Nonostante siano passati più di centocinquant’anni dalla prima pubblicazione de La nascita della tragedia, risulta ancora difficile superare l’immagine rassicurante e consolidata di una grecità solare e composta. La fondamentale lezione di Friedrich Nietzsche sulla dualità indissolubile tra apollineo e dionisiaco – opposti antitetici e speculari ma sempre in relazione, entrambi fondamenti costitutivi della cultura greca – è stata ormai accolta nella riflessione accademica, ma stenta ancora a venire riconosciuta nell’immaginario diffuso. Il grande pubblico fatica a staccarsi da una visione stereotipica della classicità, fatta di marmi bianchi e tuniche paludate, gesti misurati e toni retorici, quasi che all’Ellade di carne ed ossa se ne sia sostituita una di idee platoniche, la Scuola di Atene di Raffaello come ritratto dal vivo. Questa discrepanza tra una grecità sognata e la Grecia letteraria si ripropone con ancor più prepotenza quando ci si avvicina al teatro classico.
La messa in scena di un dramma è sempre un’operazione complessa: occorre mediare tra i codici di riferimento del pubblico originario e di quello attuale, rendere accessibili i contenuti del testo senza spiattellarli né svilirli, trovare il delicato equilibrio – che varia di spettacolo in spettacolo – tra il senso proprio del dramma e quanto la messa in scena vuole dire con quel testo. Per il teatro attico si aggiunge un’altra sfida: restituire vita – nel suo aspetto più pulsante e viscerale – ad un genere che più di tutti ha sofferto di un’immagine imbalsamata, coperto da una patina polverosa di malintesa solennità. Troppe sono le rappresentazioni che, cercando malaccortamente di restituire un’aulica fedeltà al testo greco, hanno finito con l’imbalsamarlo dietro una retorica soffocante; tanto nei testi – dove eccessi di smania filologica e ricerca poetica finiscono col dimenticare che una battuta deve poter essere detta prima che letta – quanto nella recitazione – che spesso confonde ieraticità con pesantezza – si rischia di cadere in operazioni autoreferenziali, incapaci di arrivare al pubblico.
È paradossale che proprio nel teatro si fatichi a riconoscere quella lezione che Nietzsche riscoprì a partire dal teatro: che l’apollineo è indistricabile dal dionisiaco, che il luminoso non può essere separato dall’oscuro, che l’elemento ctonio è tanto presente quanto quello celeste. Ignorare questi elementi vuol dire privarsi della possibilità di comprendere a fondo la tragedia greca, capolavoro fondato appunto sulla contraddizione e sulla dicotomia irriconciliabile; e se per alcune tragedie questo ci priva di alcune tessere del mosaico, per altre il quadro stesso risulta deformato.
La Medea di Euripide è forse l’esempio più lampante di quanto l’aspetto razionale e luminoso siano insufficienti per conoscere appieno la grecità, e non soltanto perché il nucleo della tragedia – una madre assassina che uccide i propri figli per vendicarsi del marito traditore – rifugge a qualunque nostra ragione. Medea è donna, straniera e strega, sacerdotessa barbara di divinità oscure, l’Altro inconoscibile alle frontiere del mondo ellenico: la sua vicenda, la dualità con Giasone – quintessenza dell’eroe greco – è un’incarnazione vivente della dicotomia tra apollineo e dionisiaco.
È da questo sostrato che prende le mosse la Medeja presentata ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen di Grenoble[1], palcoscenico obbligato per questo spettacolo. Si tratta infatti di una coproduzione realizzata da Studio Novecento e Mažoji Teatro Akademija di Vilnius, due realtà conosciutesi proprio nella cornice del Jeune Théâtre Européen; un lavoro sorto dalla collaborazione di esperienze e poetiche, con la partecipazione di attori ed attrici di entrambe le compagnie, nel pieno spirito di condivisione ed incontro dei Rencontres di Grenoble. Ma questa coproduzione non è stata soltanto l’occasione di lavorare assieme per due compagnie che si conoscono da molti anni e condividono una certa estetica teatrale: tanto per le somiglianze quanto per le differenze, è l’incontro di questi due mondi lontani ad aver plasmato questa Medeja.
Con l’eccezione infatti dei monologhi di un solo personaggio – tradotti in inglese per fornire degli elementi di contesto al pubblico internazionale del festival – tutto lo spettacolo è recitato alternativamente in italiano e in lituano dagli attori e dalle attrici delle due compagnie, assegnando ad ogni personaggio la sua lingua. Questa decisione rende plasticamente sulla scena il tema cruciale dell’incomunicabilità: è un dialogo tra sordi quello tra Medea e Giasone, un contatto che non diventa mai un incontro, due mondi che si respingono senza mai cercare di comprendere il reciproco punto di vista, letteralmente senza mai sentire le ragioni dell’altro.
Questo elemento non illustra solamente il nodo dell’estraneità e della lontananza geografica. Riprendendo un tema già proposto in alcuni dei suoi ultimi spettacoli, Marco Pernich affronta la scomparsa del sacro da un mondo sempre più secolarizzato e materialista, in cui l’Invisibile e il Trascendente vengono marginalizzati da una società incapace di concepire alcunché al di là dell’immediato, di riconoscere l’esistenza di valori che vadano oltre al profitto.
La terra da cui viene e cui ritorna Giasone dopo la sua conquista non è l’Ellade eroica del mito, ma la Grecia paesana e piccoloborghese delle poesie di Ghiannis Ritsos, una cartolina squisitamente neorealista che ridimensiona le vuote ambizioni dell’eroe e restituisce alla giusta prospettiva le sue stridenti vanterie; un impietoso ritratto di una modernità tronfia e convinta della sua benevola superiorità, sprezzantemente incredula nel riporre la propria fede nella ragione materiale e nella realizzazione personale. A scontrarsi con queste fatue presunzioni è il mondo irrimediabilmente arcaico di Medea, un mondo certamente arretrato e barbarico, terrorizzato dal futuro e destinato a svanire nel tempo, ma dove si conserva ancora la prospettiva di un Oltre, la fede in un Ordine del Cosmo. Due visioni del mondo opposte ed assolute, entrambe dotate di una propria ragione e senza possibilità di compromesso o riconciliazione, precisamente come nella tragedia attica.
Del pari, la messa in scena è asciutta ed essenziale, precisa fino a risultare impietosa. Silva Krivickiene opta per una regia calibratissima, improntata agli stilemi del Terzo Teatro: il palco è vuoto e spoglio, per lasciar spazio alla violenza delle parole e delle emozioni; su di esso, gli interpreti si muovono con precisione assoluta, danzando come le figure di un carillon, la leggerezza dei loro movimenti che rende ancora più evidente la soffocante pesantezza del dramma. Nonostante le difficoltà di una produzione a distanza, le due compagnie sono perfettamente amalgamate, e il coro recita con la coesione di un solo interprete.
In virtù della propria natura liminale, il palco del teatro si trasforma in un non-luogo estraneo al tempo e allo spazio, un fulcro di eternità dove i vari istanti di una storia si trovano a coesistere liberi dalle leggi che regolano la nostra dimensione. Ancor più radicalmente, in questo limbo si ritrovano varie versioni dei personaggi, presi in momenti diversi della loro vita terrena, quasi più estranei a sé di quanto non siano tra di loro. I due protagonisti sono prigionieri dei loro rimorsi, e non potranno perdonarsi a vicenda fintanto che non avranno perdonato sé stessi, cosa di cui sono incapaci: è questo l’unico tormento necessario nello scenario infernale dove sono rinchiusi. A sottolineare questo aspetto sono le luci, gelide e nette, sempre marcate su sfumature fredde, che si trovano curiosamente a dialogare con quelle di Mahābhārata, caratterizzato dai toni caldi del rosso e del giallo: in quest’ultimo le luci portano vita, perché la storia accade di nuovo ogni volta che la si racconta; in Medeja tutto è già accaduto e può solo essere rievocato, e le luci delineano un quadro congelato e immutabile.
Questa Medeja italo-lituana non solo si dimostra una magistrale lezione di teatro, tanto nell’impostazione quanto nella recitazione, ma si rivela precisamente il frutto degli ideali di condivisione e scambio della rete del Jeune Théâtre Européen: la sensibilità viscerale e ctonia della cultura lituana – si pensi al memorabile Amletas del compianto Eimuntas Nekrošius – si coniuga perfettamente al dionisiaco di Euripide. Si dice spesso che solo allontanandosi si riesce a vedere con chiarezza ciò che non siamo in grado di distinguere da vicino. In questo caso, occorreva viaggiare dal Mediterraneo al Baltico, dal mare color del vino al mare grigio di ardesia, per riscoprire la tragedia di Medea e restituirla al suo crudo e sanguigno splendore.
Medeja è uno spettacolo di Mažoji Teatro Akademija e Associazione Studio Novecento, a partire dalla tragedia di Euripide.
Testo originale di Marco Maria Pernich.
Regia di Silva Krivickiene.
Scena di Antonello Ruggieri.
In scena Greta Antulytė, Aksenija Belova, Bianca Cerro, Meda Kačergytė, Rasa Kareivienė, Lina Kazlauskienė, Povilas Krivickas, Tomas Kumpiniauskas, Stefania Lo Russo, Olegas Paulius, Giacomo Piseri, Ailin Tracchia e Ieva Zubaitytė.