facevano voto di silenzio. I partecipanti erano principalmente donne, chiamate Baccanti, che, attraverso l’utilizzo talvolta di maschere e tirsi, invocavano la presenza soprannaturale di Dioniso. Gli uomini, che potevano essere indistintamente schiavi o uomini liberi, si camuffavano da satiri e il corteo, ebbro di vino, chiamato tiaso, danzava sotto i ritmi vorticosi del ditirambo. In questo contesto, in cui schiavi e persone libere entravano a stretto contatto, venivano stravolte le strutture morali e sociali del mondo abituale.

    Il carattere peculiare di questi riti, unitamente al fatto che Dioniso fosse il figlio di una mortale che si era in qualche modo dovuto “guadagnare” lo statuto di divinità, fa sì che molti studiosi, nel passato, abbiano identificato Dioniso come una figura quanto mai particolare rispetto a quelle presenti nel pantheon greco, tanto da pensare che il suo mito non fosse greco, ma che derivasse dalla Tracia o dalla Frigia. Tuttavia, grazie alla decifrazione della scrittura lineare B da parte di M. Ventris e J. Chadwick[tooltip tip=”Ventris – Chadwick 1956″][4][/tooltip] si è scoperto che Dioniso veniva menzionato in due antiche tavolette micenee rinvenute nel palazzo di Pilo risalenti al XIII sec. a.C. In una compare solamente il nome di-wo-nu-so-jo, ma nell’altra questo appare connesso al termine wo-no-wati-si (PY Xb 1419), che richiama il nome greco del vino, oinos (οἶνος), di cui Dioniso si erge quindi definitivamente come protettore.

    Luca Giordano, Bacco e Arianna, 1675-80
    Luca Giordano, Bacco e Arianna, 1675-80

    L’eccezionalità della figura di Dioniso presenta delle similitudini, inoltre, con quella di Osiride, del dio Mitra e, allo stesso tempo, alcune sue caratteristiche confluiranno nella figura del Cristo. stato vittima del complotto organizzato dal fratello Seth e per questo annegato nel fiume Nilo. Dopo essere stato smembrato, Osiride sarebbe comunque stato riportato in vita dalle pratiche magiche delle sorelle Iside e Nefti.

    Per quanto riguarda invece il dio persiano, caratteristiche che accomunano Dioniso con Mitra fanno riferimento, forse, proprio al culto che del dio greco si aveva in Tracia, che aveva maggiori punti di contatto con i riti agrari e ctoni. Egli era, in primo luogo, visto come dio del sole e, secondo Erodoto[tooltip tip=”Interpretatio graeca VIII, 137″][5][/tooltip], la sua figura sarebbe legata a quella del cosiddetto “cavaliere tracio”[tooltip tip=”Pettazzoni 1955″][6][/tooltip], che presenta insieme caratteristiche dionisiache e solari, a cui si aggiungono gli attributi del dio guerriero e di protettore delle funzioni funerarie tipici anche del dio Mitra.

    Talvolta, punti di contatto evidenti si hanno con la figura di Cristo che, come Dioniso, è legato al concetto di sacrificio inteso come mezzo con cui l’uomo viene liberato dalla sua parte più legata al male. Entrambi sono legati alla bevanda del vino – che però viene vista in due accezioni differenti; nel cristianesimo cattolico diventa infatti il sangue di Cristo – e al concetto di rinascita, intesa nel senso di vittoria sulla morte.

    Gli esempi proposti non si pongono l’obiettivo di rappresentare in modo esaustivo il vastissimo panorama che si incontra quando si tocca l’argomento delle religioni antiche, di cui si possiedono pochissime testimonianze manoscritte e solo alcune evidenze archeologiche e antropologiche, ma possono essere utili, a titolo esemplificativo, per mostrare l’eccezionalità di Dioniso all’interno del complesso panorama delle divinità antiche. Nella religione greca, infatti, nella figura del dio si individuano contemporaneamente sia la natura di protettore dei misteri, dei riti che conducono l’uomo all’uscita dal sé nell’ebbrezza del vino, alla dissoluzione dell’identità; sia l’essenza del dio della coesione collettiva, che riunisce persone di estrazione sociale diversa[tooltip tip=”Detienne 2007, 22″][7][/tooltip].

    Jacob Jordaens, Bacco e Arianna, 1648
    Jacob Jordaens, Bacco e Arianna, 1648

    Proprio l’elemento del vino mostra come, a buon diritto, Dioniso possa essere visto come una divinità che presenta un dualismo “speciale”. Se infatti, da una parte, il vino può condurre l’uomo a contatto con il suo lato più selvaggio, piacevole e pericoloso al tempo stesso, d’altra parte è anche una sostanza che, per essere prodotta, necessita di un preciso sapere tecnico, che coinvolge le precise regole della viticoltura, di cui Dioniso si fa garante.

    Come il vino, che possiede un duplice aspetto, tutto ciò che si collega alla figura di Dioniso possiede un carattere dualistico: dalle sue sembianze che oscillano tra quelle maschili e femminili, alle creature legate al culto del dio; i satiri e i sileni, ad esempio, possiedono busto di uomo ma zampe e coda equine o caprine. Il dualismo è presente, come è stato visto, anche nella tipologia di feste dionisiache, che se da un lato promuovono atteggiamenti trasgressivi e fuori dalla norma, dall’altro cercano di ricondurre questi aspetti alla quotidianità.

    Ugualmente, le teofanie del dio corrispondono contemporaneamente al caos ctonio, quando si manifesta sotto forma di animali selvaggi, e al ritrovato equilibrio vitale, quando compare, per esempio, come vecchio. Per le sue mutazioni, Filostrato[tooltip tip=”Imagines, I, 15, 2″][8][/tooltip] afferma che Dioniso possiede apparenze multiple: proprio per questo si può affermare che è polimorfo e appare in svariate teofanie, come l’uomo barbuto, l’efebo sorridente, il toro e il serpente[tooltip tip=”Vernant,Vidal-Naquet 2001, 230″][9][/tooltip]. Secondo Mircea Eliade, Dioniso sorprende per la molteplicità e la novità delle sue epifanie, per la varietà delle sue trasformazioni: «È, senza dubbio, l’unico dio greco che, rivelandosi sotto aspetti differenti, affascina e attrae tanto i contadini che le élites intellettuali, i politici e i contemplativi, gli orgiastici e gli asceti[tooltip tip=”1979, 402″][10][/tooltip].

    Il dualismo che coinvolge la figura di Dioniso, quindi, non è di carattere ontologico, egli infatti non possiede un alter ego negativo che rappresenta il male (come avviene invece per Mitra o per altre divinità come Ahura Mazda), ma è un dualismo che talvolta si declina nel polimorfismo, che coinvolge la figura stessa del dio e che permea tutta la sua essenza e che per questo lo rende una figura differente rispetto alle altre del pantheon greco e non solo.

     


    Per approfondire:

    M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, Roma-Bari 2007.
    K. Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, Milano 1963.
    K. Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Milano 1992.
    M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I: Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, Firenze 1979.
    W. F. Otto, Dioniso: mito e culto, Genova 2006.
    R. Pettazzoni, L’onniscienza di dio, Torino 1955.
    M. Ventris, J. Chadwick (Commentary and Vocabulary by), Documents in Mycenean Greek. Three hundred Selected Tablets from Knossos, Pylos and Mycenae, Cambridge 1956.
     J.-P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia II, Torino 2001.

  • Non solo Saffo: da Corinna a Erinna di Telo, le donne greche e la poesia

    Non solo Saffo: da Corinna a Erinna di Telo, le donne greche e la poesia

    Mi sono riproposta ormai da tempo di divulgare la letteratura delle donne di tutti i tempi, che scopro con gioia è molto nutrita ma ancora poco conosciuta, a vantaggio delle voci letterarie maschili.

    Nell’antica Grecia sappiamo che vi fu un florilegio di scuole dove erano insegnate: la poesia, la filosofia, l’astronomia, la musica, il canto e tutte le scienze matematiche.

    Conosciamo Omero e le sue opere meravigliose Iliade e Odissea, Eschilo, Sofocle ed Euripide e le loro grandi tragedie ma di donne, a parte la magnifica Saffo, non si parla mai. Eppure grazie allo studio della Suda, che è una fonte enciclopedica del X secolo, si sono scoperte numerose poetesse che si sono distinte per le loro opere e le loro scuole, nelle quali insegnarono l’arte della poesia e del canto.

    Ho detto canto e sapete perché? Perché nell’antica Grecia le poesie erano accompagnate dalla musica e il piede metrico seguiva l’armonia del suono. Non sono poesie i testi di alcuni dei nostri migliori cantautori, rapper, rapsodi dei nostri giorni?

    Torniamo alle nostre poetesse e all’importanza di leggere la poesia, l’unica arte che, utilizzando la parola, come un pennello o una nota musicale, consente di dare una tangibilità oggettiva ai pensieri, alle emozioni una volta trasposte sulla carta. È attraverso la lettura della poesia che ci facciamo sorelle e fratelli di donne e uomini di altri tempi. Sentiamo sussurrare alle nostre orecchie quell’ansia di vita che è la stessa nostra, quell’insicurezza, quella pena d’amore che chi non ha provato non è umano.

    Antonella Pirozzi
    Antonella Pirozzi, Passi Silenti

    Oltre alla Suda del X secolo, dobbiamo a un altro studioso latino di età augustea Antipatro di Tessalonica la conoscenza di ben nove poetesse greche del periodo ellenistico che va dal VI al II secolo. Purtroppo di alcune di loro non è rimasto nulla se non le citazioni di altri poeti, che ne esaltano le caratteristiche. In questo articolo parleremo delle poetesse del periodo che va da VI al V secolo.

    La prima di queste è Mirtide, una poeta della Beozia vissuta a cavallo tra il sesto e il quinto secolo. Si dice che Mirtide, fosse talmente convinta delle sue capacità poetiche, da sfidare, lei donna, lo stesso Pindaro, come recitano i versi di Corinna che riporto:

    Io rimprovero l’arguta Mirtide
    che, nata donna, gareggiò con Pindaro.

    (da Non solo Saffo)

    Una donna, un’allieva che rimprovera la protervia della sua Maestra di sfidare un uomo. La condizione femminile nella Grecia di allora era di sottomissione all’autorità patriarcale. Le poche tracce rimaste degli scritti femminili, rivelano una volontà di emancipazione ante-litteram da parte di alcune di loro, che attraverso lo studio e la conoscenza seppero affermarsi nelle società greche di Sparta, Atene e nella Magna Grecia.

    Abbiamo nominato Corinna, una poetessa sempre della regione della Beozia, regione che ha dato i natali a numerose poetesse, vissuta come Mitride tra il VI e il V secolo a.C. Di lei si dice che è stata l’insegnante di Pindaro e di Corinna parla perfino Plutarco, riportando un episodio nel quale la poetessa, ascoltando i primi versi del giovane poeta, che nascondevano l’insicurezza e l’acerba abilità del poetare con uno stile troppo ricco di miti e di immagini fantasiose, lo gelò affermando:

    Bisogna seminare con la mano non col sacco!

    Odilon Redon, Orfeo, 1903-1910
    Odilon Redon, Orfeo, 1903-1910

    Al giorno d’oggi che a seminare sono le macchine, questa espressione suona strana, ma non deve distrarci dal valore dell’insegnamento. L’esaltazione del valore della parola, che non può essere di maniera, ma deve attingere i suoi contenuti dalla realtà e deve essere veicolo di Verità e onestà intellettuale, presupposto della poesia in ogni tempo..

    I primi reperti, nei quali sono stati trovati alcuni versi della poetessa, risalgono al 1906 con i due papiri trovati a Berlino, nei quali sono discretamente conservati ampi stralci delle sue composizioni poetiche -canore.

    Nel primo papiro fu trovata La gara del Citerone e dell’Elicona, un poema che, sulla scia del racconto epico, fortemente influenzato da Omero, narra della competizione poetica-canora delle due montagne, dove la prima: il mitico Citerone, vince grazie alla complicità e al volere degli dei. Un altro papiro è una raccolta di canti dal titolo Asopides, le figlie di Asopo, e racconta la storia del vaticinio di un indovino Asopo e delle sue nove figlie, che daranno origine a una stirpe di eroi.

    Un tema questo molto in voga all’epoca, per esaltare i guerrieri e la loro stirpe, così come lo usò Virgilio nella sua opera principale, l’Eneide, per esaltare Ottaviano Augusto.

    Nel 1956 è stato ritrovato il Papiro di Ossirinco 2370, che risale circa al III secolo d.C., dove di Corinna, molto nota ancora a distanza di anni, è stata ritrovata una raccolta di canti, il cui titolo, sappiamo dato dalla stessa poetessa: Feroia, parola oscura agli interpreti più illustri, che traducono come le storie narrate alle fanciulle, come dice la stessa Corinna:

    Ecco che Tersicore mi invita a cantare le belle storie ( Feroie) alle fanciulle di Tanagra dai candidi pepli, e la mia città davvero gioisce, per i canti che soavemente sussurrano. In cambio difatti delle grandi imprese, ornate di menzogne, io canto alle fanciulle i racconti del tempo dei nostri padri, in cui spesso appare il Cefiso…, spesso il grande Orione, ed i cinquanta forti e potenti giovani…

    (da Letteratura al Femminile)

    Corinna è stata un’artista molto prolifica cimentandosi con le tragedie in voga ai suoi tempi, come: Oreste, di cui sono rimasti pochi versi d’incomparabile bellezza: «il sacro splendor della luna… in mezzo ai fiori di primavera…»

    Odilon Redon, Occhi chiusi, 1890
    Odilon Redon, Occhi chiusi, 1890

    Poi ci sono frammenti delle tragedie: I Sette di Tebe, Iolao, il Ritorno e Tanagra. Per quello che è stato consentito agli studiosi di comprendere, è il messaggio morale di moderazione sia nei comportamenti sociali, sia nell’uso sapiente della poesia, che caratterizzano la poetica lucida di questa poetessa.

    Numerose statue furono erette, segno della sua fama, scomparse purtroppo nei secoli.

    Altra poetessa interessante è Telesilla, vissuta ad Argo nella prima metà del V secolo al tempo di Pausania, più giovane di Corinna, conosciuta come la poetessa guerriera, perché si racconta che con le sue poesie incitò le donne ad armarsi, per difendere Argo dall’attacco degli spartani.

    Pur non avendo ritrovato che pochissimi versi, conosciamo della grandezza di Telesilla dalle testimonianze, di coloro che apprezzarono il suo coraggio, la sua determinazione e la sua maestria nel canto e nel poetare, anche molti anni dopo la sua morte.

    Sappiamo che scrisse un’opera che raccontava il mito di Artemide che fugge Alfeo, di cui restano due versi e altrettanti due versi, che ho trascritto, di un Inno sulle nozze di Zeus ed Era:

    Tutto sanno le donne: anche come ha fatto
    Zeus a sposare Era.

    (da Non solo Saffo)

    Contemporanea di Telesilla è Prassilla di Sicione, molto apprezzata e conosciuta è al pari delle altre una sperimentatrice di composizioni metriche. Le sue piccole composizioni liriche chiamate Scòlia furono talmente conosciute da essere oggetto delle parodie di Aristofane. Scrisse anche inni, carmi conviviali, ditirambi (canti in onore di Dionisio) storie d’amore di dei e miti. Per questa sua produzione poetica fu considerata al pari di una cortigiana, dedita al vino. Eppure dai frammenti ritrovati sappiamo che ha fatto sperimentazioni metriche, tanto che il suo verso fu detto “prassileo”.

    Daniela Maria, Invisibili
    Ama Deus, Invisibili

    Il frammento più lungo è quello tratto dal carme dedicato ad Adone, che muore per il morso di un serpente, simbolo per eccellenza della caducità della bellezza, che Prassilla con indulgente dolcezza, lo rappresenta in tutta la sua infantile essenza. Interrogato nell’Ade di cosa le sia dispiaciuto di più, il giovane Adone risponde:

    La cosa più bella che lascio è la luce del sole,
    poi gli astri lucenti
    e di Selene il volto
    poi i fichi maturi
    e i pomi e le pere.

    Molti anni più tardi, sul finire dell’età classica, la prima poetessa dorica che troviamo nominata nel Lessico Suida, è Erinna di Telo, nata nell’isola di Telos, vicino a Rodi, morta giovanissima a quanto scrisse il poeta alessandrino Asclepiade di Samo, suo contemporaneo.

    Di lei restano alcuni versi del suo carme La Conocchia, scritto per la morte della sua amica Bauci, nel quale ripercorre la loro breve vita insieme, quando appunto tra risa e canti filavano la conocchia, un utensile usato per filare le fibre tessili, è il simbolo di un tempo felice, spezzato dalla morte precoce dell’amica amata.

    I versi che possiamo leggere sono stati ritrovati a Firenze nel 1929, mutilati ma hanno consentito agli studiosi di conoscere e apprezzare le opere di quest’artista.

    La brevità della vita di Erinna, sicuramente non le ha consentito di raggiungere vette più alte, così come promettevano i suoi acerbi versi. Certamente era una creatura sensibile e non sappiamo se abbia scelto di mettere fine alla sua vita, non riuscendo a sopravvivere alla perdita della sua amica Bauci. Nonostante fosse molto rovinato il papiro, possiamo leggere alcuni brani della Conocchia, tradotti magistralmente dal grande Salvatore Quasimodo:

    I bianchi cavalli smaniosi
    si levano dritti sulle zampe
    con grande strepito; il suono della cetra
    batteva in eco sotto il portico vasto della corte.
    O Bauci infelice, io gemendo piango al ricordo.
    Queste cose della fanciullezza hanno ancora calore
    nel mio cuore, e quelle che non furono di gioia,
    sono cenere, ormai. Le bambole stanno riverse
    sui letti nuziali; e presso il mattino
    la madre cantando più non reca
    il filo sulla rocca e i dolci cosparsi di sale.
    A te fece paura da bambina la Mormò
    che ha grandi orecchie e su quattro
    piedi s’aggira movendo intorno lo sguardo.
    E quando, O Bàuci amata, salisti sul letto dell’uomo
    senza memoria di quello che giovinetta ancora
    avevi udito da tua madre, Afrodite,
    non fu pietosa della tua dimenticanza.
    Per questo io ora piangendoti non ti abbandono;
    né i miei piedi lasciano la casa che m’accoglie,
    né voglio più vedere la dolce luce del giorno,
    né lamentare con le chiome sciolte; ho pudore
    del cupo colore che mi sfigura il volto.

    Lamento a Bauci[tooltip tip=”Salvatore Quasimodo, tutte le poesie, Mondadori 2013, p. 309″][1][/tooltip]

    Torneremo a parlare con altri articoli di queste poetesse e di questa poesia affascinante, che ha la consistenza dei secoli e la singolare fragilità del tempo presente.

     

    Leggi anche: La terribile attualità della Medea di Euripide


    Per approfondire:

    Non solo Saffo. Le poetesse greche antiche
    Letteratura al femminile,  Poetesse e scrittrici
    Culturamente, Corinna, il canto del mito beotico
    Poetessedonne, Erinna
    Treccani

    In copertina: Antonella Pirozzi, Passione in rosso.

  • Chanson de Roland: la geografia sentimentale dei Franchi

    Chanson de Roland: la geografia sentimentale dei Franchi

    Quando ho letto per la prima volta Ivanhoe di Walter Scott sono rimasto folgorato. Tra le pagine dell’autore scozzese ho respirato un’atmosfera da favola, fatta di cavalieri, di armi che cozzano su campi smaltati di verde, eroi che si perdono in immense foreste. Qualche anno dopo invece ho scoperto la Chanson de Roland, un poema epico risalente alla fine dell’XI secolo che mi ha suscitato la stessa sensazione di indefinito. Anche qui lo spazio era lo spazio del sogno; anzi, lo era ancora di più perché autentico: i prodi paladini di Carlo Magno lottavano in spazi immensi, indicati giusto con qualche dettaglio, perché era così che lo immaginavano gli uomini del medioevo.

    Il medioevo di Ivanhoe, quel medioevo da fiaba che tanto mi ha affascinato, non è un’invenzione dello scrittore scozzese: le sue origini affondano le proprie radici nell’immaginario medievale, cioè il modo con cui l’intellettualità dell’epoca si rappresentava. Per loro gli spazi erano simbolici, indefiniti: schiere di cavalieri, alberi che sbucano dal nulla, gli araldi e il clangore delle spade descrivono le scene in pochi tocchi, pochi attimi senza che però possiamo immaginarci un ambiente preciso. Il tempo è franto, non segue il suo corso naturale; le stesse scene si ripetono più volte, non rispettano la continuità a cui siamo abituati.

    È la battaglia prodigiosa e tremenda.
    Vi dan bei colpi Orlando ed Oliviero,
    e l’arcivescovo più di mille ne avventa,
    e certo i dodici Pari non perdon tempo,
    ed i Francesi colpiscon tutti insieme.
    A cento e a mille sono i pagani spenti,
    e chi non fugge, non ha chi lo protegga:
    vogliano o no, la vita tutti perdono.
    Lasciano i Franchi ogni miglior difesa:
    parenti e amici non potran rivedere,
    né Carlomagno che ai valichi li attende.
    In Francia scoppia una grande tempesta:
    un uragano c’è di tuono e di vento,
    di pioggia e grandine che senza fine scende:
    cadon le folgori ininterrottamente,
    c’è il  terremoto: questo accade davvero.

    La Chanson de Roland, a cura di Cesare Segre, pp. 247 – 249.

    Ciò che veramente affascina della Chanson è questo continuo rispecchiarsi tra la natura e l’essere umano, tra le condizioni atmosferiche e la disfatta dei franchi, che è anche la disfatta di Dio. Dal primo verso della lassa siamo immersi in una sequenza di attimi che immortalano prima il gesto del singolo eroe e poi subito dopo la furia degli elementi, in un continuum espressionista in cui le idee e i valori dei franchi si manifestano nella natura, con un’immediatezza tale da travolgerci.

    Miniatura raffigurante le gesta di Orlando in un manoscritto delle Grandi Cronache di Francia, XV secolo.
    Miniatura raffigurante le gesta di Orlando in un manoscritto delle Grandi Cronache di Francia, XV secolo.

    Una delle immagini che più ci travolge è quella di Durendala, l’iconica spada di Orlando, che nel corso delle lasse ci viene presentata come la più fida delle compagne con cui ha viaggiato per il mondo allora conosciuto:

    Ah! Durendala, come sei chiara e bianca!
    Quando risplendi contro il sole e divampi!
    Fu nelle valli di Moriana che a Carlo
    Iddio dal cielo per mezzo del suo angelo
    disse di darti a un conte capitano:
    e a me la cinse il re nobile e grande.
    Con te gli presi allora Angiò e la Bretagna,
    con te gli presi il Pittavo e la Mania,
    la Normandia, quale è terra franca;
    con te gli presi e la Scozia e l’Irlanda,
    e l’Inghilterra, che diceva sua stanza.

    La Chanson de Roland, a cura di Cesare Segre, pp. 335 – 337.

    In una manciata di versi attraversiamo gran parte del mondo allora conosciuto, dalla Germania all’Irlanda. La geografia che ci viene presentata è sia reale che ideale: i luoghi citati ovviamente esistono, ma non sono mai stati conquistati né da Carlo Magno né da Orlando. Come accadrà anche nella materia di Bretagna, all’autore della Chanson basta citare questi luoghi per sprigionare la loro potenza evocativa, per tracciare le coordinate di un immaginario che in quei secoli stava diventando sempre più solido.

    Il secolo XI si presenta come un crogiolo di movimenti politici e piccole rinascenze culturali durante il quale il passato carolingio viene riletto come un’epoca di ricchezza e splendore da usare come modello per la società che si stava andando a formare. Il nuovo ordine feudale, i signori dei monasteri, il commercio sempre più fiorente conducono a un maggiore circolo di informazioni, un rinnovato interesse culturale.

    Illustrazione di Simon Marmion dal manoscritto miniato delle Grandi Cronache di Francia, XV secolo, San Pietroburgo, Hermitage.
    Illustrazione di Simon Marmion dal manoscritto miniato delle Grandi Cronache di Francia, XV secolo, San Pietroburgo, Hermitage.

    Sono questi gli anni in cui prendono forma le storie degli eroi nei poemi epici e nei romanzi medievali: storie con protagonisti Sigfrido, Artù, Alessandro Magno e per l’appunto anche Orlando. Queste figure erano o figure storiche o figure leggendarie. Nel caso di Orlando ci troviamo di fronte ad una figura in gran parte leggendaria la cui realtà storica è testimoniata da poche, labili tracce. Infatti sappiamo che effettivamente Carlo Magno ebbe una sconfitta in Spagna, ma non fu dell’entità e della portata che viene raccontata nella Chanson de Roland.

    Stando alla Vita Karoli di Eginardo, nel 778 re Carlo attraversa i Pirenei per aiutare un principe arabo, Sulemain ibn Al-Arabì, nella contesa che lo opponeva ad altri emiri musulmani. Al rientro da tale spedizione l’esercito di re Carlo viene attaccato da un gruppo di montanari, probabilmente Baschi, al valico di Roncisvalle. Eginardo cita tra le vittime dell’esercito franco un certo Rolando, signore feudale preposto alla marca di Bretagna.

    Secoli dopo, nei poemi orali che venivano cantati dai giullari e dai cantastorie, le Chansons de Geste, quello che era un episodio marginale cresce sino a diventare una vera e propria guerra, alimentando così un mito, quello dei paladini di Francia. È interessante notare come anche qui ci siano degli elementi in comune col ciclo arturiano: il popolo dei britanni infatti storicamente ricopre un ruolo molto inferiore a quanto si racconta nella materia di Bretagna. È così che il racconto si carica di numerosi elementi simbolici: Carlo, che non è ancora quarantenne, diventa un vecchio dalla barba candida (evidente richiamo al Dio cristiano); la rotta di Roncisvalle da evento accidentale diviene il risultato di un tradimento; infine abbiamo la grande vittima, Orlando (altro richiamo evangelico).

    In pochi decenni il mito si diffonde in tutta l’Europa cristiana. Giullari, menestrelli e poeti viaggiano di borgo in borgo, di monastero in monastero seguendo le vie dei pellegrini e intrattenendoli con le proprie storie. Quella di Orlando è una di quelle che avrà più successo al punto da venire raccontata più volte nei secoli sino ad arrivare ad Ariosto che con L’Orlando Furioso chiude la stagione di grande fortuna del paladino di Francia.

    Miniatura medievale chanson de roland

    In modo non molto diverso da quanto avvenne nell’antica Grecia con i poemi omerici, anche in questo caso gli autori delle chanson de geste e la loro attribuzione è più mitica che reale. In questo caso vi è un unico manoscritto che cita un certo Turoldo come l’autore della Chanson de Roland. Turoldo, o chi per lui, è però solo la mano ordinatrice, colui che sistema il materiale e vi conferisce una forma perfettamente cristallina, semplice eppure fitta di rispondenze.

    In ogni caso, la diffusione fu rapida e massiccia: abbiamo decine di manoscritti in tutta Europa, dall’Italia alla Scandinavia e anche decine di traduzioni. Il successo fu insieme colto e popolare: ispirò grandi autori, ma si diffuse anche tra il popolo come dimostra il fatto che fioccarono vari nomi di battesimo come Orlando e Oliviero.

    La battaglia di Orlando sottolinea lo spirito di sacrificio di un guerriero che diventa in realtà un trionfo e di un riscatto della comunità che passa attraverso di lui; è così bella perché si nutre sì di propaganda, di quella propaganda che a noi moderni farebbe storcere il naso, ma la trasforma in qualcosa di più alto e profondo.

    Nella Chanson c’è l’epica intesa non soltanto come lotta o guerra di religione ma come capacità descrittiva di dipingere affreschi emotivi e grandiosi; quegli affreschi in cui gli spazi si rispecchiano nella figura dell’eroe e nella sua morte, delineando una geografia sentimentale, uno scenario favoloso che perde quasi tutti i suoi particolari fisici, in cui spicca il verde dei campi macchiato di rosso o l’albero a cui si appoggia l’eroe prima di spirare.

     

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    In copertina: Albrecht Dürer, Carlo Magno, 1511-13