Molti conoscono le stampe giapponesi, gli Ukiyoe; forse non tutti conoscono quel determinato gruppo di stampe che si suole definire shunga, cioè delle silografie di argomento erotico, principalmente del periodo Edo (1603-1868)[1].
Silografie bellissime, sono entrate a far parte della vita e della cultura materiale giapponese in maniera sorprendente. Le guardiamo, queste immagini, e c’è qualcosa che ci respinge e qualcosa che ci attrae; le pose esplicite, esplicitissime; i sessi enormi e turgidi, e quei visi chiari, puliti, espressivi: li guardiamo, e sentiamo che possiedono una forza che va oltre la scena rappresentata, una forza primigenia unita a linee sinuose, raffinate. Il sesso diviene arte, l’arte diviene sesso: c’è una determinante componente pornografica, e dentro di questa, vi è qualcosa di sublime che esonda dal semplice concetto di “nudo artistico”. L’origine della parola shunga può aiutarci: significa “pitture della primavera”, ma al tempo stesso la parola shun, “primavera” indica sia l’eros sia la tensione spirituale.
Tensione spirituale nell’amore, anche nella sua più bassa sensualità. Le prostitute e i loro quartieri erano un topos ricorrente dell’Ukiyo-e proprio perché mostravano la bellezza di ciò che è fuggevole, della carne che subito invecchia, che subito svanisce. Eppure nell’atto sessuale, nell’assolutezza di quel momento, si giunge ad una sorta di sacralità, di unione con ciò che di più alto c’è nell’uomo. Platone, a dispetto del cosiddetto “amore platonico”, che nella vulgata sarebbe sinonimo di “amore ideale”, non sosteneva idee molto diverse.
Anche se non un dio vero e proprio, Eros è per Platone un “grande demone”, che ha il potere di “tradurre e trasmettere agli dei le cose che giungono agli uomini, e agli uomini le cose che giungono agli dei[2]”.
Lo sfondo ideale da cui nasce lo shunga è dunque nobile, ed è questo uno dei segreti della sua raffinatezza; nondimeno lo shunga fa parte della quotidianità, e si diffonde per un dato essenzialmente pratico: la capitale era Edo (cioè Tokyo) e questa città era abitata soprattutto da giovani proletari uomini. Non di rado venivano usate come materiale pornografico, tanto che su alcune sono rilevabili delle macchie. Si può immaginare l’entità del liquido che le ha provocate. Non solo: le stampe giapponesi, di qualsiasi genere, non erano intese come opere a sé stanti (com’è da noi in Europa) ma avevano il fine di illustrare dei libri. Sono rimaste celebri le silografie, non le opere letterarie. Ogni tanto però, per darci un’idea di com’erano, qualche editore illuminato le pubblica. Nel caso degli shunga questo era il tenore del discorso:
L’UOMO: Non male, nevvero? Anch’io godo. Sto per esplodere. Sto per versarne una scodella intera!
LA DONNA: Tu godi, e godo anch’io. Aaah! Vengo! Non è questo il momento di lasciarmi, ecco, stringimi più forte!(Utamaro, Il canto della voluttà, Milano, Abscondita, 2010, p. 28)
Per chi è cresciuto in Europa il dialogo è del tutto destabilizzante, se non scandaloso. Tuttavia non dobbiamo considerare il testo un libro meramente pornografico.
È sicuramente anche quello, ma c’è anche la volontà di tratteggiare un tranche de vie, la volontà di entrare nelle stanze segrete, scoprire quello che fanno tutti, ma poi per pudore non si rivela… il senso di disvelamento, di messa in risalto (si pensi ai sessi formato gigante di molte opere) dell’attività sessuale così com’è, senza commento. Che è qualcosa che ricorda anche il film di Kechiche La vita di Adele, per esempio.
Anche i registi giapponesi hanno attinto a questi libretti per le loro opere: Ecco l’impero dei sensi di Nagisa Oshima, può essere affiancato agli shunga, soprattutto nell’idea di brutalità e forza che accompagna a tratti l’atto sessuale (portata all’estremo da Oshima): infatti da una sessualità giocosa e in fondo spensierata, gli shunga deviano spesse volte nel senso di una sessualità più complessa, a volte violenta.
Particolari sono le premesse a questi libri, forse l’unica parte testuale davvero degna di nota, da un punto di vista letterario, come vediamo in questa, tratta dall’Uta Makura (1788), che presenta alcune stampe di Utamaro:
Il libero corso del fiume Yoshino descrive il legame che unisce gli amanti, e quando scopre i suoi fianchi, il monte Tsukuba evoca la figura di un uomo e una donna che si danno reciprocamente piacere. Esponendo l’affascinante spettacolo dei convegni che si svolgono sul tappeto fiorito dietro il paravento delle brume primaverili, queste stampe dorate sveleranno il sapore delle voluttà cittadine. Rifacendosi l’occhio, il cuore scintillerà, e l’anima smaliziata scenderà a insediarsi alla fonte, sotto la cintura. Un agitare in aria di gambe come i roseti a perdita d’occhio di Naniwa, un ondeggiare le reni scuotendo lo scrigno delle gioie come se scendessero le pendici di Hakone. Ah! quanto più di un artista laborioso e melenso ci sa emozionare con rapido tratto di pennello il sagace pittore della lussuria! […]
(Utamaro, Il canto della voluttà, Milano, Abscondita, 2010, p. 31)
L’autore di queste righe si chiama, o meglio si fa chiamare, Honjo no Shitsubuka, (vale a dire “il dissoluto di Honjo”) secondo un gusto per la dissolutezza che da un lato ricorda i nostri (ben più tardi) poeti decadenti, e dall’altro ricorda proprio i libertini settecenteschi europei: infatti le stampe giapponesi nascono in un clima di graduale apertura del Giappone nei confronti dell’Europa.
La pittura tradizionale giapponese, come abbiamo visto altrove, è infatti derivata dall’arte cinese, e consiste soprattutto nella produzione di opere monocrome a china, in gran parte paesaggi; gli shunga, come in generale gli ukiyo-e, sono un tipo di arte già influenzato dal contatto con l’Occidente. In origine l’ukiyo, il mondo fluttuante, era la traduzione del concetto buddista di impermanenza (anicca), che doveva essere rifiutato. Se tutto scorre, se tutto passa e se ne va, il saggio deve sapersi distaccare dal mondo, per pervenire ad un diverso stato di coscienza, cioè l’illuminazione, il satori. Invece l’indugiare sull’istante, sul momento, il lasciarsi incantare dall’impermanenza, che nei secoli precedenti sarebbe stato considerato inutile e anzi contrario alla pratica del saggio, è la cifra stilistica dell’ukiyo-e.
Questo mostra come lo shunga sia un genere che di per sé tiene insieme l’alto e il basso: da un lato la corporeità, che vediamo in tutta la sua maestosità grottesca nella stampa di Utamaro che abbiamo scelto come copertina di questo articolo; dall’altro il subilme del piacere, la sensibilità poetica delle ciocche dei capelli, che richiamano la tradizione artistica giapponese. Da un lato un gioco artistico di virtuosismo, dall’altro una necessità pratica, sia per gli uomini, sia per le donne: già da secoli, infatti, non era raro, infatti, che alle ragazze in età da marito venissero regalati dei libretti erotici perché imparassero il sesso, e sapessero come comportarsi.
Sensibilità poetica e routine insieme; pornografia e raffinatezza: uno sconfinamento, una fluidità che ricorda un po’ (con le dovute differenze) le forme ibride dell’arte odierna, come la pubblicità o la moda. Infatti spesso le stampe erano monocrome per puri motivi economici: eppure questa poca considerazione non ha impedito ad altissimi artisti, come Utamaro e Hokusai, di accostarsi al genere, come accadde, per esempio, nella Roma antica con i Carmina Priapea, delle poesie di carattere erotico generalmente basso e scurrile, dietro le quali probabilmente si celavano importanti autori (è stato fatto addirittura il nome di Virgilio).
E quindi scopriamo, dietro ad una produzione estremamente diversa dalla nostra, una sorta di spirito mozartiano, di abilità nel tenere insieme alto e basso, quotidiano e sublime, volgarità e nobiltà. Un insieme che ha molto da insegnarci, e che ci mostra che in ogni cosa vi è poesia, se la sappiamo cercare.
In copertina: Kitagawa Utamaro, stampa dal libro Il canto della voluttà. 1786