Autore: Salvatore Ciaccio

  • Andrea del Castagno: storia di un assassino

    Andrea del Castagno: storia di un assassino

    Vasari è uno storico ma anche un creatore di leggende[tooltip tip=”Enzo FIleno Carabba, Vite sognate del Vasari, Giunti, 2021, pag. 8 e 9″][1][/tooltip].

    Così scrive Enzo Fileno Carabba in Vite sognate del Vasari, una raccolta di racconti preziosa che ridona vita alla monumentale opera di Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue sino a’ tempi nostri, altrimenti detta, per gli amici e per chi ha un numero massimo di battute in un articolo, le Vite.

    Si tratta di una raccolta di biografie dedicata agli artisti italiani a cavallo tra medioevo e rinascimento, e il primo testo di storia dell’arte che ci sia pervenuto. È un’opera ancora oggi fondamentale per chi vuole conoscere gli uomini dietro le opere d’arte, anche se in realtà in queste biografie non è semplice distinguere tra realtà e finzione, tra episodi realmente accaduti e la leggenda. Vasari è uno storico, sì, ma anche un creatore di leggende. E queste leggende non sono meno interessanti della realtà biografica dei loro protagonisti.

    Fra tutte, quella di Andrea del Castagno è una delle più appassionanti che possiamo leggere. Andrea del Castagno era un pittore fiorentino, nato probabilmente all’inizio degli anni venti del Quattrocento, e morto di peste nell’estate del 1457. Nulla sappiamo della sua prima attività artistica e del suo apprendistato. Anzi, per la verità, sappiamo ben poco di lui in generale, soprattutto se non consideriamo quanto ci racconta il Vasari.

    All’età di vent’anni lo troviamo a Venezia dove nell’agosto del 1442 sottoscrive gli affreschi della volta dell’antica abside della chiesa di San Zaccaria: è la prima opera in cui lo troviamo, anche se ancora immatura. È difficile infatti distinguere la sua mano da quella del suo collega, Francesco da Faenza. Tuttavia in quegli anni lo ritroviamo in altri cantieri in Veneto, poi in Toscana, appena fuori Firenze, dove dipinge un grande ciclo di affreschi di soggetto profano, oggi noto come Il Ciclo degli uomini e delle donne illustri, uno dei più antichi del genere in case private in Toscana. Sulle pareti possiamo ammirare i volti di scrittori che conosciamo, come Dante, Petrarca e Boccaccio, di uomini d’arme del Quattrocento e di tre donne del mito e della Bibbia per un totale di nove figure, ognuna racchiusa all’interno di una nicchia rettangolare decorata da marmi policromi.

    Andrea_del_castagno,_Monumento_equestre_di_Niccolò_da_Tolentino,_1456,_02
    Andrea del Castagno, Monumento equestre di Niccolò da Tolentino, 1456 (particolare)

    È proprio nella resa di questi ultimi e delle vesti che vediamo il virtuosismo di Andrea del Castagno, la maturità di un artista che ha visto e riflettuto sui modelli del passato e anche a lui contemporanei sino ad elaborare un suo proprio stile. Questa maturità si riconosce poi anche nella resa delle figure, molto plastiche e statuarie, caratteristica propria anche di una delle sue opere più famose: il monumentale ritratto equestre di Niccolò da Tolentino, ultimato un anno prima di morire, nel 1456.

    In questo affresco Andrea del Castagno non ricerca solo la monumentalità. Ricerca il movimento, l’attimo in cui il capitano di ventura agisce pronto a dar battaglia, il momento in cui il suo corpo è teso pronto ad affrontare fieramente i nemici. Ne deriva una violenza drammatica pari a quella che possiamo riconoscere nelle sue opere di soggetto religioso degli stessi anni come gli affreschi nel refettorio di Santa Apollonia, sempre a Firenze, probabilmente la stessa violenza drammatica che vi riconosceva il Vasari circa un secolo dopo mentre viaggiava alla ricerca di fonti, notizie e documenti per la composizione delle sue Vite.

    Come tutte le vite narrate da Vasari, anche quella di Andrea del Castagno ci racconta brevemente la sua infanzia, e poi si sofferma sulla maturità. All’inizio, quindi, incontriamo Andrea immerso in un paesaggio toscano dai tratti bucolici, ovvero Castagno del Mugello, località da cui deriva il nome con cui l’artista è conosciuto: Andrea è un bambino speciale, orfano di entrambi i genitori. Proprio per questo motivo viene adottato da un ricco zio fiorentino.

    Sin da subito Andrea mostra le sue doti di disegnatore: ad esempio, racconta Vasari, in un giorno di pioggia il giovinetto si imbatte in un tabernacolo al quale stava lavorando un pittore di quelle parti non particolarmente dotato; rimasto folgorato e trovato per caso un gessetto, Andrea comincia a dar di matto ricoprendo le mura del piccolo edificio; gli abitanti del vicinato fortunatamente si rendono subito conto delle capacità del bambino e lo riferiscono allo zio che, coscienzioso, decide di mandarlo immediatamente presso la bottega di un pittore dove potrà farsi le ossa e imparare il mestiere di pittore.

    In quegli anni l’arte si imparava così, andando a bottega, preparando i colori e aiutando il maestro a ultimare tutte le commissioni dipingendone gli sfondi o le figure secondarie, un po’ alla bisogna. A Firenze Andrea cresce e diviene un pittore piuttosto apprezzato. Per quanto il Vasari non si mostri neutro nel giudicarlo (lo descrive più di una volta, con la finezza che lo contraddistingue, come una bestia) gli riconosce un eccezionale capacità nel disegno, nel rendere gli scorci prospettici. Purtroppo, invece, Andrea non colora bene le sue opere, che a giudizio di Vasari (e non solo il suo, come vedremo) risultano piuttosto grossolane.

    Andrea del Castagno, Ciclo degli uomini e donne illustri, affresco di Pippo Spano
    Andrea del Castagno, Ciclo degli uomini e donne illustri, affresco di Pippo Spano

    Proprio mentre parla delle sue prime opere, Vasari ci apre una finestra sul carattere di Andrea: ci dice che è un uomo facile all’ira, un simulatore e un invidioso. Ci racconta, per esempio, di quella colta in cui Andrea, preso in giro da un giovanotto mentre stavano affrescando una parete, lo fece cadere giù dalle scale facendogli rompere quasi l’osso del collo. E qui vediamo che, da buon scrittore, Vasari inizia ad anticipare il fattaccio.

    Durante l’ennesimo lavoro di Andrea, racconta il buon Giorgio, il pittore incontra uno straniero, cioè Domenico Veneziano. Con straniero, va da sé, si intendono per il nostro Giorgio tutti i non fiorentini. E Vasari non li conosce molto bene, gli stranieri: di Domenico Veneziano dice pochissimo, giusto che i committenti, i Portinari, l’hanno voluto perché, in quanto veneziano, credevano potesse aiutare Andrea nel colorare adeguatamente l’affresco che avevano commissionato. I due pittori secondo loro, lavorando insieme, si sarebbero potuti aiutare e migliorare a vicenda.

    Immaginate dunque la reazione di Andrea, che Vasari ci ha già detto essere invidioso e arrogante, quando viene a sapere che è stato chiamato un pittore capace proprio in quell’arte in cui lui non eccelle. Non deve averla presa tanto bene. Essendo anche un buon simulatore e un uomo di compagnia (beveva molto, a quanto ci dice sempre il Vasari), Andrea adesca l’ingenuo veneziano e gli diviene amico.

    All’ennesima presunta offesa subita, Andrea mette in atto il suo proposito, covato in realtà da molto tempo:

    Per il che Domenico subito partito, et a’ suoi piaceri usati per la città camminando, Andrea sconosciuto nel suo ritorno si mise ad aspettarlo dietro a un canto, e con certi piombi il liuto e lo stomaco a un tempo gli sfondò, e con essi anco di mala su la testa il percosse, e non finito di morire, fuggendosi in terra lo lasciò; et a Santa Maria Nova alla sua stanza tornato, si rimase con l’uscio socchiuso intorno al disegno che avea lasciato. […] Laonde corso a ‘l rumore con spavento terribile gridando tuttavia «Fratel mio» e piantolo assai, poco gli andò che Domenico gli spirò nelle braccia[tooltip tip=”Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architetti, Einaudi, 1986, p. 417″][2][/tooltip].

    Andrea del Castagno, Ritratto d'uomo, 1450-1457 (particolare)
    Andrea del Castagno, Ritratto d’uomo, 1450-1457 (particolare)

    Non solo Andrea riesce a farla franca, assurge pure a nuova fama negli ultimi anni della sua esistenza, gli anni del ritratto equestre di Niccolò da Tolentino. Vasari conclude la vita del pittore fiorentino dicendoci che alla fine Andrea confesserà l’assassinio appena prima di spirare, divorato dal rimorso.

    Peccato che, in realtà, tutto quanto ci racconta il buon Giorgio sia completamente inventato di sana pianta. Non abbiamo infatti alcuna prova che Andrea del Castagno abbia mai ucciso nessuno. Né documenti giudiziari, né altre cronache che confermino l’accaduto. Sappiamo però un fatto curioso: il povero Domenico Veneziano morì addirittura dopo Andrea del Castagno, nel 1461, e non per mano di qualcuno ma solo perché gli uomini per un motivo o per un altro muoiono, e un giorno è toccato pure a lui.

    Sarebbe lecito chiedersi a questo punto se Vasari sapesse di stare raccontando un episodio che non era mai avvenuto. Probabilmente sì. Così come sapeva che l’Andrea bambino non aveva iniziato a fare dei bellissimi disegni in uno sperduto paesino alle porte di Firenze. Questo perché a Vasari non importava raccontare i nudi fatti, ma piuttosto raccontare degli esempi. Non vite di uomini qualunque, ma vite di uomini eccellenti, di pittori, scultori, artisti.

    Le opere di Andrea del Castagno esprimevano una forte violenza drammatica imbevuta di quel misticismo medievale che ancora ammantava il pensiero di molti uomini del Quattrocento, uomini che da poco avevano scoperto l’antichità e che ancora non ne avevano abbracciato completamente i valori come avverrà agli uomini vissuti più tardi, alla fine del Quattrocento e durante i prime anni del secolo successivo, uomini come Vasari. Forse è per questo che lo scrittore fiorentino ha scelto Andrea del Castagno come artista omicida. Le Vite, infatti, non indagano esseri umani, bensì stati d’animo.

    Non gli interessava Andrea del Castagno né come uomo, né come artista: gli interessava la storia di un assassino, la storia di un uomo che con la sua opera biliosa, grossolana, violentemente oscura lascia trasparire una vita altrettanto inquieta e violenta. Ed ecco che allora non serviva una biografia, ma un episodio leggendario.

     

    Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche Carlo il Giovane: quando sei nato non puoi più nasconderti


    In copertina: Andrea del Castagno, Assunzione della Vergine tra i santi Miniato e Giuliano.

  • America corrotta: 1876 di Gore Vidal

    America corrotta: 1876 di Gore Vidal

    Nella postfazione al suo 1876, tradotto in Italia come Emma, 1876, Gore Vidal sottolinea come sia importante conoscere la storia politica del proprio paese nel suo momento più basso, in particolar modo in un’epoca, gli anni Settanta del secolo scorso, che si sta avviando a diventare “troppo interessante e troppo poco tranquilla[tooltip tip=”Gore Vidal. Emma, 1876, Fazi Editore, Roma 2018, p. 380 (ebook)”][1][/tooltip]”.

    Il povero Gore, che scrive appunto nel 1976, esattamente cent’anni dopo i fatti che ci racconta, non aveva idea di quello che sarebbe accaduto nei decenni successivi, e dunque, nella sua prospettiva, le elezioni che videro contrapporsi il democratico Samuel Tilden e il repubblicano Rutherford Hayes raccoglievano in sé, nel loro svolgimento e nella loro conclusione, una serie di elementi che rendevano manifeste tutte le contraddizioni e la corruzione di un paese cresciuto troppo in fretta.

    L’analisi di un anno così tremendo per la storia democratica degli Stati Uniti avviene attraverso lo sguardo disincantato di uno storico, Mr. Charles Schuyler, di ritorno dalla Francia dopo una permanenza durata circa quarant’anni. Sopravvissuto alla Comune di Parigi del 1870 e a un successivo crollo finanziario appena tre anni dopo (il Panico) che investì sia l’America che l’Europa, l’anziano si vede costretto a riprendere in mano carta e penna e a vendersi come giornalista al miglior offerente per poter mantenere in una condizione dignitosa sé stesso e la figlia, Emma.

    La necessità di guadagnare qualche dollaro sommata all’ambizione di poter ritornare nella sua amata Francia lo condurranno in giro per gli States durante la campagna elettorale (da New York a Washington sino a Cincinnati) come cronista dei numerosi scandali che lordano la dignitosa storia americana da pochi anni uscita dalla guerra civile.

    Ad Emma, invece, donna che conserva il suo fascino durante tutto l’arco della narrazione, sono dedicati molti pensieri (da parte del padre) ma poche scene. La sua vicenda rappresenta la nota romanzesca del volume, per il resto dedicato alla cronaca appassionata delle vicende politiche di quell’anno tremendo.

    Le osservazioni di Charles sono quelle di un americano che ha vissuto per troppo tempo in Europa e che quindi, ormai, avverte il suo paese d’origine come alieno (ancor prima che straniero).

    New York nel 1800
    New York nel 1800

    Il racconto si apre con uno sguardo rivolto a New York, descritta a più riprese, che assume il ruolo di città-simbolico del grande cambiamento che ha investito il paese alla metà dell’Ottocento: da piccolo porto rurale il centro urbano si è trasformato in una enorme città (non ancora una metropoli!) moderna, già centro economico e culturale del paese. Gli americani che la abitano, poi, sono diventati grassi e ricchi e, soprattutto, corrotti:

    È davvero un grosso vantaggio essere ricchi, soprattutto i questo paese. Comincio ora a capire la verità della memorabile espressione del mio vecchio amico, Washington Irving: «L’Onnipotente Dollaro». Non solo è affascinante ammassare enormi quantità di denaro, preferibilmente con mezzi illegali e a spese degli altri concittadini, ma in più si gode della splendida comodità e riservatezza offerta da quelle ricchezze. In Europa siamo abituati a case magnifiche, servitù e “tong” a bizzeffe, ma un treno privato è un privilegio riservato a un imperatore. Mentre qui si tratta di un lusso abbastanza comune, per lo meno nella cerchia altolocata che frequentiamo![tooltip tip=”Ivi, p. 255.”][2][/tooltip]

    Dalle pagine del suo diario Charles ci racconta un paese che sembra un neonato vorace, la cui storia assume tutte le caratteristiche di una farsa, di un paradosso in cui la vince chi sborsa di più:

    Ancora più persuasivi dei politici repubblicani, i lobbisti delle ferrovie brulicano per il Campidoglio come vermi nel formaggio, comprando voti per Hayes alla luce del sole (hanno paura delle riforme: hanno paura di Tilden).Stanno perfino cercando di far approvare leggi speciali a loro favore in un momento in cui teoricamente il Congresso dovrebbe dedicarsi al sublime compito di eleggere il presidente[tooltip tip=”Ivi, p. 357.”][3][/tooltip].

    Il centro del romanzo sono appunto i brogli elettorali avvenuti nel 1876, anno che assume un particolare significato non solo agli occhi di Charles ma, come scritto in apertura, anche a quelli del suo autore: sono trascorsi solo cento anni dalla nascita di quella che si avvia ad essere la più grande potenza del secolo successivo, ancor meno da quelli di fondazione dei due partiti dominanti, eppure già tutti gli ideali di uguaglianza e libertà sembrano sepolti sotto le strida o, meglio, le voci armoniose e tonanti dei demagoghi che brulicano in ogni organo politico, dal Senato alla Camera al Congresso tutto.

    Gore Vidal Emma 1876

    La penna di Mr. Schuyler, poi, si sofferma anche su altri fenomeni, ad esempio quello economico legato alla costruzione delle ferrovie (particolarmente legato a tutta la serie di scandali politici) o ancora ai cambiamenti di gusto e di costume: dallo stile francese che troviamo più o meno in tutte le ricche dimore che ci vengono descritte al neogotico imperante in provincia ispirato dalla letteratura romantica[tooltip tip=”Alla base di questo non si possono non citare i romanzi di Sir Walter Scott che ebbero un’immensa diffusione anche presso il pubblico americano.”][4][/tooltip].

    A questi si sommano continui cenni alla letteratura dell’epoca (il ritratto di Mark Twain risulta particolarmente spassoso) o ancora tetre considerazioni dedicate alla crisi sociale di quegli anni:

    Ho sempre trovato strano che una nazione la cui prosperità si basa interamente sulla manodopera a buon mercato degli immigrati dia prova di tanta incrollabile xenofobia[tooltip tip=”Ivi., p. 297″][5][/tooltip].

    A questa affermazione si sommano i rilievi fatti nel corso della narrazione sulla condizione di povertà che affligge i nuovi arrivati (soprattutto italiani) che si sostituiscono nelle periferie agli inglesi e ai cinesi, i quali a loro volta hanno preso il posto dei coloni più antichi, quegli olandesi di cui ormai alla fine dell’Ottocento si stanno abbattendo le case e gli edifici pubblici al punto che del passato non rimane più quasi alcuna traccia.

    Gore Vidal ci consegna, come per L’età dell’oro (scritto più di vent’anni dopo), l’affresco di un’epoca senza tralasciare alcun aspetto o dettaglio. Lo stile scorrevole intriso d’ironia permette una lettura facile e veloce al termine della quale non si può fare a meno che riflettere sulla storia recente del nostro paese e, a margine di questa, su quelli che sono alcuni dei suoi problemi strutturali da oltre un secolo.

    È, insomma, una lettura da cui si può imparare molto.

     


    Leggi tutti i nostri articoli sulla letteratura

  • Carlo il Giovane: quando sei nato non puoi più nasconderti

    Carlo il Giovane: quando sei nato non puoi più nasconderti

    Un po’ di anni fa andai al cinema con la mia classe delle scuole medie. Il film si intitolava Quando sei nato non puoi più nasconderti, diretto da Marco Tullio Giordana.

    «Vivi nascostamente», diceva Epicuro. O meglio: «vivi passando inosservato». Questo era più semplice ai suoi tempi. Oggi sembra impossibile non lasciare alcuna traccia del proprio passaggio. Pensiamo alle nostre carte d’identità, ai nostri passaporti, ai nostri account social, e poi le liste elettorali, i conti che abbiamo in banca, gli oggetti, i registri delle camere d’albergo, i database che raccolti dalle aziende su internet… è davvero impossibile nascondersi nella nostra società. Quando sei nato non puoi più nasconderti.

    In passato, invece, si producevano molti meno documenti. Milioni di persone sono nate e morte senza aver lasciato alcuna traccia: la grande massa dei contadini e degli schiavi è vissuta come diceva Epicuro, “nascostamente”. Ma vi sono anche figure ben più ricche che continuano a sfuggirci, e di cui fatichiamo a disegnare il contorno: Cesarione, il figlio di Cesare e Cleopatra che ha ispirato la mente di Kavafis, per esempio.

    Oppure Carlo il Giovane.

    Partiamo dall’inizio. Carlo Magno lo conosciamo tutti: Carlo il Giovane è uno dei suoi figli.

    Carlo Magno fu un uomo molto virile, un uomo a cui piaceva andare a caccia, mangiare, fare all’amore con le donzelle. Il bilancio della sua attività sessuale è molto ricco: contando solo le donne e i figli di cui abbiamo certezza documentaria, sommiamo cinque mogli a sei concubine, per un risultato finale di più di dieci figli maschi e altrettante figlie femmine.

    Dalla prima moglie, Imiltrude, ebbe un figlio già nei primi anni Settanta dell’VIII secolo: Pipino, passato alla storia come il Gobbo a causa della sua malformazione fisica. Dalla seconda, la principessa longobarda figlia del re Desiderio ribattezzata da Manzoni Ermengarda, non ebbe alcun figlio; probabilmente il matrimonio durò troppo poco. Dalla terza, Ildegarda, ebbe tre figli maschi: Carlo, detto poi il Giovane (772-811), Carlomanno (777-810) e Ludovico, poi detto il Pio (778-840).

    Albrecht Durer, L'imperatore Carlo Magno, 1512
    Albrecht Durer, L’imperatore Carlo Magno, 1512

    Carlo pensò subito di assegnare a Ludovico il regno dell’Italia, e a Carlomanno, che cambiò il nome in Pipino, il governo del turbolento territorio aquitano, al confine con gli arabi.

    Il primogenito, già chiamato dai contemporanei Carlo il Giovane, per distinguerlo dal padre, invece, sembra escluso da queste responsabilità. È vero che nel 789 Carlo affidò al giovane il ducato del Maine con annesse ben dodici contee della Neustria[tooltip tip=”La parte occidentale del regno franco”][1][/tooltip] , ma rimaneva comunque una responsabilità (a cui era connessa una dignità) esigua se paragonata a quella dei fratelli. Di fatto il principe rimase per molti anni vicino al padre, cercando di non dare particolarmente nell’occhio.

    Non sappiamo esattamente il perché di questa scelta. Però, quando nell’806 Carlo Magno divide il suo regno in tre parti non uguali, pone una sorta di clausola: qualora uno dei tre figli fosse morto senza eredi, gli altri due si sarebbero dovuti dividere i suoi territori. A prima vista questa disposizione non stupisce, perché puntava, razionalmente, a conservare intatti i territori acquisiti durante una vita di guerre e lotte con popoli stranieri e non. Eppure le circostanze in cui venne vergato il documento conservano ai nostri occhi una certa ambiguità.

    Weinfurter[tooltip tip=”Insegna storia medievale nell’Università di Heidelberg. Stefan Weinfurter, Carlo Magno. Il barbaro santo, Il Mulino, Bologna, 2015 (2013)”][2][/tooltip], in un recente saggio, avanza un’ipotesi interessante.

    Se il re franco sembrava da una parte sminuire il ruolo del primogenito, pur tenendoselo vicino (e dunque, presumibilmente, amandolo) è pur vero che gli concedette ben poche possibilità di rendersi autonomo come aveva fatto con gli altri due.

    A corte dedicarono a Carlo il Giovane alcuni componimenti. Tra questi risulta essere particolarmente interessante una poesia celebrativa di Teodulfo d’Orléans, Ad Carolum Regem. Nel testo il poeta definisce Carlo “la grande speranza salvifica del regno” rivestendolo dunque di quel manto di dignità giustamente dovuto ad un principe. Lo indica però anche come “magnus puer”, cioè grande fanciullo. Considerando che il poemetto risale all’801, quando il Giovane Carlo aveva già compiuto i 29 anni, sembra non amalgamarsi bene con il resto. Perché magnus puer?

    Eugène Delacroix. Due cavalieri combattono in un paesaggio, 1824
    Eugène Delacroix. Due cavalieri combattono in un paesaggio, 1824

    Qualche anno fa la scoperta di altri versi sembra aver chiarito questa definizione e, più in generale, spiegato la marginalità nella quale Carlo relegò suo figlio. Alludendo ai più stretti familiari di Carlo se ne definisce uno mochanaz, simile, anche nel significato, all’arabo muhannat, cioè colui che in un rapporto omosessuale assume il ruolo femminile.

    Mochanaz è definito un famulus[tooltip tip=”Il famulus è un servitore che vive a stretto contatto con la famiglia (da cui il nome) che è deputato a servire. Praticamente un elfo domestico.”][3][/tooltip] di Carlo, Ostulfo, un discepolo di Alcuino di York – uno dei più grandi intellettuali del suo tempo. Sembra che nella cerchia ristretta dei suoi discepoli il rispetto e l’amore fraterno tra gli stessi non fosse interpretato da ognuno in maniera casta. Alcuino, sembra, si vide costretto ad allontanare in un secondo tempo il suo discepolo. Ma il problema di Carlo rimase e fu alla base di alcune tensioni scoppiate durante l’ultimo decennio del secolo VIII.

    Per ovviare a questa situazione di imbarazzo il re cerco di fare sposare il figlio, tra le altre, ad Offa di Marcia, una principessa inglese. Nulla da fare, Carlo rifiutava la compagnia femminile.

    Il problema maggiore per il padre (ma in questo, forse, siamo suggestionati più dalla nostra sensibilità moderna) non era tanto l’orientamento sessuale del figlio quanto l’impossibilità di Carlo di generare eredi. Quando nell’806 viene a lui affidata una parte consistente del regno (tra cui parte dell’Austrasia dove erano concentrati i beni di famiglia) la situazione del più non giovanissimo principe non si presentava rosea, anzi sembrava condannata.

    Una ricostruzione parziale dei fatti ha permesso di ipotizzare una spiegazione alla marginalità di uno dei figli di uno dei sovrani più conosciuti e ammirati del nostro medioevo europeo. Certo rimane parziale, come ogni ricostruzione storica, svuotata della pienezza dei sentimenti che questi uomini vissero.

    Carlo il Giovane non si è nascosto ma, come e più per molti altri, il trascorrere dei secoli ha cancellato le tracce di un uomo schiacciato dai tempi.

     

    Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche: Storia di un assassino: Andrea del Castagno


    In copertina: Friedrich Kaulbach, Incoronazione di Carlo Magno, 1861

  • L’età dell’oro, di Gore Vidal

    L’età dell’oro, di Gore Vidal

    Sembra impossibile leggere L’età dell’oro di Gore Vidal, riedito da Fazi, e non rimanere affascinati dalla complessità dell’affresco storico che l’autore sapientemente costruisce raccontandoci le vicende e la trasformazioni, subite e indotte, dell’impero americano negli anni cruciali del secolo scorso, quelli che hanno visto l’esplosione del secondo conflitto mondiale e la nascita dei moderni (e invadenti) media.

    Ma procediamo per piccoli passi.

    L’età dell’oro è un romanzo storico. Come i migliori esemplari del genere non si limita ad elencare, stancamente, una serie di fatti, eventi o personaggi osservandoli con freddo sguardo accademico ma cerca di rievocarne lo spirito.

    L’America del 1939, quella nella quale l’autore ci getta attraverso lo sguardo di un regista della (già allora) vecchia Hollywood muta, è una nazione decisa a rimanere fuori dal conflitto europeo che si minaccia evidente in tutta la sua drammaticità all’orizzonte: un’America isolazionista manovrata da uno dei più noti presidenti del secolo scorso, F. D. Roosevelt, personaggio di cui l’autore traccia un acutissimo profilo, attento a delinearne e a riconoscerne i pregi e più spesso i difetti. Lo circonda una selva di altre figure storiche e personaggi di invenzione, tutti più o meno blandamente impegnati a cercare di dare un giudizio sul resto del mondo, tutti marginali nell’economia del romanzo, eppure tutti, in un certo senso, imprescindibili, impossibili da sostituire.

    Gore Vidal
    Gore Vidal da giovane

    Attraverso le battute e i dialoghi dei moltissimi attori che riempiono i salotti e gli uffici di quella galleria dei sussurri che è Washington all’inizio degli anni Quaranta, l’autore ci suggerisce e ci restituisce le tensioni di un’epoca, lo slancio di una nazione che si pone, pare a sua insaputa, alla guida del mondo intero.

    Lo sguardo dello scrittore analizza tutto, dalle lotte politiche, descritte con cura e partecipazione, alle vicende che conducono alla nascita del periodo aureo del cinema hollywoodiano. Sotto i riflettori sfilano non solo i coniugi Roosevelt ma anche diversi altri politici dell’epoca quali Hoover, Truman e Hopkins affiancati dai molti divi del cinema e del teatro che sbucano fuori dalle pagine del racconto illuminando, per un momento, la scena dell’ennesimo party o della millesima conferenza.

    Tra questi sbuca, poco oltre la metà del romanzo, lo stesso Vidal quale protagonista, tra i tanti, del fermento culturale che fiorisce negli anni immediatamente successivi al 1945. In un’occasione cita, molto brevemente, la polemica suscitata dal suo primo romanzo, quella Statua di sale che aveva reso gay il più grande (e secondo la propaganda invincibile) esercito del mondo, strumento considerato necessario per garantire la pace in tutto il creato.

    L’età dell’oro può dunque considerarsi un roman à clef (romanzo a chiave) perché il suo autore ha effettivamente vissuto il momento storico del quale parla, quegli anni furiosi della guerra e della successiva ricostruzione di un ruolo degli Stati Uniti nel mondo.

    Gore vidal

    Lo stesso romanzo diviene così analisi sociologica e antropologica del popolo americano: il cappello di paglia indossato dai giovani delle famiglie per bene (e non) così in voga prima della seconda guerra mondiale scompare subito dopo; i nuovi politici imitano i personaggi del cinema; la televisione si sostituisce alla radio e ancora di più ai giornali; la paura diviene ragione per porre in opera determinate scelte politiche che si scontrano, in gran parte, con ciò che era avvenuto tra le due guerre.

    Questa analisi non si ferma alla sola America: si allarga così da abbracciare tutto l’impero sul quale la patria della democrazia (di cui, come ripete più volte l’autore, Henry Adams riconosceva l’aspirazione a divenire la nuova Atene realizzando invece solo una nuova Roma) allarga la sua influenza.

    L’età dell’oro, dunque, si trasforma: non più solo romanzo storico dedicato ad un periodo relativamente recente del nostro passato ma opera infinitamente più ampia e densa in cui l’autore ci mette in guardia su molti aspetti che permeano nel profondo la nostra esistenza. Non solo una riflessione sull’invadenza dei media, già sopra citata, quanto più un avvertimento sui pericoli di una popolazione estranea alle vicende politiche di una democrazia fatta da uomini fasulli, finti eroi e attori in cerca di una parte, di un posticino, in quel grande arazzo che è la Storia.

    Storia alla quale, come riflette ad un certo punto uno dei protagonisti, Peter Sanford, nessuno di noi può sottrarsi, nemmeno lo scrittore.

     

    In copertina: Veduta di New York, 27 Febbraio 1939 (cretits: Rare Historical Photos)


    Gore Vidal, pseudonimo di Eugene Luther Gore Vidal  (1925 – 2012), è stato uno scrittore e sceneggiatore statunitense. Ha scritto diversi romanzi, saggi, opere teatrali. È noto per aver scritto la sceneggiatura di Improvvisamente l’estate scorsa di Joseph L. Mankiewicz e Ben-Hur di William Wyler. Tra le opere più importanti: La statua di sale; Myra Breckinridge; 1876; Creazione; In diretta dal Golgota.

  • Giotto: il mito di un’arte più reale della realtà stessa

    Giotto: il mito di un’arte più reale della realtà stessa

    In una tiepida giornata primaverile, appena qualche anno dopo la metà del Quattrocento, Lorenzo Ghiberti, artista fiorentino di chiarissima fama[tooltip tip=”Tra le sue fatiche ricordo la bellissima Porta del Paradiso del Battistero di San Giovanni a Firenze.”][1][/tooltip] decise di mettere per iscritto, ovviamente ad esclusivo vantaggio dei posteri, le sue memorie e le sue conoscenze. Era già in là con l’età, coi basettoni bianchi e in possesso di una quantità di volumi non affatto disprezzabile per un uomo dalle umili origini come lui.

    Scrisse un’opera divisa in tre parti. Nella prima, ricopiando e traducendo alcuni dei libri che possedeva, raccontò la storia dell’arte antica riconoscendone l’incontrovertibile superiorità rispetto a quella medievale (che saltò a piè pari) e soffermandosi sulla descrizione di opere che mai e poi mai avrebbe potuto osservare perché perdute[tooltip tip=”Copiò, in gran parte, i libri XXXIV-XXXV-XXXVI della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Ghiberti, come in realtà anche l’uomo medievale, riconosceva agli antichi delle qualità e delle capacità che, con l’avvento del Cristianesimo, si erano irrimediabilmente perdute”][2][/tooltip].

    Nella seconda, invece, si occupò dell’arte moderna iniziando la sua narrazione dall’artista che, già secondo i suoi contemporanei, era posto all’origine della rinascenza dell’arte occidentale, ovverosia Giotto:

    In una villa allato alla città di Firenze, la quale si chiamava Vespignano, nacque uno fanciullo di mirabile ingegno, il quale si ritraeva del naturale una pecora. In su passando Cimabue pictore, per la strada a Bologna, vide el fanciullo sedente in terra, e disegnava in su una lastra una pecora. Prese grandissima amiratione del fanciullo, essendo di sì pichola età fare tanto bene [domandò] Veggendo aver l’arte da natura, domandò il fanciullo come egli aveva nome. Rispose e disse: «Per nome io son chiamato Giotto […][tooltip tip=”Lorenzo Ghiberti, I commentari (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333), Introduzione a cura di Lorenzo Bartoli, Giunti 1990, pag. 83″][3][/tooltip]

    Giuda giotto
    Giotto, Il bacio di Giuda, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1303-1305 (particolare)

    L’episodio, dal sapore aneddotico, ci presenta Giotto come un piccolo giovinetto già in possesso di quelle capacità per le quali sarà ammirato nei secoli successivi, al quale è affiancato Cimabue nel ruolo di maestro predestinato ad essere ampiamente superato (in capacità in bravura in ricchezza in fama e chi più ne più ne metta!) dal suo discepolo.

    Eppure il mito di Giotto, perché di un mito stiamo scrivendo, non è nato in una calda giornata di sole sulle rive dell’Arno dalle mani di un artista alla fine dei suoi giorni, ma molto prima. E con il mito di Giotto, oltre alla storia dell’arte moderna, nacque invero ben altro: nacquero gli artisti.

    Aspetta, cosa?

    Be’ sì. O, almeno, cominciò a diffondersi, tra le classi colte e pure a livello più popolare, l’idea che il pittore, lo scultore, l’architetto non fossero dei semplici artigiani ma qualcosa di più.

    A ben rifletterci, in effetti, il lunghissimo millennio medievale ci ha consegnato un numero tutto sommato abbastanza alto di opere, molte delle quali di clamorosa bellezza, ma quasi nessun nome.

    Sì, ogni tanto qualche nome spunta, un po’ come i funghi nella foresta nera, ma in una quantità davvero irrisoria. Insomma, il nome di un artista medievale e davvero raro, più raro di un tartufo (e di un tartufo bianco per giunta!).

    Come mai?

    L’artista, nel Medioevo (e qui ovviamente generalizziamo), non esisteva, non era riconosciuto o collocato dalla società civile divisa in classi o, come a Firenze, in Arti, all’interno di una categoria ben specifica: era un artigiano, appunto, confuso tra i fabbri e gli imbianchini, tra gli uomini che per sopravvivere dovevano sporcarsi le mani[tooltip tip=”Già dall’XI secolo in realtà è molto più facile trovare il nome di qualche artista , ad esempio Benedetto Antelami, noto per una lastra che raffigura la Deposizione all’interno del Duomo di Parma.”][4][/tooltip].

    Con Giotto qualcosa cambiò.

    Giotto, Compianto sul Cristo Morto, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1303-1305 (particolare)
    Giotto, Compianto sul Cristo Morto, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1303-1305 (particolare)

    Ne ebbero coscienza i contemporanei e, tra questi, il puntualissimo Dante che ne registrò valore e ruolo all’interno della sua Commedia:

    La cera di costoro e chi la duce
    non sta d’un modo; e però sotto ‘l segno
    ideale poi più e men traluce.

    Ond’elli avvien ch’un medesimo legno,
    secondo specie, meglio e peggio frutta;
    e voi nascete con diverso ingegno.

    Se fosse a punto la cera dedutta
    e fosse il cielo in sua virtù supprema,
    la luce del suggel parrebbe tutta;

    ma la natura la dà sempre scema,
    similemente operando a l’artista
    ch’a l’abito de l’arte ha man che trema[tooltip tip=”Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto XIII, vv. 67 -78.”][5][/tooltip].

    Il sommo coglie e sintetizza, in pochissimi versi, quella che è la capacità che segna la distanza tra l’artista e l’artigiano, ovvero la capacità del primo di imitare la Natura. Certo, il poeta fiorentino ne rileva sin da subito i limiti: se, infatti, nella mente dell’uomo l’idea è perfetta, perfetta in ogni sua parte, nella realizzazione la mano del pittore, o dello scultore, trema, dimentica ciò che è stato immaginato.

    Ciò non di meno Dante eleva la figura dell’artista, la separa da quella degli altri artigiani conferendole una dignità inedita. Il merito di ciò, in gran misura, è proprio di Giotto – citato all’interno dell’XI canto del Purgatorio assieme al suo maestro – il quale riuscì a rendere quasi tangibili i tessuti (si pensi alla Cappella degli Scrovegni) e misurabile lo spazio (già nel ciclo di storie dedicato a San Francesco nella basilica superiore di Assisi).

    Così, qualche decennio dopo, anche Boccaccio dedicò diverse righe del suo Decameron (addirittura una novella intera!) al pittore che aveva reso di nuovo grande l’arte occidentale.

    Siamo a metà della sesta giornata, quella in cui i giovani ragionano su chi riesce, con battute e risposte sempre pronte, a cavarsela nelle situazioni di maggior pericolo o negli scherzi.

    Giotto, Giudizio Universale, Cappella degli Scrovegni (particolare)
    Giotto, Giudizio Universale, Cappella degli Scrovegni (particolare)

    […] il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto. […][tooltip tip=”Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1985″][6][/tooltip].

    Ancora una volta di Giotto viene sottolineata la capacità di imitare la Natura, di dipingere delle figure che sembravano più reali della realtà stessa. L’occhio dello scrittore si focalizza sui volti dei soggetti dipinti – forse perché memore del ciclo degli Uomini illustri affrescato da Giotto a Palazzo dell’Ovo a Napoli per conto di Roberto d’Angiò, un ciclo (ahinoi!) perduto.

    Anche Petrarca ricordò diversi pittori all’interno dei suoi scritti e, in particolare, la sua ammirazione andò al senese Simone Martini, conosciuto ad Avignone.

    Citarono Giotto e i suoi discepoli così come anche i pittori senesi e romani altri autori quali Filippo Villani – cronista che scrisse durante la seconda metà del Trecento – e Francesco Sacchetti che, alla fine dello stesso secolo, compose le Trecento Novelle, dedicandone ben sei al pittore fiorentino collocato tra i grandi protagonisti della storia i Firenze.

    Quando Ghiberti decise di vergare le sue memorie, dunque, era ben conscio del suo valore di artista, del suo ruolo di guida all’interno della società fiorentina. Ormai l’artista è consapevole delle proprie capacità, ormai è pure esaltato per questo.

    Non a caso il vegliardo conclude la sua storia dell’arte moderna sciorinando un lungo elenco delle sue opere, nel quale si legge, potremmo scrivere nero su bianco, la piena consapevolezza che lo scultore ha di sé e del suo valore.

    Si pone a sugello di una nobile e ormai secolare tradizione.

     


    Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche: Il cavaliere e la spada

  • I pensieri di uno stolto, di Silvia Leuzzi

    I pensieri di uno stolto, di Silvia Leuzzi

    Io amo le belle ragazze, mi piacciono i loro corpi, emanano un profumo che mi stordisce. Queste con le quali mi lasciano sono brutte, proprio non mi piacciono. È vero che, come dice mia madre, queste brutte mi baciano ma io voglio Martina, Giulia, Jessica, bionde o more, morbide, con gli occhi dipinti dal trucco, con le minigonne.

    (Silvia Leuzzi, I pensieri di uno stolto ed altri racconti, Aurora Edizioni, p. 7)

    Giovanna Caratelli scrive, nella prefazione a I pensieri di uno stolto, breve silloge che raccoglie i racconti di Silvia Leuzzi edita da Aurora Edizioni, che non è mai semplice affrontare il tema della disabilità, intesa più ampiamente come diversità, senza scadere in abusati pietismi e patetismi vari. Una considerazione doverosa che, come la lettura dei racconti di Silvia ci testimonia una volta chiuso il libretto, non si può certamente imputare all’autrice romana.

    Leggendo le sue storie si riesce effettivamente a respirare come e a vedere come e a sentire come i protagonisti delle vicende – quelle sì impietose – in un processo di immedesimazione che risulta ancora più semplice e incisivo per la naturalezza della lingua usata (che non vuol dire lingua incolore e banale come molte volte, ahimè, capita) puntellata di accenni dialettali, espressioni idiomatiche imbastardite dall’italiano imperante dove la voce dell’autrice, sciolta in una sintassi fluida che segue gesti sguardi e pensieri come un’ombra, di fatto scompare dalla pagina.

    Questa è una qualità che mi ha notevolmente sorpreso durante la lettura: riuscire ad essere perfettamente naturali, mai eccessivi, in perfetta sintonia con i personaggi raccontati sino ad annullarsi, è indice di una forte e profonda conoscenza del tema e del soggetto trattati. E non potrebbe essere altrimenti.

    I pensieri di uno stolto, di Silvia Leuzzi

    Una capacità di mantenere l’equilibrio sul filo del rasoio, un filo infìdo, lercio e scivoloso che evita il lamento eccessivo e ridondante, schiva il disprezzo per chi non vive la medesima vita, una vita fatta di sacrifici grossi il doppio il triplo e ancora e ancora. Ma racconta comunque tutto questo e lo fa con un’incredibile forza. Lo fa calando il tutto in una realtà, quella italiana, che è davvero crudele, un deserto di assistenza e servizi, un ecatombe di affetti in cui, spesso, si ammassano ingiustizie di ogni sorta.

    Una donna con un figlio disabile non deve cercare lavoro, deve accudire la prole, che è oltretutto malata, deve immolarsi alla causa, deve salire sulla pira incandescente che brama di lambire le sue vesti e donarsi spontaneamente alla morte civile, senza un lamento ma con un sorriso.

    (Silvia Leuzzi, I pensieri di uno stolto ed altri racconti, Aurora Edizioni, p. 37)

    Il racconto con protagonista Maria Teresa, madre di Rosa, un fagottino piccolo piccolo e fragile, fragile come il cristallo, risulta il più esemplare in questo senso, il più forte e, forse, il più compiuto: l’autrice, raccontando le peripezie della povera donna e continuando sino agli anni della scuola elementare non si risparmia nel condannare uomini e istituzioni e, in particolare, l’inetto marito di Maria Teresa, Paolo. Nel far questo, Silvia rivendica alla donna il ruolo che le spetta, esaltandone l’amore e lo spirito di sacrificio, denunciandone la rassegnazione.

    I pensieri di uno stolto è un libro necessario, non un volume di denuncia, non un urlo disperato, no di certo, anche perché queste non sembrano essere le intenzioni ultime che covano nella mente dell’autrice. Abbiamo, in ultimo, la possibilità di leggere qualche racconto vero, dal profilo nitido e coerente, una manciata di vicende normali, piane (e crudeli, in fondo) nella loro quotidiana drammaticità. Non storie patetiche, mai manifestamente tragiche ma non per questo meno vere.

     


    Silvia Leuzzi ha scritto anche I temi della poesia, che abbiamo recensito nell’articolo Il duplice realismo di Silvia Leuzzi. Inoltre è una nostra autrice: qui trovi tutti i suoi articoli

  • Paul Cézanne: la geometria del reale

    Paul Cézanne: la geometria del reale

    Paul Cézanne nasce a Aix-en-Provence, città a nord di Marsiglia, il 19 gennaio del 1839. Questi sono gli anni in cui nasce, più o meno, tutta la generazione degli impressionisti, tra cui ricordiamo Manet, Degas, Renoir, Pissarro. I biografi collocano l’origine della famiglia Cézanne nel piccolo borgo di Cesana, paese che sorge sul versante italiano del Monginevro, sopra Sestriere. Il padre di Paul, Louis-Auguste, estraneo a Aix-en-Provence, prima proprietario di una fabbrica di cappelli, diviene poi banchiere nel 1847. La passione per la pittura in Cézanne cresce sempre più intensa sin dagli anni Cinquanta, sin da quando comincia a frequentare i corsi di disegno del professor Gibert, presso la Scuola d’arte di Aix. I suoi lavori sono, in quegli anni, accademici; nessun indizio traspare ancora di quelle anomalie e esitazioni che lo renderanno uno dei più sensibili e acuti interpreti della natura del secondo Ottocento.

    Ormai ventenne, in un primo momento, seguendo il volere paterno, si iscrive alla facoltà di Legge. Grande amico di Émile Zola, progetta di seguirlo, al principio degli anni Sessanta, a Parigi. Si manifesta già in questi anni quella «ostinazione nel lavoro e ombrosità, determinazione e contraddittorietà di umori» che condizioneranno, sino a tracciarne, con forti chiaroscuri, i momenti cruciali della sua vicenda artistica.

    A Parigi, all’Académie Suisse, incontra Guillaumin e Pissarro; al Louvre ammira (e studia) dai più antichi Veronese, Caravaggio, Rembrandt, Rubens sino ai più recenti e contemporanei Delacroix e Courbet. Abbagliato e stordito dal fervente ambiente parigino ritorna ad Aix, dove inizia a lavorare all’interno della banca paterna. Questo periodo non durerà a lungo, sarà piuttosto una parentesi, una pausa avvilente, del suo percorso: ritornato a Parigi ricomincia a dipingere intensamente, stavolta abbandonando completamente i dettami accademici, stravolti e annullati da una emozionalità insolita, sebbene ancora incerta e confusa, poco definita.

    Paul Cezanne, Autoritratto con la bombetta, 1885 circa
    Paul Cezanne, Autoritratto con la bombetta, 1885 circa

    Nel 1874 partecipa alla prima mostra impressionista, dopo essere stato folgorato, diversi anni prima, dal Déjeuner sur l’herbe di Manet di cui aveva apprezzato la naturale fragranza e vivezza del colore. Nascerà però, solo negli anni successivi, in Cézanne il bisogno, sorto da un problema riconosciuto poi particolarmente contingente negli impressionisti – qui il giudizio della critica d’arte successiva – di superare il provvisorio. Se infatti l’impressionista usa la luce solo come un brillante respiro che guizza e avvolge ogni oggetto, in Cézanne questa viene assorbita dagli oggetti, diviene essa stessa forma insieme al colore.

    Il pittore scava la realtà, ne ricerca l’essenza, ne indaga le forme, cerca di mantenere unita, solida, una realtà, costituita dai valori ottocenteschi, che stava andando in frantumi. Con quest’atto guarda al futuro, in profondità e in complessità. Cézanne, così come Van Gogh, riconosce la posizione dell’artista come quella di un emarginato, un individuo opposto alla società in cui vive: il secondo si lascia vincere dall’emozione, il primo comprime il sentimento, lo isola nella solidità della forma, pur non soffocandolo del tutto. Entrambi sono oggetto di studio di Picasso, rappresentando per il pittore spagnolo i due volti tormentati di un’epoca di grandi cambiamenti.

    Lo stile di Cézanne, acutamente descritto da Jacques Rivière già pochi anni dopo la morte del pittore (1906), richiama sia la classicità, una classicità che negli anni in cui opera il pittore sta affrontando moltissime crisi e l’arte giapponese (di rimando Cézanne influenza l’arte del sol Levante ancora oggi): il tratto che segna la linea, il colore, vuole scattare, ma Cézanne imbriglia l’impulso sino a cattivare lo sbalzo fremente del sentimento. Cèzanne vuole scolpire l’eterno:

    Tutto quello che vediamo, non è vero, si dilegua. La natura è sempre la stessa, ma nulla resta di essa, di ciò che appare. La nostra arte deve dare il brivido della sua durata, deve farcela gustare eterna. Che cosa c’è dietro il fenomeno naturale? Forse niente; forse tutto. Dunque io intreccio queste mie mani erranti. Prendo a destra, a sinistra, qui e là, dappertutto, i suoi colori, le sue sfumature; li fisso, li accosto fra di loro, e formano linee, ‘diventano’ oggetti, rocce, alberi, senza che io ci pensi. Assumono un volume. La mia tela intreccia le mani, non vacilla, è vero, compatta, piena.

    Paul Cézanne, la montagna Saincte-Victoire, 1904-1906
    Paul Cézanne, la montagna Saincte-Victoire, 1904-1906

    Il procedimento creativo di Cézanne non si può in realtà ridurre ad uno schema scientifico: l’astrazione comincia da una profonda conoscenza del soggetto, una conoscenza che esclude l’elemento narrativo, costituita com’è da i colori, come quelli della montagna Sainte-Victoire, dall’odore dei pini, dal verde dei prati che deve cogliersi sulla tela, mai dalla letteratura. «Il colore è il mezzo unico, specifico, del pittore.» Non è la natura stessa colore? Il pittore scrive ancora che «i colori sono l’espressione di questa profondità alla superficie, salgono su dalle radici del mondo.» Il quadro è dunque il risultato di conoscenza e emozione insieme, è l’uomo che studia la natura di cui fa parte, è l’uomo che la ricerca nel profondo; una natura non più positivistica ma immanente.

    Io sono la coscienza soggettiva di questo paesaggio e la mia tela ne è le coscienza oggettiva. La mia tela e il paesaggio , l’un e l’altro al di fuori di me, ma il secondo caotico, casuale, confuso, senza vita logica, senza qualsiasi razionalità; la prima duratura, categorizzata, partecipe della modalità delle idee.

    Con questa affermazione Cézanne pone in essere un modo moderno di intendere l’opera d’arte, ne coglie una qualità, ovvero ne riconosce la sua autonomia: il quadro è un ente a sé, una nuova realtà, un fatto altro che non nega i rapporti d’origine, anzi li conferma. Tale posizione potrebbe sembrare astrattista, colma di echi simbolisti e psicologismi vari; in verità quello del pittore provenzale sembra più un nuovo classicismo, un classicismo moderno.

    Se è il colore a costituire la natura, l’opera d’arte non può che sostanziarsi di forme, di volumi: ecco la pittura plastica dell’autore provenzale, ecco la sua pennellata asciutta, costruttiva, densa, basilare. Ne deriva la riduzione della natura a solo tre figure fondamentali: la sfera, il cilindro, il cerchio.

    Come metterli in relazione?

    La nuova soluzione della prospettiva cézanniana è, secondo il giudizio di De Micheli, il più grande lascito di Cézanne all’arte contemporanea. Questi osserva e rende gli oggetti da più punti di vista, secondo diverse prospettive simultaneamente. Ciò conduce ad inevitabili deformazioni: oggetti allungati, allargati, la linea dell’orizzonte spesso compare asservita alle esigenze del pittore, dello sguardo che coglie il mondo. Un mondo dove il pittore è disposto a sacrificare la convenzionale esattezza del contorno, senza rifarsi ad alcuna tradizione precedente.

    Paul Cézanne, La casa dell'impiccato, 1873
    Paul Cézanne, La casa dell’impiccato, 1873

    L’intensa ricerca di una nuova e vera rappresentazione della natura continua sino agli ultimi giorni di vita; sempre diviso tra la turbinosa vita parigina e la più placida Aix – sino all’isolamento a Jas-de-Bouffan, ceduta dopo la morte della madre nel 1898 – Cézanne negli anni Settanta riprende, intensificandoli, i colori del Veronese e del Tintoretto (i rossi e i gialli sono più luminosi), sceglie temi tragici, incline ad ascoltare il suo animo romantico: così Il dolore, le nubi fosche su innumerevoli paesaggi, una pittura che all’epoca è il risultato di innumerevoli influenze. Tra queste alla fine vincerà il realismo courbettiano (L’orologio nero).

    Negli anni successivi ulteriori cambi di rotta: La casa dell’impiccato, con cui partecipa alla prima mostra degli Impressionisti del 1874, dove il nuovo rapporto con la natura, meno incline alle pulsioni romantiche, tende ad una tavolozza chiara, ad una geometria delle forme che si fa strada tra la casa e il colle, nella retta del viottolo. Ancora Il Ritratto della signora Cézanne (1877) è un saggio del metodo che persegue il pittore per dipingere: non rapidi tocchi di pennello bensì colore steso a zone, strisce e accenti puri plasticamente costruttivi. Dalla fine degli anni Settanta Cézanne studierà ancora più attentamente gli oggetti, nel reiterarsi degli stessi soggetti come la già citata Montagne Sainte-Victoire o ancora nelle Bagnanti, plastiche e monumentali, ma inserite in un contesto arioso, e condurrà le fila di nuove e continue ricerche.

    È solo durante l’ultimo decennio del secolo però che Cézanne perviene al periodo che più lo qualificherà nei decenni successivi come un pittore particolarmente originale e innovatore sebbene isolato: è il sintetismo de I giocatori di carte, dove ciò che abbiamo scritto sopra si compie definitivamente. Sintesi di forma e visione. Realtà colta nella sua essenza più fonda.

    I primi del Novecento sono ancora dominati da due temi ricorrenti: la montagna Sainte-Victoire e le Bagnanti (assieme ai continui dubbi). La solidità della figura resta ma, se possibile (e lo è), il colore diviene ancora più brillante e arioso, l’aria sembra solida, sembra quasi potersi toccare sulla tela. L’apice di questo momento è costituito da Le grandi bagnanti del 1905, un quadro classico, romantico e impressionista; un quadro senza classicismo, senza romanticismo e senza impressionismo. Cézanne compie un balzo prodigioso, ricrea e ridisegna il volto dell’arte occidentale.

     


    Per approfondire:
    M. De Micheli, Idee e storie di artisti, Feltrinelli Editore, Milano 1982.
    E. H. Gombrich, La storia dell’arte, Phaidon Press, Milano 2016 (1950)
    G. S. Keyes, Reconsideration of Late Variants of Cézanne’s “Theme of Sainte-Victoire”, in Bulletin of the Detroit Institute of Arts, Vol. 77, No. 1/2, Nineteenth-Century French Art (2003), pp. 32-37.

  • Picasso: un rosa pieno di tradimento

    Picasso: un rosa pieno di tradimento

    Nell’aprile del 1904 Pablo Picasso decide di trasferirsi definitivamente a Parigi. Il luogo prescelto è un capannone in legno parte di un agglomerato di edifici, il Bateau-Lavoir, che sorge sul fianco sud-occidentale della collina Montmartre, fianco del colle che, digradando, si getta nella corrente della Senna.

    Questa non è una sede anonima o una scelta casuale per il pittore, poiché il casolare era stato centro pulsante, a cavallo dei due secoli, dell’attività artistica parigina: per quei corridoi e quelle stanze, infatti, si era sviluppato il Simbolismo francese, vi avevano trascorso le giornate diversi bohemien (Degas, Seurat) così come parte degli impressionisti oltre che scrittori, attori e commedianti di fine Ottocento.

    Ancora, assieme a Picasso, vi abiteranno diversi artisti e scrittori del periodo, i quali colonizzeranno il quartiere sino allo scoppio della Grande Guerra; tra questi Max Jacob, intimo del pittore spagnolo, diverrà uno dei più indefessi sostenitori della sua arte.

    Il trasferimento definitivo a Parigi, comunque, non implica un cambiamento nel contenuto e nella forma artistica di Picasso: il Periodo Blu, di fatti, è ancora caratterizzato da importanti influssi di pittori spagnoli quali El Greco, Valasquez, Goya e dominato da figure di emarginati e da drammi (privati e non), resi con i toni scuri e lugubri di un blu freddo e piatto. I soggetti, benché idealizzati, sono tratti con un gusto che oscilla dalla citazione colta, spesso classicistica, alla virulenza espressionistica di fine secolo.

    Pablo Picasso, Acrobata e giovane arlecchino, 1905
    Pablo Picasso, Acrobata e giovane arlecchino, 1905

    Questo periodo si conclude definitivamente solo durante i primi mesi dell’anno successivo, il 1905, quando ad una visione distorta e drammatica della realtà se ne sostituisce una più pacatamente romantica e nostalgica; quando, cioè, ha inizio il Periodo Rosa.

    In questa fase Picasso rielabora, in un’ottica novecentesca, alcuni temi e personaggi che erano stati particolarmente apprezzati dal romanticismo in poi e che vedevano una riproposizione degli attori, degli acrobati, dei saltimbanchi della Commedia dell’Arte in una nuova veste.

    Questi soggetti, simbolo dell’emarginazione e della miseria di cui è vittima l’artista nella società borghese, sono resi attraverso un rigore disegnativo molto accentuato che sfocia, non di rado, in un decorativismo aggraziato. Inoltre, spesso, sono trattati quasi come icone, icone gotiche, collocate fuori da una dimensione temporale ben definita, non più protagonisti di narrazioni didascaliche o di fatti puntuali come i soggetti degli anni precedenti, ma espressioni patetiche della difficile condizione umana. Condizione che non va accettata passivamente ma, piuttosto, posta all’origine di una lotta contro i valori che imperano e connotano la società borghese di quegli anni.

    Il passaggio si concretizza con la tela che raffigura un attore, dal titolo omonimo, in cui il soggetto sembra muoversi e respirare in uno spazio tridimensionale determinato dalla profondità dello sfondo. Anche i colori acquistano calore, i contorni risultano meno rigidi. Giusto in questi mesi, inoltre, Picasso stringe amicizia con lo scrittore Guillaume Apollinaire (intimo tra gli altri di De Chirico) e coi fratelli americani Gertrude e Leo Stein. La cerchia di conoscenze nella capitale francese si infittisce così come l’occasione di scoprire le attrattive del quartiere in cui abita il pittore, tra le quali spicca Les Cirque Medrano.

    Pablo Picasso, Famiglia di saltimbanchi, 1905
    Pablo Picasso, Famiglia di saltimbanchi, 1905

    Proprio grazie a questi circensi, giocolieri, acrobati e ballerine, amici di Picasso e al continuo reiterarsi di studi e dipinti dedicati alla figura di Arlecchino, figura già comparsa durante il periodo precedente e in cui l’artista spagnolo pare riconoscersi, il pittore spagnolo sviluppa il progetto di due tele dove intende raffigurare i saltimbanchi. Di due ne comporrà solo una, I Saltimbanchi, appunto,  opera grande più di sei metri quadri. Sotto un cielo azzurro e in uno sfondo spoglio e senza tempo inquadrato da probabili dune dai contorni sfocati, spiccano le figure delicate e spontanee dei saltimbanchi, gli amici del circo.

    La disposizione delle figure dona un equilibrio precario a tutta la scena: il gruppo di cinque soggetti a sinistra, infatti, si oppone alla donna seduta a destra immergendo lo spettatore in un’atmosfera di attesa, nell’attesa di un evento imprevisto dai contorni e dalla valenza anch’essa molto ambigua. Ogni figura è stata lungamente rielaborata dal pittore: la donna seduta era già stata il soggetto di un quadro precedente, la bambina nel primo schizzo non aveva il canestro di fiori e Arlecchino, la figura più cara all’artista, viene rielaborata sino ad assumere il profilo del pittore spagnolo.

    Alfred Barr, storico dell’arte statunitense, afferma che il periodo rosa di Picasso non corrisponde, come la fase precedente, a un momento compatto della produzione artistica del pittore spagnolo; difatti, dopo un viaggio in Olanda, la componente classica si accentua ulteriormente rispetto ai mesi precedenti, come trapela dal Ritratto di Gertrude Stein (1906) in cui i volumi del volto e della figura tutta, al di là del modello fisiognomico di partenza, risentono di una marcata influenza di Cézanne (già conosciuto ma ora studiato più attentamente) e del fascino del primitivismo, che in quegli anni comincia ad essere più insistente.

    Pablo Picasso, Ritratto di Gertrude Stein, 1906
    Pablo Picasso, Ritratto di Gertrude Stein, 1906

    Così anche L’harem (1906) sia per soggetto rappresentato che per la stesura, insieme classica e sintetica, preannuncia in germe il primo dei grandi risultati raggiunti da Picasso durante l’anno successivo: Les Doimoselles d’Avignon (1907). Nell’angolo di una stanza dai contorni appena sbozzati, connotati da colori caldi e granulosi, si stagliano figure monumentali, diverse l’una dall’altra, in cui spicca l’uomo ubriaco, evidente citazione della statuaria classica, nel modello del satiro ebbro.

    Anni dopo, nel 1909, Guillaume Apollinaire, ricorderà l’opera dell’amico di questi anni con alcuni versi particolarmente significativi, versi che ben indicheranno i caratteri e i contenuti fondamentali del Periodo Rosa, con particolare riferimento ai Saltimbanchi:

    […]
    Il più anziano aveva una maglia di quel rosa violaceo che hanno alle gote certe ragazze frasche ma vicine a morire
    […]
    È un rosa pieno di tradimento
    quest’uomo portava così sulla schiena
    la tinta infame dei suoi polmoni.

    (Guillaume Apollinaire, Un fantasma pieno di Nubi)

     

    In copertina: Pablo Picasso, La famiglia di Arlecchino con scimmia, 1905


    Per approfondire:
    G. Bora, G. Fiaccadori, A. Negri, A. Nova, I luoghi dell’arte. Storia opere percorsi. Vol. 6: Nascita e sviluppi dell’arte del XX secolo, Electa-Mondadori,Milano, 2010 (2003).
    Roland Penrose, Pablo Picasso. La vita e l’opera, Einaudi, Torino, 1969 (1958).
    L’opera completa di Picasso blu e rosa, presentazione di A. Moravia, apparati critici e filologici di P. Lecaldano, Rizzoli, Milano 1968.

  • Artemisia Gentileschi: la complicità fra donne

    Artemisia Gentileschi: la complicità fra donne

    Negli anni Settanta del Novecento la figura di Artemisia Gentileschi venne scelta dal movimento femminista internazionale come simbolo di emancipazione: se da un lato ciò ha portato ad una maggiore considerazione della sua figura, al tempo stesso  ha messo in luce più la sua vicenda biografica, alquanto rocambolesca, che i suoi meriti artistici, al punto che diversi storici dell’arte del secondo Novecento, tra cui Federico Almansi, hanno addirittura parlato di strumentalizzazione ideologica.

    L’opera della pittrice romana, in realtà, era già stata ignorata da diversi biografi e storici dell’arte che avevano scritto di arte italiana nei secoli precedenti; a volte ne facevano cenno, citavano alcuni aneddoti più o meno gustosi, nulla di più, confondendo spesso le opere di Artemisia con quelle del padre.

    Il merito di una rivalutazione della pittrice è da legare all’attività di Roberto Longhi, uno dei più grandi storici dell’arte del secolo scorso, che in un suo articolo del 1916 comincia a distinguere le opere di Artemisia da quelle del padre, Orazio, inserendole nel contesto degli anni in cui la pittrice effettivamente vive e dipinge.

    Artemisia Gentileschi Susanna e i vecchioni 1910
    Artemisia Gentileschi Susanna e i vecchioni 1610

    Cresciuta in un contesto connotato in senso artistico dalla presenza di diversi pittori che frequentavano la casa paterna, quali il manierista Giuseppe Cesari d’Arpino o il fiammingo Wenzel Coebergher, la giovane artista è, sin da subito, fortemente suggestionata dall’opera di Caravaggio, che probabilmente conosce di persona, e dal suo crudo realismo. A questa si aggiunge l’influenza del padre, artista più vicino alla pittura di maniera tipicamente romana di fine secolo e al delicato lirismo di matrice toscana.

    La prima opera a lei attribuita, Susanna e i vecchioni (1610), non mostra però un forte legame con il caravaggismo: la figura di Susanna, infatti, manifesta piuttosto il dettato del più maturo stile paterno da cui derivano il controllo disciplinato del disegno anatomico o il trattamento soffice e soffuso della luce (non ancora violentemente direzionato come quello delle opere del Caravaggio a lei contemporanee) e, in particolar modo, il dolce schema coloristico, dai toni caldi e lucenti. A dire il vero, nel disegno della mano del vecchione che si allunga verso la giovane donna e nella complicità delle due figure maschili, è possibile osservare, se non riconoscere, la citazione di una tela del Caravaggio: Giuditta che decapita Oloferne (1598-1599).

    Un’opera recentemente attribuita all’artista romana è La suonatrice di Liuto (1610-1612) in cui alcuni tratti della figura di Susanna – quali le labbra carnose o il disegno dei capelli – sembrano richiamati. Il drappeggio delle vesti, vesti pesanti, risulta quasi leggero, dinamico. Questa opera, rispetto alla precedente, muove in una nuova direzione sia nel soggetto (probabilmente derivato da alcuni studi paterni sulla figura femminile) che nei colori, più corposi e accesi rispetto alle tinte delicate del primo dipinto.

    Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1620 (particolare)
    Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1620 (particolare)

    La fase di transizione, sottolineata dagli eventi del processo del 1612 in cui padre e figlia accusarono un amico del padre, Agostino Tassi, di aver usato violenza contro la giovane Artemisia, è segnata da un distacco (fisico ancor prima che artistico) di padre e figlia. Nella Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613), ora a Napoli, il disegno dei soggetti ricorda diversi quadri del padre mentre l’ambientazione declina verso atmosfere più grottesche, dall’impianto teatrale di matrice caravaggesca. La tela è la prima dove la Gentileschi decide di affrontare questo soggetto e, inoltre, è il primo dove si evidenzia quella complicità fra donne che segnerà, d’ora in avanti, parte della produzione della pittrice romana.

    L’attenzione a questo tema, quello della complicità femminile, deriva probabilmente dal trauma dello stupro subìto dall’artista qualche anno prima: secondo le carte del processo, di fatti, Tuzia, vicina e amica d’infanzia di Artemisia, fu complice di Agostino. Amaramente delusa, tradita, l’artista decise di raffigurare le eroine dei suoi quadri accentuandone il sentimento di complicità e di solidarietà.

    Ritornando alla tela, la fonte specifica di Artemisia, in questo come anche in altri casi, fu proprio la Giuditta di Caravaggio già citata in Susanna e i vecchioni. La pittrice, nella sua Giuditta, accentuò il realismo caravaggesco sino a pervenire, nell’esplosione della violenza del gesto, ad esiti orrorifici successivamente mai più raggiunti.

    Dopo gli eventi del processo Artemisia partì alla volta di Firenze dove rimase ospite, cortigiana, di Cosimo II de’ Medici. Questo soggiorno, prolungato per alcuni anni, infonderà nell’opera dell’artista nuove fugaci influenze – legate alla visione delle tele del Bronzino o ancora di altri pittori di maniera – che si innestano su un caravaggismo di fondo che rimane verace seppure un po’ mitigato dal colorismo fiorentino e dall’attenzione al disegno propria degli ambienti artistici fiorentini dei primi decenni del Seicento.

    Artemisia Gentileschi, GIaele e Sisara, 1620
    Artemisia Gentileschi, GIaele e Sisara, 1620

    La prima commissione fiorentina di cui si ha notizia è l’Allegoria dell’Inclinazione, opera che risale al 1615 in cui il nudo femminile è realizzato in maniera incredibilmente realistica, tanto da essere giudicato troppo carnale qualche anno dopo e quindi coperto da dei panni per volere del committente, il bisnipote di Michelangelo Buonarroti. Il volto, che sembra rapito da una meditazione estatica, è sottolineato nelle membra e nel volto da una luce diffusa, brillante. La Giuditta (1620), ora agli Uffizi, sembra, dalle fonti, da considerarsi l’ultimo lavoro realizzato nella capitale toscana: rispetto alla trattazione precedente si nota l’uso di una tavolozza più complessa e un gusto che ritorna a compiacersi di toni più drammatici, di nuovo più caravaggeschi.

    Si trasferisce a Genova per un breve periodo. La città cosmopolita le dà occasione di trarre nuovi spunti per i suoi quadri che ritornano, però, ad una più marcata influenza paterna. Nel ’22 è di nuovo a Roma dove si fermerà sino al 1630. A riprova del tema della solidarietà femminile nel ’25 Artemisia esegue il dipinto di Giuditta e la fantesca, riconosciuto dalla critica come uno dei capolavori del barocco caravaggesco. Nel quadro l’artista sottolinea la drammaticità dell’azione grazie ad un uso sapientissimo del chiaroscuro e nella scelta di rendere Giuditta come una figura vigorosa, imponente, affiancata dalla serva. Giuditta risulta in questo caso determinata, forte nel gesto che la vede protagonista.

    Le alterne vicende di Artemisia, negli anni successivi, la condurranno, tra le altre mete, anche in Inghilterra alla corte di Carlo I. La sua produzione sarà sempre dominata dal fantasma di Carvaggio mentre accoglierà di volta in volta nuovi spunti, tratti dalle esperienze contingenti. La sua creatività arderà ancora per alcuni anni sino a spegnersi negli ultimi anni di vita quando, povera, morirà a Napoli poco dopo lo svoltare del secolo.

     

    Se l’articolo ti è piaciuto, leggi tutte le nostre storie sull’arte figurativa


    In copertina: Artemisia Gentileschi, Giuditta e la fantesca, 1625

    Per approfondire:
    Tiziana Agnati, Artemisia Gentileschi, “Art Dossier”, Giunti Firenze, 2001.
    Carlo Bettalli, Giuliano Briganti, Antonio Giuliano, Storia dell’arte italiana, Bruno Mondadori Milano, 2009 (1990)

  • Le intermittenze della morte: Saramago e l’immortalità

    Le intermittenze della morte: Saramago e l’immortalità

    Sì, caro lettore, forse la morte è un tema che mi ossessiona (come testimoniano alcuni miei articoli precedenti), forse perché nella realtà in cui viviamo non possiamo fare a meno di scrutarla, osservala, analizzarla, riesumarne le tipologie e le modalità, da vicino tra le pagine dei quotidiani e le diverse testate giornalistiche; forse perché come ognuno di noi, lettore o scrittore, consumatore della vita, la incontro di giorno in giorno, nuova eppure vecchia compagna.

    Quindi, qualche mese fa, spulciando tra gli scaffali di una mia amica, mi saltò subito agli occhi, fui attratto come lucciola, mi soffermai (o meglio il mio sguardo indugiò abbastanza lungamente) sul titolo seguente: Le intermittenze della morte. Le intermittenze. Della morte. Intermittenze?

    Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti un enorme turbamento, cosa del tutto giustificata, ci basterà ricordare che non si riscontrava notizia nei quaranta volumi della storia universale, sia pure che si trattasse di un solo caso per campione, che fosse mai occorso un fenomeno simile, che trascorresse un giorno intero, con tutte le sue prodighe ventiquattr’ore, fra diurne e notturne, mattutine e vespertine, senza che fosse avvenuto un decesso per malattia, una caduta mortale, un suicidio condotto a buon fine, niente di niente, zero spaccato.

    (José Saramago, Le intermittenze della morte, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2012, op. cit. p. 13)

    Si definirebbe un miracolo. Non potrebbe chiamarsi in altro modo, dopotutto. In un paese non meglio identificato (come in ogni narrazione fantastica che si rispetti) la signora dal lungo manto di tenebre e dalla falce ancora più lunga e affilata non ammazza più nessuno. Certo, lo scrittore non suggerisce un idea patinata di immortalità, non è affatto gentile con chi dovrebbe passare all’Oltremondo e invece resta a insudiciare la superficie del globo. Resta come non-morto, in uno stato sospeso.

    No, non parla di zombie. almeno non come li intendiamo noi, come si sono imposti nel nostro immaginario.

    Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo
    Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo

    Ma, riallacciandomi all’incipit dell’articolo, José Saramago (Nobel nel 1998) tratta uno degli argomenti più angoscianti e definitivi con un linguaggio nuovo, con una certa immediatezza e freschezza che mi ha profondamente stupito (un po’ come il film Her di Spike Jonze).

    Nella prima parte della sua narrazione fantastica Saramago approfondisce, non senza una buona dose di ironia e retorica, la reazione dei singoli soggetti al mitico-meraviglioso evento, dilungandosi in un elenco sciolto e scomposto sui diversi modi di affrontare un fatto, una realtà che effettivamente non si è mai registrata lungo i vari nodi del filo di Arianna che è la storia. Semmai si è registrato, più volte, un aumento del nero flagello, mai l’assenza di quell’unica certezza.

    Dunque come reagire alla cessazione della morte?

    Questo è sicuramente un quesito paradossale. Dovremmo reagire con gioia (come effettivamente capita nei primi capitoli del racconto), dovremmo essere sommersi da una scarica di felicità intensa e persistente; potremmo riporre nel cassetto quell’orrore che ci marcisce dentro e, in molti casi, ci consuma. Potremmo salutare, dire addio al supremo dolore, all’assenza del caro estinto e rallegrarci, infinitamente gioire di quella luce perpetua che ci arde dentro e che è vita.

    Ma ne siamo così sicuri?

    Saramago, molto semplicemente, sembra accennare di no. Lungo il primo centinaio di pagine anzi insiste nel sottolinearci la necessità della morte, del cambiamento generazionale, del continuo flusso che non può (in realtà si, nella sua finzione) ne deve essere interrotto.

    Josè Saramago, Le intermittenze della morte

    Il messaggio dell’autore, all’epoca della stesura del racconto, già ottantenne, si trascina piano (ma vario) seguendo gli umori di una prosa cristallina ma slegata da fissità dialogiche o descrittive, fluida e semplice. Questo sino a quando non entra in scena la grande assente.

    La seconda parte della narrazione si focalizza proprio sugli umori, oserei scrivere sentimenti, della donna (sì, la morte è incontrovertibilmente donna, Saramago lo precisa sin da subito) che ha deciso di prendersi quella che banalmente  e modernamente definiremmo una lunga pausa di riflessione.

    Nulla di nuovo o particolarmente interessante: la seconda parte del racconto corre infatti piana verso la conclusione poetica, risulta priva di mordente ma, dopotutto, riesce a raggiungere l’obiettivo dell’autore: rendere la morte vulnerabile, piccola, priva di tutta quella capacità di angosciare l’animo umano; anzi, la rende, in fin dei conti, completamente umana.

    Ora, le intenzioni del narratore portoghese sono evidenti sin dalle prime parole e le vicende raccontate, tutte allegoriche, infarcite di maschere e personaggi senza nome non fanno altro che affermare più e più volte non solo la necessità della morte, quanto l’inutilità diretta al timore che proviamo per lei.

    Certo, Saramago, grazie alla magia di cui solo le parole sono capaci, riesce a farci conoscere l’inconoscibile, riesce ad infonderci una deliziosa, malinconica serenità durante la lettura, una beatitudine d’animo che perdura anche giorni dopo aver concluso il nostro viaggio tra le pagine del suo racconto.

    Sembra scontato che Le intermittenze della morte, scritte ad un’età così veneranda, assolvano al compito di quietarci e di prepararci, senza timore, all’ultima, viva esperienza, che ognuno di noi è chiamato ad compiere, che risulti essere una, soffice, affettuosa pacca sulle nostre spalle, un lungo, a tratti radioso incoraggiamento a non temere nulla e ad accettare con somma serenità una condizione che ci rende tutti uno più vicino all’altro, tutti umani.

     


    Se questo articolo ti è piaciuto, leggi anche Nessuno si salva da solo: ecco come ce lo dice José Saramago

  • Diceria dell’untore: Bufalino e il dolore di sopravvivere

    Diceria dell’untore: Bufalino e il dolore di sopravvivere

    Mio zio è sempre stato un uomo attento alle proprie letture. Al punto che, da impiegato di banca, divenne uno storico innamorato della sua terra, la Sicilia, e di Sciacca, di cui racconta le vicende quattrocentesche. Non c’è da stupirsi se, quando gli feci leggere un mio primo racconto, chiosandone la lingua e lo stile, mi suggerì Gesualdo Bufalino: uno spirito acutamente poetico, cangiante e tragico come solo alcuni siciliani, a volte, possono essere.

    Gesualdo Bufalino, classe 1920, traduttore, insegnante colto, davvero molto colto e timido, venne su a pane e poesia; in particolare poesia e cinema francese. In un’intervista rilasciata all’amico Leonardo Sciascia, tra le prime, ricorda: «Solo dopo la guerra entrai in una buccia più vera di una civiltà seducente: e furono allora Montaigne e Pascal, gli illuministi… Mi sento, e sono, un francesista selvaggio, dimezzato[tooltip tip=”G. Bufalino, Diceria dell’Untore, Bompiani, Milano, 2015 (1981), cit. p. XLIX.”][1][/tooltip]».

    Il francesista selvaggio e dimezzato, però, esordì tardi con un proprio romanzo. Anzi, quello di Diceria dell’untore fu un esordio accidentato e forzato: fu Elvira Sellerio ad insistere per la pubblicazione del libro, quando Bufalino ancora si ostinava a tenerlo nel cassetto da circa un decennio, perfezionandolo e meditandolo.

    O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi… Da che?  Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; […][tooltip tip=”Gesualdo Bufalino, Diceria dell’Untore, Bompiani, Milano, 2015 (1981), cit. p. 7″][2][/tooltip]

    In poche righe si schiude, davanti i nostri occhi avidi, lo spirito, l’idea di finzione, di barocco macabro, che trasuda da ogni singola pagina. Il racconto, ambientato nell’immediato dopoguerra, si svolge seguendo la consunzione dei suoi protagonisti, vere maschere tragiche intrappolate fuori dalla corrente della vita, reclusi in una metaforica isola. L’isola è un sanatorio, la Rocca, sito nella valle palermitana della Conca d’Oro, dove si cura la tubercolosi.

    Diceria dell’untore è infatti la testimonianza di un viaggio nella malattia. Non una malattia qualunque, ma una malattia mortale, terrificante per l’epoca, in cui chi vi si ritrova soffre una doppia esclusione: l’esclusione dai sani e l’esclusione dagli altri malati. Il protagnista, di cui non sappiamo il nome, si dibatte nell’angoscia, nell’isolamento: ciò che prova è il dolore della sopravvivenza. Come un soldato disertore, come colui che manca all’appello, (quell’appello di morte verso cui tutti, rassegnati, scivolavano) vive il senso di colpa di sopravvivere ai compagni. Chi sopravvive, ne esce dimezzato, perché continua a vivere etenamente una dimensione di morte, anche quando il corpo riacquisisce vigore e forza. Anche quando si libera dalle catene:

    M’aspettava una vita nuda, uno zero di giorni previsti, senza una brace né un grido. Uscire mi toccava dalla cruna dell’individuo per essere uno dei tanti della strada, che amministrano umanamente la loro piccola saviezza d’alito e d’anni. Ma, allo stesso modo dell’istrione in ritiro che ripone nel guardaroba i corredi sanguinosi di un Riccardo o di un Cesare, io avrei serbato i miei coturni, e le tirate al proscenio dell’eroe che avevo presunto di essere, in un angolo della memoria[tooltip tip=”Op. cit. p. 133″][3][/tooltip].

    Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo
    Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo

    Dunque, la liberazione, l’essere scagionato, si riduce per Bufalino ad essere la prosecuzione di una colpa, o meglio del ricordo di una colpa, da cui si può sfuggire solo con una grigia sequela di atti anonimi, e nemmeno l’amore per una donna, malata come lui, tra le calde e sterili mura della Rocca, può dargli conforto.

    Il nostro autore, a differenza dell’amico Sciascia, così teso a raccontare e dipanare la corruzione e la politica siciliana del secolo scorso, si ritira in un tragico cantuccio, una dimensione intima, in cui le sensazioni attanagliano, in un reflusso continuo, la sua mente, giocando a nascondino tra le ombre. Una dimensione di appiattimento, quasi d’ingranaggio, che Bufalino riprende dalle sue letture[tooltip tip=”Bufalino fu anche un mirabile traduttore dei Fiori del Male di Baudelaire, per esempio”][4][/tooltip], e che condensa in un hic et nunc drammatico ma compiaciuto, in un gioco che solo a tratti ricorda La montagna incantata di Thomas Mann, e che prende sottobraccio, anche se da lontano, la Recherche proustiana.

    La sua arma è la lingua, una lingua fortemente letteraria e preziosa, una lingua poetica che si nutre di figure retoriche e spostamenti linguistici, di giochi ritmici spesso azzardati, fuggendo la chiarezza.

    In tutto il romanzo, Bufalino rimane ambiguo, dirige la luce, come ogni bravo scrittore (o pittore) solo su ciò che gli interessa: infatti scrive una diceria, una chiacchiera di poco conto che non sarebbe dovuta pervenire negli annali della letteratura italiana eppure è lì e si rivela a noi «come la notizia di un naufragio, in una vecchia bottiglia, a un solitario guardiano di faro[tooltip tip=”Op. cit. p. 44″][5][/tooltip]», un frutto che si scioglie subito in bocca ma che ci strega con la sua ricchissima, amara, artificiosità, che si lascia ammirare come il trofeo su un piedistallo al centro di un palcoscenico rubato alle ombre.

     


    L’articolo ti è piaciuto? Leggi anche Le menzogne della notte.

  • Cronica di Anonimo Romano: la vita di Cola di Rienzo

    Cronica di Anonimo Romano: la vita di Cola di Rienzo

    Durante gli ultimi mesi del 1357 e i primi dell’anno successivo, un oscuro personaggio di origini romane di cui non conosciamo né il nome, né la condizione sociale, scrive uno dei testi tra i più importanti del nostro Medioevo,

    Nel prologo, il nostro autore indica la sua opera con lo schietto nome di Cronica, un genere letterario di grande successo durante il lungo millennio medievale, un insieme di opere che ci consentono oggi di ricostruire, se presenti e affidabili, parte della nostra storia e dei nostri costumi.

    Oltre che fonte storica, la nostra Cronica è un documento di singolare importanza da un punto di vista linguistico poiché testimonia il dialetto romanesco del Trecento, ovvero ci consente di studiare la lingua di Roma prima che questa venga profondamente influenzata dal fiorentino nel corso del Rinascimento.

    Ma cosa ci racconta il nostro autore? Quale metodo utilizza nella scelta dei fatti da narrare?

    In tal senso, come spesso capita nella storia della letteratura, è fondamentale la dichiarazione contenuta nel primo capitolo:

    Quello che io scrivo sì ène fermamente vero. E de ciò me sia testimonio Dio e quelli li quali mo’ vivo con meco, ché le infrascritte cose fuoro vere. E io le viddi e sentille: massimamente alcuna cosa che fu in mio paiese intesi da perzone fidedegne, le quale concordavano ad uno.

    (Anonimo Romano, Cronica, a cura di Giuseppe Porta, Milano, Adelphi 2010. Prima edizione 1979. p. 5)

    Dunque il nostro autore riporta solo ciò che ha visto o ciò che gli è stato raccontato da soggetti affidabili e in questo non differisce molto da tante altre dichiarazioni di metodo proprie del genere storiografico. Ciò in cui la nostra Cronica si distingue, rispetto a quelle contemporanee, è l’oggetto della sua indagine: non si tratta infatti di una storia universale, ma si sofferma solo sulla città di Roma, e su avvenimenti recenti.

    Veduta di Roma nel Quattrocento, affresco. Mantova, Palazzo Ducale. Particolare
    Veduta di Roma nel Quattrocento, affresco. Mantova, Palazzo Ducale. (Particolare)

    L’Anonimo Romano (così viene chiamato il nostro oscuro autore), però, pur circoscrivendo la sua attenzione solo alla città, parte da questa per abbracciare quasi tutto il Mediterraneo, raccontandoci quegli eventi che si sono intrecciati con , i destini della città: battaglie, gesta cruente, nobildonne e uomini chiusi nel ferro, ambasciate e tradimenti.

    Questo fantastico intreccio di avvenimenti, però, è in gran parte scomparso: solo pochi capitoli sono arrivati fino a noi, e i brani meglio conservati ci raccontano la parabola di un personaggio davvero singolare e importante della storia medievale di Roma: Cola di Rienzo.

    Cola de Rienzi fu de vasso lenaio. Lo patre fu tavernaro, abbe nome Rienzi. La matre abbe nome Matalena, la quale visse de lavare panni e acqua portare. Fu nato nello rione della Regola. Sio avitazio fu canto fiume, fra li mulinari, […]. Fu da soa ioventutine nutricato de latte de eloquenzia, buono gramatico, megliore rettorico, autorista buono.

    (op. cit. p. 104)

    Insomma, il nostro autore traccia il profilo di un grande personaggio al quale va tutta la sua simpatia, di cui loda o rimprovera di volta in volta gli atti.

    Nicola, infatti, da semplice notaio si ritrova ad essere il perno politico di Roma durante gli anni centrali del secolo a seguito di un’intelligente campagna iconografica e dell’appoggio pontificio, allora ad Avignone. Il nostro Anonimo è proprio lì, tra la folla dei romani che idolatrano l’uomo del popolo, che con poche parole è capace di incendiare i loro animi, di rubare i loro cuori e imbrigliare i loro pensieri.

    I successi di Cola sono plurimi: la proposta di diversi ordinamenti volti a migliorare la situazione del popolino, tra i quali spicca il lodevole tentativo di reprimere la violenza privata e pubblica oppure il nuovo stato di benessere che si propaga anche nelle campagne romane una volta divenuto Tribuno del popolo romano.

    Cronica di Anonimo Romano

    Certo a questi grandi risultati fanno da contraltare gli eventi di subito successivi: non solo la confusa e violenta lotta contro i baroni ma anche un cambio di rotta dello stesso Cola fecero fallire la sua proposta di governo.

    La prima fase della sua parabola si conclude nel 1347 quando, linciato dalla folla aizzata dai baroni romani, tra i quali spiccano gli Orsini, una delle maggiori famiglie nobili d’Italia, si chiude in Castel Santangelo, spaventato e con la coda tra le gambe. Al comando della capitale ci sono di nuovo i baroni.

    Lo iato della sua assenza si prolunga sino al 1353, gli anni subito successivi alla prima grande ondata di peste; le condizioni del popolo non sono di certo le migliori così come non lo sono, alla fatta dei conti, le intenzioni di Cola. La sua Ars oratoria infatti gli consente di riottenere un ruolo di prestigio e di guida per il popolo romano anche se solo per pochi mesi.

    Perché la sua nuova impresa precipita in meno di un anno?

    Come scrive il nostro autore, il vizio e la tracotanza avevano ormai rotto l’animo del tribuno, il quale sarà brutalmente ucciso, in un impeto di sconcertante violenza, proprio da quei romani che aveva certamente tanto amato ma anche irrimediabilmente tradito. A lui le ultime parole del mio intervento:

    Omo (Cola) eracomo tutti li aitri, temeva dello morire. Puoi che deliverao (decise) per meglio de volere vivere per qualunche via potéo, cercao e trovao lo muodo e·lla via, muodo vituperoso e de poco animo. […] Misticaose colli aitri. Desformato desformava la favella. […] Passata la uitima porta uno se·lli affece denanti e sì·llo reaffigurao, deoli de mano e disse. «Non ire. Dove vai tu?» […] Allora l’uno, l’aitro e li aitri lo percuoto. Chi li dao, chi li promette. Nullo motto faceva. Alla prima morìo , pena non sentìo. Venne uno co con una fune e annoaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo. […] Per questa via fu strascinato fi’ a Santo Marciello. Là fu appeso per li piedi  uno magnaniello. Capo non aveva. […] Grasso era orribilmente, bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello.

    ( op. cit. pp. 196-197).

     

    Leggi tutti i nostri articoli sul medioevo


    In copertina: Federico Faruffini, Cola di Rienzo, 1855