Autore: Salvatore Ciaccio

  • Paul Klee: la notte di Valpurga e un artista multiforme

    Paul Klee: la notte di Valpurga e un artista multiforme

    Klee ha un’anima romantica e dionisiaca, come alcune sue letture e qualche pagina dei Diari sembrano suggerire o è piuttosto uno spirito classico che aspira all’equilibrio tra natura e storia, individuo e società?[tooltip tip=”Federica Pirani, Klee, in Art Dossier a cura di G. Carlo Argan, Giunti, Firenze-Milano, 1990 p. 5″][1][/tooltip]

    Il quesito posto da Federica Pirani nel suo breve scritto pubblicato tra i fascicoli di Art Dossier nasce dall’incredibile mole di materiale che Paul Klee ha prodotto lungo l’arco della sua vita: circa novemila opere (disegni, incisioni, tele) e diversi scritti di carattere teorico e critico.

    È stato difficile, in fondo impossibile, per la critica successiva, riuscire a collocare un artista eclettico e dagli interessi tanto disparati all’interno di una delle avanguardie primonovecentesche; lo stesso Klee in effetti non si riconosce all’interno di nessuna scuola ma sviluppa, sin dai primi anni del Novecento, una ricerca poetica e artistica personale e sostanzialmente non assimilabile ad alcun movimento.

    Influenzato dai molti viaggi compiuti già in giovane età (il primo in Italia nell’estate del 1901) vivrà degli intensi momenti di creatività durante l’esperienza d’insegnamento al Bauhaus di Weimar e negli ultimi anni della sua vita nonostante la scoperta della malattia che lo porterà alla morte.

    Anzi, è proprio nella fase finale della sua esistenza che Klee (come accade al contemporaneo Matisse) esegue alcune tra le opere più suggestive che si possono conoscere all’interno del suo catalogo; ma procediamo con ordine.

    Paul Klee, Roccia artificiale, 1927
    Paul Klee, Roccia artificiale, 1927

    Il nostro artista nasce il 18 dicembre del 1879 a Münchenbuchsee, in Svizzera. Sia il padre che la madre sono musicisti ed entrambi desiderano che il figlio segua le loro orme. In effetti Paul Klee ha sempre manifestato (ovviamente) un interesse profondo per la musica e per il misterioso linguaggio delle note, la quale sarà per lui un indispensabile stimolo intellettuale nell’arco di tutta la sua carriera creativa.

    «Sebbene dopo gli ultimi esami tutte le vie mi fossero aperte, volevo osare lo studio della pittura e di scegliere la pittura stessa come scopo della mia vita[tooltip tip=”FEDERICA PIRANI, Klee, in Art Dossier a cura di G.CARLO ARGAN, Giunti, Firenze-Milano, 1990, p. 9. L’autrice cita da una nota scritta da Klee stesso nei primi mesi del 1940.”][2][/tooltip]»

    Una scelta del genere comporta per Klee un trasferimento all’estero: dal 1900 è infatti a Monaco dove segue un corso accademico per perfezionare la tecnica del disegno.

    Sono questi gli anni dell’espressionismo francese, delle secessioni di Monaco e di Berlino, di forte sperimentazione in campo pittorico e architettonico. Poco di tutto questo influenzerà Paul Klee benché negli anni successivi si sentirà sempre più attratto dalle fluide visioni di Van Gogh e, in ultimo, dalla scomposizione in solidi elementari di Cézanne.

    La sua arte diviene astratta, le forme già fluide si sciolgono, divengono testimonianza dell’invisibile nel visibile[In diversi scritti Klee fa riferimento all’invisibile nel visibile che è in natura, in particolare durante gli anni di insegnamento al Bauhaus. Cito da GIUSEPPE DI GIACOMO, Introduzione a Klee, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003″][3][/tooltip] che è in natura, con la quale il pittore dialoga tramite segni di un linguaggio misterioso e profondamente vivo. Non a caso intesserà un solido rapporto di amicizia con il padre dell’astrattismo Vasilij Kandinskij.

    Paul Klee, La notte di Valpurga, 1935
    Paul Klee, La notte di Valpurga, 1935 (particolare)

    In verità l’astrattismo di Kandinskij avrà matrici e scoprirà percorsi molto diversi rispetto a quelli intrapresi dallo stesso Klee perché mossi da uno stimolo strettamente spirituale (si parla infatti di spiritualismo per le Composizioni di Kandinskij), ermeticamente chiuso ad un dialogo con la natura.

    Dialogo che in Klee non verrà mai meno neppure negli ultimi anni della sua esistenza quando, chiuso nella sua casa di Berna il più lontano possibile dagli orrori che inficiano il mondo, produrrà una folla impressionante di opere, un esercito vario e multiforme di tele e incisioni (1253 solo nel 1939!).

    Nonostante l’insistenza del nostro artista nel produrre opere che dialogassero con la natura in una dimensione astorica (sebbene suggestionata dalla luce dei numerosi luoghi visitati) in molte sue composizioni si avverte, oltre a un dolore esistenziale, la paura per l’imminente scontro bellico e per le violenze perpetrate dai nazisti durante gli anni Trenta.

    Paure che assumono forme spettrali ne La notte di Valpurga, dipinto dedicato alla festa pagana che celebra la primavera e si svolge nella notte tra il 30 Aprile e il primo Maggio. Nell’opera vediamo che il velo nero di una notte senza stelle è squarciato da delle belve antropomorfe di colore azzurro: queste figure non solo urlano la paura del pittore per la sua sorte (è proprio in questo periodo, nel 1935, infatti, che si manifestano i primi sintomi di sclerodermia, malattia che lo condurrà alla morte) ma profetizzano il periodo nefasto e terribile verso il quale sta scivolando l’Europa tutta, un mondo senza speranza e senza alcun futuro.

    Paul Klee, Porto fiorente, 1938 (particolare)
    Paul Klee, Porto fiorente, 1938 (particolare)

    Dunque ragioni di sofferenza storiche si intersecano con il dolore personale, divengono matrice di opere inquietanti ben lontane dalla vivacissima gamma coloristica che aveva caratterizzato la sua produzione nei decenni precedenti.

    Ma il Klee degli ultimi anni non è solo questo: quando infatti lo scontro si palesa inevitabile, Paul approda alla pienezza e all’energica vitalità di Porto fiorente (1938) dove su fondo bianco, macchie di colore (che rappresentano foglie morte e macchie di olio) e segni neri (le barche, il molo) sprigionano tutta la pienezza della vita e della Natura in un uomo che, con malinconica infantilità, guarda gli ultimi anni della sua esistenza e la fine del mondo che ha conosciuto.

    È chiaro che in uno spazio così esiguo non si può fare a meno di ridurre, mutilandola, l’enorme esperienza dell’artista tedesco, citare solo due testi volti a sottolineare l’originalità e la capacità creativa di un uomo che si potrebbe credere finito, distante dalla vita, ma in realtà ancora così profondamente vivo, lontano dal mondo, eppure un’ultima volta coraggioso.

    In conclusione, possiamo affermare che Paul Klee non avrà seguaci: il suo esempio si staglierà lontano (eppure sotterraneamente vicino) nei decenni successivi, mai raggiunto perché profondamente intimo, sostanzialmente diverso da tutto il resto e indissolubilmente legato alle visioni e all’anima di un uomo e della realtà che ha conosciuto.

  • Viaggio senza fine: i mille volti del Satyricon

    Viaggio senza fine: i mille volti del Satyricon

    «Insieme a Gitone, riposi le nostre poche cose in una sacca e dopo aver rivolto una preghiera alle stelle salii sulla nave[tooltip tip=”Petronio, Satyricon, traduzione di Piero Chiara, Milano, Mondadori, 1969, p. 267″][1][/tooltip]».

    Encolpio, giovane di buona cultura, è in viaggio con i suoi amanti, il giovinetto Gitone e il più maturo Ascilto, senza una meta ben definita, sullo sfondo di una città della Magna Grecia dai tratti labirintici e piuttosto sommari. Siamo nel Satyricon di Petronio, o meglio, in ciò che ci è rimasto di quest’opera, e i suoi protagonisti sono coinvolti in una serie rocambolesca di eventi, episodi più o meno erotici, più o meno avventurosi.

    Il Satyricon è l’unica opera pervenutaci di Petronio, probabilmente uno dei consiglieri più intimi di Nerone, famoso per la sua raffinatezza e il buon gusto, al punto che lo storico Tacito lo definirà “elegantiae arbiter”, arbitro d’eleganza. Probabilmente in quanto non abbiamo una documentazione sicura che il Gaio Petronio della corte neroniana sia proprio il Petronio che scrisse il Satyricon; tuttavia alcuni elementi interni all’opera hanno consentito di collocare la sua stesura proprio durante l’epoca neroniana, tra il 54 e il 68 d.C.

    Il testo ci è giunto in frammenti: purtroppo non abbiamo idea di come fosse il progetto originario, in quanto oggi possiamo leggere soltanto quelli che erano i libri  XIV, XV e XVI, peraltro spezzettati e ulteriormente ridotti da diverse lacune. Nonostante ciò la quantità di materiale che ci è pervenuto è abbastanza ampia da farci intuire quanto grande e mastodontica dovesse essere l’opera, e abbastanza ampia da renderla una delle opere più affascinanti e magnetiche della letteratura latina.

    Anzi, proprio per il suo essere incompleto, il racconto ci appare come una sarabanda di avventure indiavolate, totalmente parossistiche e ai limiti dell’assurdo. All’inizio dell’opera il trio sfugge alle basse voglie della matrona Quartilla, finendo con il partecipare alla cena dell’opulento liberto Trimalcione e, dopo un turbolento viaggio in mare conclusosi con un naufragio, giungere a Crotone, una città dal grande e glorioso passato ormai ridotta ad un tetro covo di briganti e ladri di dote.

    Il dio Priapo, persecutore di Encolpio. Affresco, Casa dei Vettii, Pompei.
    Il dio Priapo, persecutore di Encolpio. Affresco, Casa dei Vettii, Pompei.

    Encolpio incontra tantissimi personaggi, di varia e molto spesso bassa umanità, soggetti che di volta in volta gli rubano la scena, creando dei quadri isolati e indipendenti tenuti insieme solo dalla narrazione in prima persona del protagonista.

    Per l’autore il nostro eroe diviene un novello Ulisse: è infatti un pellegrino errante, sbalzato in ogni dove, e costretto continuamente a fuggire; la sua costante ricerca di un lieto fine è sempre frustrata da circostanze avverse. Un Ulisse, però, ben particolare.

    Innanzitutto non fugge l’ira degli dei olimpici, ma più banalmente creditori, nemici, vecchie conoscenze e forse vecchi amanti. Infatti Encolpio e Gitone salgono come clandestini sulla nave che li porterà a Crotone e, per non farsi riconoscere, si radono e si tatuano come schiavi. Peccato, però, che la nave appartenga a Lica e Trifena, due personaggi che probabilemente hanno avuto un ruolo centrale nella parte del romanzo a noi perduta, e che non hanno buoni rapporti con i nostri amici. Questi hanno il presentimento di trovarsi davanti proprio a Encolpio e Gitone, ma non li riconoscono subito. Li riconosceranno solo attraverso un espediente:

    Trifena, già intimamente convinta che si trattasse di Gitone, accorse rapidamente. Anche Lica, al quale io ero più che noto, accorse. Non mi guardò né le mani né la faccia, ma subito abbassò gli occhi verso il mio affare e palpandolo con mano esperta, disse: “Salve Encolpio[tooltip tip=”Petronio, op. cit., p.287”][2][/tooltip]”.

    Il commento di Encolpio non si fa attendere: «E poi ci si meraviglia che alla balia di Ulisse dopo vent’anni sia bastata una cicatrice per identificare l’ospite![tooltip tip=”Petronio, op. cit., p. 287.”][3][/tooltip]». Ulisse viene dunque citato in uno dei momenti di maggiore tensione, ma nello stesso tempo ne risulta ridicolizzato, come del resto il povero Encolpio. E, insieme ad Ulisse, è ridicolizzato tutta la letteratura greca del passato: Encolpio, infatti, è un’anima mitomane, che si esalta e si immedesima negli eroi mitici, un po’ come farà, molto tempo più tardi, il Don Chisciotte di Cervantes.

    Affresco Pompei

    L’opera presenta quindi una duplice atmosfera: da un lato le avventure, il viaggio senza fine, le peripezie incessanti da romanzo picaresco. Dall’altro, il viaggio si veste di una carica simbolica inespressa e angosciante.

    I personaggi del Satyricon, infatti, viaggiano non solo senza alcuna meta ma anche con discontinuità. Il paesaggio nel quale si muovono è evanescente come le quinte di un teatro: i personaggi si incontrano per caso, fuggono perché assediati da problemi imminenti, vanno e vengono negli stessi luoghi, in circolo. Il viaggio quindi diviene simbolo della vita: una realtà imprevedibile e senza alcuna certezza, un crogiolo di volti e sensazioni che non concede pace ai suoi attori.

    Sintesi di questo fluire magmatico, di questa fuga da se stessi, è costituita proprio dalla cena di Trimalcione, dove tra le innumerevoli portate e i discorsi faceti si insinua la paura della morte. Il viaggio dei protagonisti, la loro vita, come i piatti che si susseguono sulla tavola del ricco liberto, è satura di inganni volti a nascondere la terribilità dell’incognito, dell’Ade, al quale è destinato pure Encolpio che non conosce il perché del suo viaggiare, sommerso dai suoi timori e dalle sue passioni.

    L’imprevedibilità del viaggio, la sua urgenza, consentono di portare con sé solo poche cose, il minimo per sopravvivere. Perseguitato, Encolpio fugge senza fine, scivola da una realtà rocambolesca all’altra, sempre spaventato eppure cupido delle novità che il suo viaggio gli presenta.

     

    Leggi anche: Il Satyricon: un labirinto dal doppio volto


    Per approfondire:

    Petronio, Satiricon, traduzione di Piero Chiara, introduzione di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1969.
    G. B. Conte, Letteratura latina – L’età imperiale, Milano, Le Monnier, 2012.
    Questo articolo è comparso sul numero 2/2015 della rivista DeSidera
  • Le ragioni di Francesco del Cossa

    Le ragioni di Francesco del Cossa

    Da bravo avvocato, quale in realtà non sono, non posso non fare a meno di difendere le gesta di un mio, seppure ideale e solo immaginato, cliente. Il fatto, l’evento a cui farò riferimento nelle prossime righe, si è consumato quasi cinquecentocinquanta anni fa in un luogo che, devo ammettere con profondo rammarico, non ho ancora visitato. Si tratta di Ferrara e, per essere precisi, del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia. Qualcuno di voi vi è mai entrato?

    Vi starete probabilmente chiedendo chi sia il mio cliente, di quale ipotetica colpa si sia macchiato, del perché ci tenga così tanto a difenderlo. E poi quest’uomo, di cui potete leggere benissimo nome e cognome nel titolo dell’articolo, ormai defunto da mezzo millennio, non si sarà difeso egregiamente da solo? Non avrà fatto valere le giuste ragioni delle sue azioni?

    Cosa posso fare io, senza gli strumenti adatti, dopo tutto questo tempo?

    Posso solo raccontare brevemente la sua storia, suggerirvi una possibile lettura delle opere del mio uomo, un pittore, e citare, a mio e suo favore, alcune sue parole.

    Il mio cliente, Francesco del Cossa, è nato a Ferrara nel 1436, in un epoca molto felice per la cittadina emiliana, in pieno sviluppo economico e urbanistico dovuto agli interventi e al mecenatismo perseguito dalla famiglia d’Este. Da un punto di vista squisitamente artistico è questo il momento in cui gli artisti (non per forza autoctoni) sviluppano una maniera, uno stile molto originale dove i bagliori del Rinascimento quattrocentesco (di Donatello, Piero della Francesca e Leon Battista Alberti) si mescolano all’arte fiamminga (Rogier Van der Weyden) e ai ricchissimi strascichi del gotico cortese.

    Ed è proprio per la corte degli Este, nello specifico per la committenza di Borso d’Este, che Francesco del Cossa affresca una delle quattro pareti che compongono il Salone dei Mesi nel Palazzo, tardo medievale, di Schifanoia.

    Francesco del Cossa, Mese di Aprile, salone dei mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, 1469-70 (particolare)
    Francesco del Cossa, Mese di Aprile, salone dei mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, 1469-70 (particolare)

    Affreschi che oggi, nel complesso, risultano molto rovinati: la parete sud (dove si trovava il camino) è praticamente illeggibile, come la parete ovest; mentre sia la parete nord (dove si aprono delle finestre) e la parete est (affrescata dal mio cliente) sono ancora in gran parte leggibili, seppure molto impoverite a causa della caduta di parte dei pigmenti di colore. Perché tale differenza di conservazione?

    Forse parte della risposta, al di la della posizione più o meno favorevole degli affreschi, risiede nel metodo di composizione delle suddette pitture, impropriamente (in parte) definite affreschi.

    Come sottolinea il mio stesso cliente in una Supplica vergata di suo pugno e inviata a Borso d’Este in data 25 Marzo 1470 il suo lavoro risulta considerevolmente  migliore rispetto agli altri pittori che si sono occupati della decorazione del Salone perché eseguito «quaxi et tuto a frescho», cioè secondo una tecnica dove i pigmenti di colore venivano stesi sull’intonaco bagnato. E gli altri invece?

    Gli altri pittori (non si sa bene quanti) hanno eseguito il loro lavoro a secco, cioè stendendo il colore solo una volta che l’intonaco e i diversi strati preparatori fossero ben asciutti. Che cosa cambia, mi potreste chiedere.

    In effetti agli occhi di un semplice spettatore e, forse, anche a chi si intende un po’ d’arte o è del mestiere, le scene eseguite secondo l’una piuttosto che l’altra tecnica, risulterebbero uguali, almeno sotto l’aspetto qualitativo. Anzi, la pittura a secco permette una maggiore gamma di colori e maggiore ricchezza e brillantezza degli stessi. Agli occhi di Borso d’Este, in fin dei conti, le scene dovevano sembrare parimenti valide, egualmente fastose. Anche perché, come sottolinea lo stesso Francesco del Cossa, egli stesso completò i dettagli delle sue scene a secco. Questa dopotutto era una pratica usuale in diverse zone d’Italia e da diverso tempo (già dal Duecento).

    Eppure, proprio in ragione di una differente qualità di esecuzione e (a sua detta) del risultato definitivo, Francesco del Cossa chiese di essere pagato di più rispetto agli altri pittori e legittimò la sua richiesta affermando che «è noto a tuti li maistri de l’arte» la superiorità della pittura a fresco rispetto alla coeva pittura a secco, la prima più difficoltosa perché il pittore, una volta steso l’intonaco, doveva stendere il colore subito e senza incertezze.

    Francesco del Cossa, Allegoria di Aprile, trionfo di Venere, 1476
    Francesco del Cossa, Allegoria di Aprile, trionfo di Venere, 1476 (particolare)

    Secondo voi Borso d’Este si rese conto della disparità delle pitture? Premiò il mio cliente con un bell’aumento? E ancora: come riuscì Francesco del Cossa a lavorare diversamente, a scegliere con che tecnica compiere il suo lavoro? Quali rapporti intercorrevano tra il committente e gli artisti?

    Molti di questi quesiti sono ancora oggi senza soluzione: Borso d’Este non era come il suo predecessore Lionello d’Este, uomo profondamente immerso nel clima artistico ferrarese, ma un uomo per il quale l’Arte era semplice strumento, un modo come un altro per dare lustro alla propria casata e alla propria corte.

    Non è un caso il fatto che il contratto per la decorazione del Salone risalga al giugno del 1469 e che parte dell’opera, molto probabilmente, risulti finita per il febbraio dell’anno successivo: Borso vuole stupire i suoi ospiti, vuole che rimangano sorpresi dagli ori e dai colori sgargianti. Per questo è quasi certamente lui a scegliere e ad elaborare il soggetto degli affreschi come parte della disposizione dei personaggi. Gli artisti sono semplici artigiani, utensili di un demiurgo. E allora perché parte del salone venne lavorata  fresco?

    Evidentemente intercorreva un piccolo margine di libertà, il lavoro di decorazione non era così puntigliosamente esaminato dal committente. Di certo non possiamo conoscere il motivo delle scelte del Cossa, solo immaginarle. La penuria di documenti non ci consente di tessere un quadro esaustivo della situazione, di scavare in fondo al cuore di un artista e riesumarne le scelte.

    Tantomeno la sua vicenda si può estendere a tutta la storia dell’arte rinascimentale o solo a quella del Quattrocento benché, di fondo, risulti esemplare: il pittore infatti, come figura sociale, stava prendendo sempre più coscienza di sé, sicuro ormai del valore critico delle proprie scelte. Non più semplice artigiano, non ancora genio quasi divinizzato come ai tempi di Michelangelo.

    Francesco del Cossa è solo un uomo, la sua Supplica un documento che ci consente di porci delle domande, di ampliare la nostra coscienza storica, di individuare nuovi problemi nel nostro passato. Poco importa che la sua richiesta alla fine venga respinta e che lui, abbandonata la sua città natale, abbia finito i suoi giorni in terra straniera, a Bologna: le sue parole sono pregne di significato ancora oggi come il suo gesto.

    Grazie signori della Giuria per la vostra attenzione, ho concluso.

     

    Leggi tutti gli articoli sull’arte figurativa


    Per approfondire:
    Vincenzo Gheroldi, Un conflitto sulla qualità tecnica della pittura murale a Ferrara al tempo di Borso d’Este, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa, Ferrara, 2007, pp. 143-157.
    Carlo Bertelli, Giuliano Briganti, Antonio Giuliano, Storia dell’arte italiana – Volume 2, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2009 (1990), pp. 354-357.
  • L’eredità di Alessandro Magno: cosa accadde dopo la sua morte?

    L’eredità di Alessandro Magno: cosa accadde dopo la sua morte?

    10 giugno del 323 a.C.

    Era morto Alessandro, un uomo «di cui generalmente si riconosceva la capacità sovrumana», […] e i macedoni presenti, per quanto fosse loro risparmiata la marcia in Arabia, erano rimasti sconvolti e terrorizzati in una terra lontanissima dalla loro.

    (ROBIN LANE FOX, Alessandro Magno, 1981, Giulio Einaudi Editore, Torino. P. 494)

    L’impresa bellica di Alessandro Magno, che significò il crollo dell’Impero Persiano retto da Dario III Achemenide, è stata raccontata ai contemporanei e ai posteri da diverse opere storiografiche, dai cortigiani e storici al seguito del grande re macedone e poi, nei secoli, da diversi autori romani e ancora medievali.

    Alla ricchezza di fonti (spesso fantasiose) corrisponde un dedalo di aneddoti e varianti, anche di gusto antiquario, che rendono saturi gli anni di Alessandro, poco limpidi come le acque palustri, scrigni di miti e leggende che allontanano l’occhio scientifico dello storico dall’aletheia[tooltip tip=”Verità, in greco antico”][1][/tooltip], dalla piena comprensione degli eventi.

    Il periodo successivo, subito dopo la morte del sovrano avvenuta a Babilonia (cioè in pieno oriente), è uno dei momenti più confusi e tormentati della storia greca, una serie continua di avventate scelte politiche, di colpi di mano cruenti che non hanno nulla da invidiare alla moderna fiction seriale.

    Ma procediamo con ordine: «Alessandro lascia dietro di sé i materiali di un edificio che non ha fatto in tempo a costruire, un cantiere abbandonato»[tooltip tip=”Edward Will (cit. in M. Bettalli, Storia greca, 2006, Città di Castello (PG) Carocci pag. 276)”][2][/tooltip]; l’immenso regno conquistato è fragile, racchiude al suo interno una pluralità piuttosto vasta di popoli e culture. I macedoni sono da molti anni lontani dalle loro terre, stanchi e con l’insopprimibile voglia di ritornare in patria.

    Inoltre il gran sovrano non ha lasciato alcun erede: Rossane, la moglie sogdiana del re, è incinta (ma si tratta di un bimbo di sangue misto che non sarebbe stato accettato docilmente dal popolo macedone). Si sceglie dunque una soluzione di compromesso: attendere l’arrivo del nascituro e investire (per il momento) del potere regale un fratellastro di Alessandro Magno, Filippo III Arrideo (uomo psicologicamente insano).

    Fregio palaziale achemenide
    Fregio palaziale achemenide

    A guidare realmente le fila del potere però sono solo tre uomini: Antipatro, vecchio condottiero di Filippo II, Perdicca e Cratero (già al seguito i Alessandro). Il regno sarebbe stato poi diviso in satrapie (porzioni di territorio relativamente piccole guidate da un satrapo sul modello persiano) e affidate ad alcuni generali del defunto re: Antigono Monoftalmo ottenne l’Anatolia occidentale, Lisimaco la Tracia, Tolemeo l’Egitto e Eumene (unico uomo di origine non macedone) la Cappadocia e la Paflagonia.

    Questi, in estrema sintesi, gli Accordi di Babilonia ai quali seguiranno, solo un paio di anni più tardi gli Accordi di Triparadiso (321 a.C.). L’instabilità delle satrapie diviene specchio degli intenti dei vari condottieri tesi solo a conseguire il proprio successo politico e militare, attenti alla conservazione dei territori affidati e al loro ampliamento.

    Ed è proprio la forza militare dei Diadochi (letteralmente i successori di Alessandro) a decretare la sorte delle poleis greche, di nuovo soggetto attivo pronte a sostenere ora l’uno ora l’altro contendente. Questi si proclameranno re (basileus) negli ultimi anni del IV secolo a seguito di intricate vicende belliche.

    In questa sede non importa sottolineare il primato di queste proclamazioni (Antigono sarà il primo basileus, dal 306 a.C.) ma il significato profondo di un gesto totalmente nuovo all’interno della memoria greca: un atto che pone il popolo come suddito, servo. Una realtà che non poteva essere accettata dagli stremati cittadini delle poleis, un ulteriore tassello che incrementò la distanza tra i Diadochi e i greci.

    Nonostante tutto però è proprio questo il periodo in cui i greci, o meglio la cultura greca mista ad altre tradizioni, si diffonde ben oltre il bacino del Mediterraneo, è proprio questo il tempo in cui vengono fondate diverse nuove comunità. In effetti non si può più parlare di poleis ma di città, unite in leghe (celebre, tra le altre, la Lega ellenica fondata da Antigono Monoftalmo e dal figlio Demetrio per ragioni militari).

    Fregio palaziale a Persepoli
    Fregio palaziale a Persepoli

    Il modello del cittadino greco, dell’uomo che partecipa alle assemblee, che coltiva i campi e che si pone al servizio della patria per difenderla è difatti scomparso. Le strutture amministrative persistono ma svuotate dei loro ideali, nelle guerre il lavoro sporco è ormai affidato a truppe mercenarie leali solo finché profumatamente pagate.

    Dei diversi regni dei Diadochi la storia ci ha restituito relativamente poco: molti reperti archeologici (alcuni contenenti testi di carattere propagandistico), frammenti di opere storiografiche, oggetti di uso quotidiano in quantità maggiore rispetto alle epoche passate. Il regno più solido, da un punto di vista amministrativo, fu l’Egitto di Tolomeo mentre gli altri soffrirono sempre l’azione di un apparato amministrativo debole e poco centralizzato, in modo particolare la Tracia di Lisimaco.

    La loro eredità è il mondo cosmopolita delle corti, il crollo dell’ideologia politica a fronte di uno spiccato e freddo individualismo; una civiltà volta al commercio e all’espansione nonostante le innumerevoli guerre, costanti sino al pieno assorbimento dell’ultimo regno all’interno dell’Impero romano (nel 31 a.C. a seguito della sconfitta di Cleopatra e Antonio alla battaglia di Azio).

    Un’epoca posta da parte dagli storici dell’Ottocento e riscoperta massicciamente solo da una cinquantina di anni, cioè dal momento in cui si sono fatte sempre più evidenti le analogie tra la società dei consumi globalizzata e la realtà ricca di scambi dell’Ellenismo, un momento in cui il centro pulsante dell’economia era il Medio Oriente.

     

    Leggi tutti i nostri articoli sull’Antica Grecia


    In copertina: Alessandro Magno e Bucefalo, Mosaico della Battaglia di Isso, Museo Archeologico Nazionale Napoli

  • Tiziano e il trittico dei Baccanali: armonia ed eros nel Rinascimento

    Tiziano e il trittico dei Baccanali: armonia ed eros nel Rinascimento

    Tra il 1519 e il 1523 Tiziano, già noto a Venezia e riconosciuto come uno degli artisti di maggior talento del momento, esegue per il Camerino di Alfonso d’Este, duca di Ferrara, tre grandi tele di argomento mitologico, conosciute come il trittico dei Baccanali, nelle quali è possibile osservare le grandi doti narrative del pittore veneziano e apprezzarne i colori freschi e luminosi.

    La prima tela che venne elaborata da Tiziano fu L’omaggio a Venere, o Festa degli Amorini, dove una folla festante e caotica di amorini festeggia la potenza della dea dell’amore in un meleto immerso in verdi lande non molto distanti da un borgo. La scena è tratta dalle Immagini di Filostrato il Vecchio, pubblicate in greco nel 1503 e tradotte in italiano proprio per la sorella di Alfonso d’Este, Isabella.

    L’idillio bucolico descritto da Filostrato è un soggetto difficile da raffigurare sulla tela per via della grande quantità di figure presenti, e tutte in movimento, in cui lo spettatore rischia di perdersi. Un soggetto così complesso rappresenta per il giovane Tiziano un’occasione per affrontare una delle questioni che lo accompagneranno per gran parte della sua produzione, e cioè la necessità di creare opere che siano armoniose e naturali al tempo stesso.

    Tiziano Vecellio, Festa degli amorini, 1518-1519
    Tiziano Vecellio, Festa degli amorini, 1518-1519

    Le opere rinascimentali del Quattrocento, infatti, presentavano delle figure più rigide, assorte in un’eternità statica, in quanto rappresentavano un’armonia e una composizione ideale, perdendo però in spontaneità. Tiziano invece, e con lui il rinascimento maturo, cercherà di perseguire una maggiore fluidità delle figure, che diventano così reali, vivide.

    Il nostro autore imposta la scena con delle linee semplici da individuare, grazie ad alcuni espdienti, come la lunga fila di amorini posti su un prato che declina verso l’orizzonte e defisce un punto di fuga netto a quasi due terzi del quadro. All’interno di questo schema Tiziano può costruire uno spazio realmente pieno e rumoroso, concitato, con mille movimenti, molteplici sguardi. Ogni dettaglio è studiato con cura e serve a rendere realistica la scena, come l’amorino in basso a destra che scocca la freccia, o le fronde dei meli, o le chiome ricciute e le espressioni definite degli amorini.

    Nel successivo Bacco e Arianna la scena risulta meno ricca di figure rispetto alla precedente, ma presenta una tavolozza di colori più ampia e vivida. L’opera va letta da sinistra verso destra, come se fosse una frase: a sinistra abbiamo Arianna, abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso e sorpresa dall’arrivo di Bacco, con cui incrocia lo sguardo. A destra vi è invece il tumultuoso corteo che segue il giovane dio dell’ebbrezza e della gioia.

    La tela presenta quindi un’asimmetria: da un lato la figura statuaria di Arianna, dall’altro la concitazione dei fauni, dei sileni e delle figure al seguito del dio: il confronto tra realismo e armonia prende questa volta le forme dell’entrata in scena del dionisiaco, del movimento in un quadro di assorta classicità. La corposità delle carni dei vari personaggi e la ricchezza dei panneggi, in particolare il rosso del mantello di Dioniso trasmettono un’atmosfera di festa, che richiama l’edonismo della corte di Lorenzo il Magnifico.

    Tiziano Vecellio Bacco e Arianna, 1520 1523
    Tiziano Vecellio Bacco e Arianna, 1520 1523

    Gli studi svolti nel secolo scorso hanno permesso di capire meglio il modus operandi del nostro pittore, impegnato ad eseguire le tre tele contemporaneamente e quasi senza aiuto da parte di collaboratori. In questo caso Tiziano ritornò più volte sulla figura di Arianna, caratterizzandone i panneggi con una plasticità e un rilievo che catturano subito lo sguardo, e pongono la donna direttamente in dialogo con la figura del dio. Un altro punto dove Tiziano è tornato più volte sono i ghepardi, che incrociano lo sguardo come i protagonisti della tela, ma con una complicità che i due ancora non hanno.

    L’ultima tela che compone il trittico dei Baccanali è il Baccanale degli Andrii, che ha per soggetto l’approdo di Bacco e Arianna, ormai sposi, nell’isola di Andros, celebrati da orge e festeggiamenti, che si vedono rappresentati in primo piano, mentre gli sposi sono totalmente assenti: si può intravedere soltanto una piccola vela al centro della figura, che rappresenta la nave degli sposi che sta approdando.

    Tiziano Vecellio Baccanale degli Andrii 1523 1526
    Tiziano Vecellio, Baccanale degli Andrii 1523 1526

    Il fulcro della composizione è, simbolicamente, la brocca di vino sollevata da un giovane al centro della tela e, come nella Festa degli amorini, lo sguardo dello spettatore è accompagnato verso il centro da alcune lnee diagonali, date dalle figure a sinistra e dalla collina sulla destra. Come sottolinea John Pope-Hennessy, grande storico dell’arte in un suo breve scritto dedicato a Tiziano, nei Baccanali il motivo letterario di partenza ne è fortemente rielaborato, e colto nella sua componente erotica ed edonistica.

    Tiziano in questo ciclo intende raccontare una storia in uno spazio limitato, consegnando allo spettatore il senso di ciò che è raffigurato a colpo d’occhio. In questo il pittore si differenzia da altri artisti rinascimentali, contemporanei o immediatamente precedenti a lui, che disseminavano le proprie opere di riferimenti esoterici, leggibili solo da una cerchia limitata di intellettuali: Piero della Francesca è un esempio, o La primavera di Botticelli.

    Tiziano lavora in un contesto diverso, durante il Rinascimento maturo: già dalle prime opere si riconosce la tensione tra una classicità perfetta ma disincarnata, irreale, e la volontà di raccontare i sentimenti e la realtà, con il suo dinamismo. In questo si vede anche la lezione di Giorgione, suo maestro: dire la realtà per come viene percepita, in modo realistico e verosimile. Tiziano cercherà sempre di conciliare queste due esigenze opposte, nel tentativo di inquadrare l’irrompere di Bacco, del dionisiaco, del movimento, all’interno di un quadro di bellezza ideale e classica.

     


    In copertina: Tiziano Vecellio, Amor Sacro e Amor Profano, 1515

  • Melancholia di Lars von Trier: un’ammaliante apocalisse

    Melancholia di Lars von Trier: un’ammaliante apocalisse

    «La terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei»
    «Cosa?»
    «Nessuno ne sentirà la mancanza»
    «Ma dove crescerà Leo… dove crescerebbe?»
    «L’unica cosa che so è che la vita sulla terra è cattiva»
    «Potrebbe esserci vita in altri luoghi!»
    «Ma non c’è»
    «La vita è soltanto sulla Terra… e per poco ancora»

    L’incubo millenario, la chiusura del sipario sulla vita è un tema magnetico, che torna a far sentire la sua presenza ogni volta che vediamo minacciata la nostra esistenza: il Novecento e l’epoca contemporanea sono costellate dal timore della fine. Sfondare l’orizzonte percettivo dei sensi, lasciarsi angosciare da un altrove vicino e lontano, così indefessamente opposto da vincerci e inghiottirci. Specchio della crisi dell’individuo, anima dolente del mondo, cuore del contemporaneo stretto e soffocante, la fine del mondo si lega alla malinconia, al decadente osservare le cose che muoiono.

    Hollywood ha partorito una miriade di film che ci raccontano la fine della nostra specie, al punto che è nato un vero e proprio genere: il Disaster movie, rappresentato per esempio da Roland Emmerich. Suoi infatti sono The day after tomorrow e 2012,  votati allo spettacolo pirotecnico e coreografico, con una quantità impressionante di effetti speciali, capaci di angosciare e impressionare lo spettatore, in linea con la produzione hollywoodiana.

    Qui, invece, il racconto apocalittico si fa maggiormente intimo. The Road, di Cormac McCarthy, e la sua trasposizione cinematografica diretta da John Hillcoat ne sono un buon esempio. Come questi, anche il film che sto per introdurvi, Melancholia, focalizza la propria attenzione sui rapporti umani, descrivendo i motivi primi, l’intimo essere dell’uomo, e sviscerandone i difetti e le qualità in uno scenario estremo, in cui la normalità viene meno.

    Lars Von Trier, uno dei maggiori registi danesi, conosciuto per film come Antichrist e per lo “scandaloso” Nymphomaniac, affronta in questo film il tema della fine del mondo in un’ottica sensibilmente intimista, ricca di citazioni artistiche e poetiche, un quadro contrastato che si divide tra opulento barocchismo e minimale (ma non per questo meno ricercata) semplicità.

    Partendo da un episodio di depressione sofferto qualche anno prima e, in particolare, da una considerazione del suo psicologo, Von Trier costruisce un film rigidamente diviso in due parti: la prima ci mostra la corruzione e l’ipocrisia della vita associata, la seconda la solitudine dell’individuo. La prima parte ha il nome di Justine, evidente doppio del regista, anima fragile divorata dalle rigide regole di una società che la vuole felicemente sposa. Il ricevimento che si svolge a casa della sorella Claire (che dà il nome al secondo atto del film) diviene per Justine tempesta emotiva e occasione per esprimere senza veli ne ipocrisie una profonda depressione.

    Parallelamente, vi è una minaccia, prima solo accennata, poi nella seconda parte del film sempre più evidente, che incombe: un pianeta, Melancholia, che passerà molto vicino alla Terra, e potrebbe scontrarsi con essa. L’intento del film di Von Trier, dunque, è mostrare le differenti reazioni di una famiglia a un cataclisma, a un’imminente fine. Alla rassegnazione di Justine si oppone il dramma di Claire, borghesuccia contenta delle sue piccole certezze, moglie perfetta e madre amorevole, eppure terrorizzata dalla possibilità di una collisione. Justine invece, per la quale il mondo è solo cenere senza alcun guizzo di fiamma a darle calore, è affascinata dal gigante blu, dalla possibilità che concede al suo spirito di sperare in un’unica, enorme certezza: la fine dell’uomo.

    Melancholia Von Trier
    Fine che coincide con Melancholia, che è simbolo di questo sentimento, che danza e gioca col nostro cuore. L’Arte tutta è richiamata dal regista in questo suo quadro apocalittico che intrappola lo spettatore in una rete sublime intessuta di silenzi, immagini ricercate, echi wagneriani.

    Il regista danese riflette sul mondo, si spoglia e ci pone complici della sua opera, impone la sua arte e il suo stile, confrontandosi con una tematica estremamente stratificata: da un lato la fine del mondo è collettiva, dall’altro è una maschera che nasconde la depressione, l’ossessione di Justine, o dello stesso regista verso il disfacimento delle cose, già presente in un film come Antichrist, e che qui trova una piena dimensione apocalittica. Un’apocalisse artistica sulle note del Tristano e Isotta di Wagner, un drammatico ritratto dell’uomo senza speranza che scivola sull’inutilità delle convenzioni, che si aggrappa ai piccoli gesti di ogni giorno.

    Infine, il Prologo.

    Centro e fulcro del film è infatti il suo inizio: il film si apre con la danza di Melancholia e della Terra. Già nel prologo l’approccio estetizzante di Von Trier mostra l’insieme di fascino e terrore di fronte a qualcosa di immensamente più grande di noi. La malinconia, del resto, è questo insieme di amaro e leggiadro, che esprimono i grandi poeti decadenti, così paradossalmente vicini alla nostra epoca.

    Come i protagonisti della pellicola o i poeti dei secoli andati, anche noi ci lasciamo ammaliare da questo perfetto momento artistico e questa celestiale danza di morte, combattendo un fatale duello con la Malinconia, pronti a farci sedurre e vincere dalla luce lunare in attesa dell’alba.

  • L’Eneide di Virgilio: mito e propaganda nell’antichità

    L’Eneide di Virgilio: mito e propaganda nell’antichità

    Nel 19 a.C. sulle coste italiche, lungo la via che porta a Napoli, è sepolto l’autore latino forse più conosciuto al mondo: Virgilio[tooltip tip=”Nato nei pressi di Mantova il 15 Ottobre del 70 a.C. e morto a Brindisi (di ritorno da un viaggio in Grecia) il 21 Settembre del 19 a.C.”][2][/tooltip].

    Voluto da Augusto a celebrazione del suo operato e della sua gens, massima opera propagandistica di tutti i tempi, ha così influito sul nostro sostrato culturale da ritrovarsi ancora oggi nelle opere letterarie contemporanee e nei film epici che vediamo al cinema. Indubbiamente non è il poema più antico (oltre ai poemi Omerici vorrei ricordare il Gilgamesh) ma è una delle opere che ha influito di più sull’uomo e sulla sua storia poetica: la continua fortuna nel corso dei secoli medievali testimoniata dalle moltissime vulgate ne costituisce un solido esempio.

    Virgilio compose il poema su Enea, tra  il 29 e il 19 a.C. Non lavorò in maniera sistematica, ma compose di volta in volta i brani poetici seguendo la propria Musa ispiratrice. Il risultato è un testo incompiuto: il terzo libro come il quinto presentano evidenti lacune e discrasie con altri pezzi dell’opera, alcuni personaggi scompaiono per poi riapparire in un’altra scena e di nuovo morire: tale fenomeno è particolarmente evidente nelle descrizioni di battaglie che costellano la seconda parte del poema (libri VII-XII)[tooltip tip=”Il poema è chiaramente diviso in due parti: la prima (libri I-VI) sul modello dell’Odissea omerica (quindi un Ritorno come nel caso di Odisseo); la seconda (libri VII-XII) sul modello dell’Iliade (dunque un poema epico e guerresco).”][3][/tooltip].

    Pierre-Narcisse Guerin, Enea e Didone, 1815
    Pierre-Narcisse Guerin, Enea e Didone, 1815

    Poema di fondazione, frutto di un intenso lavoro da parte del nostro autore nel ridare nuova linfa e nuova luce a un personaggio secondario del mito troiano, fu accolto con grande entusiasmo dall’Imperatore, sostituì gli Annales di Ennio nelle scuole, divenne il testo di un popolo.

    Popolo che si riconosce nei valori del protagonista, il Pio Enea, giusto padre di Ascanio, solido guerriero e comandante di esperte legioni di combattenti. Un eroe saturo di virtù positive che regala in alcuni passaggi un po’ di amarezza (l’episodio dell’abbandono di Didone, libro IV) nonché ambiguità e sospetto riguardo la sua bontà (l’uccisione di Turno a fine poema).

    Sottomesso al Fato[tooltip tip=”A cui sono sottomesse le stesse divinità olimpiche che pure intervengono nei fatti umani all’interno del poema sino a quasi costituirne il motore dell’azione.”][4][/tooltip]  che lo vuole fondatore della Gens Iulia e per estensione di Roma si scontra con alcuni personaggi (a mio avviso) più grandi di lui: i su citati Didone e Turno.

    L’episodio della regina cartaginese è famosissimo, il suo amore impossibile lo riviviamo ancora oggi in moltissime opere con accenti e sfumature quasi sempre diversi. Turno invece è sempre rimasto nell’ombra (dove tra l’altro finisce nell’ultimo esametro del poema), eroe anche lui, condottiero di un popolo (i Rutuli) e sposo derubato della principessa italica destinata a riscaldare il suo letto: Lavinia. Delle molte scene che lo pongono protagonista in duello (l’ultimo e il più atteso con il Pio Enea, libro XII) quella che mi ha sempre entusiasmato di più, per composizione e gusto plastico dell’esecuzione (sintattica e linguistica) è quella che chiude il IX libro.

    Luca Giordano, Enea vince Turno
    Luca Giordano, Enea vince Turno

    E il giovane non riesce a far fronte né con lo scudo,
    né con la destra, tanto è travolto dai dardi scagliati
    da ogni parte. L’elmo con un costante tinnire risuona
    sulle tempie incavate, la salda corazza sotto le pietre
    si sgretola, il pennacchio è sbalzato dal capo; ai colpi
    non regge lo scudo: con le lance i troiani, e lo stesso
    Mnesteo fulmineo, paiono moltiplicarsi; su tutto il corpo
    gli gronda il sudore (gli manca il respiro) e scorre in un rivo
    denso di pece. L’affanno gli scuote le membra spossate.
    Allora, balzando a capofitto, si gettò armato nel fiume
    che l’accolse nella sua bionda corrente, lo librò con dolci onde,
    e lieto lo restituì ai compagni, purificato dalla strage[tooltip tip=”tooltip tip=”Virgilio, Eneide, vv. 806-818. Traduzione di Gabriele Stilli”][5][/tooltip]

    Dopo aver subito un assalto notturno da parte degli inseparabili amici Eurialo e Niso, Turno, profittando dell’assenza di Enea al campo dei Teucri[tooltip tip=”Altro nome con cui vengono indicati i Troiani, cioè Enea e compagni. Teucro era un infallibile arciere che morì durante la Guerra di Troia”][6][/tooltip], compie una strage al suo interno, aiutato da Giunone, moglie di Giove, mortale nemica del nostro eroe. Il ritmo della scena è serrato come l’originalità (molto cruenta) delle morti dei vari personaggi (un gusto dell’orrido che sfocerà nel posteriore poema di Lucano, Pharsalia[tooltip tip=”Composta da Lucano durante il regno di Nerone (54-68 d.C.). Lucano morì ancora giovane perché accusato di essere uno dei cospiratori della Congiura dei Pisoni (65)”][7][/tooltip]). Accerchiato dai nemici, non ancora pronto alla dipartita e aiutato dalla sua dea protettrice, Turno si getta nel fiume romano.

    Misura e armonia sono gli elementi cardine del poetare virgiliano, l’icastico tuffo di Turno nel biondo Tevere diviene simbolo di quest’arte: lavoro di lima e certosina attenzione ad ogni dettaglio (dei riti, degli eventi e dei paesaggi) per quanto non conclusi divengono esempio di classicità.

    L’ombra di Virgilio si staglia così sui secoli medievali, godendo di un’ininterrotta lettura all’interno delle classi agiate, ritornando opera di massa nel medioevo con le su citate Vulgate.

    Joseph Stallaert, La morte di Didone, 1872
    Joseph Stallaert, La morte di Didone, 1872

    Ritenuto cristiano, profeta nella IV egloga delle Bucoliche dell’avvento del Messia[tooltip tip=”In realtà non si tratta di Cristo ma probabilmente di uno dei figli degli amici del poeta. Nello specifico i filologi hanno pensato a uno ei figli di Pollione, Salonino o Asinio Gallo. Altri ancora ritengono si tratti di Augusto stesso o di uno dei suoi possibili figli”][8][/tooltip], è guida di Dante all’interno del regno infernale e poi nella scalata al Sacro Monte, lodato già nel primo canto della Commedia (vv. 79-87). Come quest’ultima, anche l’Eneide fu un testo immancabilmente presente nelle migliori biblioteche dei vari Regni e Stati che si sono succeduti nei secoli.

    Cosa ci intrappola nelle maglie di questo poema vecchio di duemila anni? Perché è ancora studiato, apprezzato da milioni di lettori? Cosa ci fa sussultare, tremare il cuore in petto? Cosa lo rende così sublime ai nostri occhi?

    Forse la lingua, la poesia intrinseca nelle parole virgiliane, l’animo sensibile del suo autore che traspare dai gesti dei suoi personaggi; l’assoluto che anima la storia e che è lì presente, come l’uomo e il suo destino di grandezza (o di miseria) che lo attende, un caleidoscopio di figure e sensazioni mai banali, sempre ricche di pietas e umanitas.

    Eppure il genere epico, come del resto tutti gli altri generi letterari, muta e si trasforma, mai uguale a se stesso, diverso in ogni autore, nuovo in ogni epoca.

     


    In copertina: Federico Barocci, Enea fugge da Troia.

    Nota: La traduzione si discosta leggermente dall’originale in alcuni punti. Riportiamo qui una traduzione letterale delle parti rielaborate. v.812: «Per tutto il corpo»; v. 813 «né la possibilità di respiro»; v.814: «un mesto affanno»; v.815: «con un salto a capofitto, con tutte le armi»; vv.816-17 «quello, accolse lui /che gli veniva incontro». 

  • Il Satyricon: un labirinto dal doppio volto

    Il Satyricon: un labirinto dal doppio volto

    Chi non conosce l’amore? Chi ignora le gioie di Venere?
    Chi non ama scaldarsi le membra in un tiepido letto?
    Il dotto Epicuro padre del vero lo insegna
    e afferma che questo è il solo fine di vivere[tooltip tip=”Petronio, Satyricon, traduzione di Piero Chiara, Milano, Mondadori, 1969, p. 367″][1][/tooltip].

    Encolpio, protagonista dell’unica opera pervenutaci del misterioso Petronio, maestro del buon gusto alla corte dell’imperatore Nerone, si è appena sfogato con il suo membro (sic) additandolo a causa di tutte le sue disgrazie. L’impotenza, l’incapacità di godere il fiore della giovinezza, inabissano Encolpio in una condizione drammatica: la vita non presenta più alcun piacere da cogliere, nessuna bellezza da godere.

    È un peccato che sia arrivato così poco del Satyricon: era probabilmente un romanzo picaresco, un labirinto di scene e di personaggi che possiamo leggere solo in parte, a frammenti. Ciò che ci è giunto, infatti, è costituito dai soli libri XIV, XV e XVI, che raccontano le avventure erotiche di questo Encolpio, con scene a sfondo sessuale (davvero molte e molto divertenti), che si susseguono in modo vorticoso: all’inzio la scena si apre con Encolpio che critica la retorica del suo tempo, nella scuola in cui segue le lezioni del suo maestro; subito dopo ci spostiamo in un mercato, in cui troviamo Ascilto, compagno di avventure e malefatte, che rischi a di essere violentato da un padre di famiglia; poi la scena si sposta ancora, e vediamo Encolpio amoreggiare in un lupanare con un tale Gitone, per venir sorpeso dall’amico Ascilto, gelosissimo. E così via.

    Anche a causa delle molte lacune, il Satyricon ci appare come una girandola, un fiume di discorsi, il più delle volte inutili, quasi da overlap comedy[tooltip tip=”Tipologia di commedia tipicamente hollywoodiana, nella quale l’effetto comico delle situazioni è ottenuto tramite  dialoghi sciolti e molto veloci, spesso non-sense.”][2][/tooltip]).  Encolpio e i suoi compari sono come pellegrini erranti in un universo soffocante e indefinito, dove la componente goliardica e lo sberleffo la fanno da padroni. Trascinati in una sarabanda di avventure ai limiti dell’assurdo e del parossistico, vittime e complici delle loro stesse disgrazie, cadono sempre negli stessi errori, in un buco nero che li trascina verso il basso e li inghiotte.

    Affreschi erotici di Pompei
    Affreschi erotici di Pompei.

    Se da una parte il Satyricon ci diverte, ci racconta tutta una serie di gioie della vita, la possibilità di viaggiare, o l’amore, l’altro volto, l’altra faccia, è riempire la vita con tutti questi fatti per soffocare l’angoscia che abbiamo dell’esistenza. Non è un caso che Seneca, negli stessi anni, parlasse del tempo, dell’importanza di viverlo in modo pieno, e di non finire come quelli che chiama “occupati”; come chi, cioè, riempie la propria vita di cose per fuggire la noia, il non-senso.

    Lo spazio labirintico del romanzo diviene simbolo dell’esistenza umana, di cui non si conosce l’obiettivo finale, il punto di attracco. Un caleidoscopio di personaggi e situazioni ci riempie le giornate, come quelle dei protagonisti, ma l’orizzonte è lontano, confuso nella nebbia. Riempiamo il vuoto con futili argomenti, con azioni che non portano su un nuovo sentiero, stabile e sicuro, di cui possiamo scorgere la fine.

    Il Satyricon possiede così due volti: per Petronio non bisogna sopprimere i nostri desideri (anche carnali), perché sono base fondante. fulcro delle nostre azioni: non è sempre la ragione a guidarci; anzi, il più delle volte è il cuore (o altre parti del corpo meno nobili) che impera. Se l’eros è tangibile nel romanzo, possiamo toccarlo e viverlo, così la morte è costantemente dietro le nostre spalle, ci pone un velo davanti gli occhi, una realtà non evidente ma sempre presente.

    Esempio principe di questa condizione, simbolo dell’opera petroniana, è l’episodio della Cena Trimalchionis, l’unica pervenutaci integra. Trimalcione (altro personaggio che sembra comparso dal nulla) è un liberto arricchitosi con i suoi traffici mercantili, chiacchiera con i suoi convitati, tra cui compaiono anche i nostri eroi, in un’ipocrita rincorsa alla meraviglia che sfocia nel ridicolo, in facezie e futilità.

    Affreschi erotici di Pompei
    Affreschi erotici di Pompei

    Allora, contrariamente a quanto dice il suo stesso autore, il Satyricon non è un libro leggero e candido, ma un romanzo nero, pessimista, colmo di critiche velate agli esseri umani, emblema della sua doppia esistenza.

    In questo il Satyricon è sì un classico della letteratura latina, ma anche un’opera incontrovertibilmente moderna. È un romanzo da leggere e rileggere, perché, anche a distanza di migliaia di anni, esprime la nostra vita. Nel Satyricon non c’è speranza nel futuro: tutto l’universo che esprime è senza obiettivo, e i suoi personaggi cercano di fare di tutto per dimenticarselo. Encolpio, a un certo punto, è il suo pene. Per Encolpio il suo pene è l’unica certezza, e alla fine perde pure quella.

    Tutto ciò è tragicamente simile alla nostra condizione. Anche noi riempiamo l’agenda di impegni, ci circondiamo di oggetti, eventi, piccole esperienze per non ricordare i grandi problemi di oggi, come, per esempio, il riscaldamento globale. Un problema così grande che ha tolto alle nuove generazioni la possibilità stessa di immaginare il futuro. Non è, come potrebbe sembrare, retorica: oggi sempre più giovani soffrono di problemi psicologici legati alle conseguenze dei cambiamenti climatici, che vanno sotto la definizione di eco-ansia. Come dice una frase famosa di Fredric Jameson, è più facile immaginare la fine del mondo, che non la fine di quel sistema sociale che lo sta minacciando.

    Allo stesso modo di Encolpio, ci facciamo scivolare addosso tutte le esperienze che facciamo, ma non ci diamo la possibilità di costruire una realtà differente. Sicuramente Petronio non voleva cambiare la propria realtà, probabilmente non voleva nemmeno alludere a questioni politiche e sociali nel suo romanzo, ma l’universo asfittico che crea ci riguarda molto da vicino.

     


    L’articolo ti è piaciuto? Leggi anche: Viaggio senza fine: i mille volti del Satyricon

  • Il carpe diem attraverso i secoli

    Il carpe diem attraverso i secoli

    Oltre le mura, sul volto i tiepidi raggi del sole morente. L’odore delle cucine, i rumori dei servi, i miei piedi sul sentiero che erto si inerpica sul colle, le mie mani nelle tue. La presente stagione.

    Tu non chiedere (conoscerlo è sacrilego) quale fine
    a me, quale fine a te gli dei abbiano dato, Leuconoe[tooltip tip=”Dalla bianca coscienza, nome di derivazione greca, è la giovane interlocutrice di Orazio.”][2][/tooltip],
    e non tentare le cabale di Babilonia[tooltip tip=” I calcoli che sul moto degli astri e sulle regioni del cielo facevano i maghi orientali, molto stimati in Roma.”][3][/tooltip]. Quanto è meglio,
    quel che sarà, patirlo! Che Giove ti abbia accordato
    molti inverni, che sia l’ultimo quello che il mare Tirreno
    strema contro gli scogli, sii saggia: filtra il vino[tooltip tip=”I romani filtravano con un colino i vini densi e pesanti per renderli più limpidi.”][4][/tooltip],
    e ritagliati una lunga speranza in uno spazio modesto.
    Mentre parliamo, già sarà fuggito il tempo invidioso:
    afferra l’oggi, credendo il meno possibile al giorno che viene.

    (Traduzione di Gabriele Stilli)

    Carpe diem: due parole, tra le più conosciute dell’antichità, che costituiscono una felice e fortunata espressione di Orazio, sintesi di un modo di rapportarsi al mondo e alla vita propria non solo del poeta ma anche di molti suoi contemporanei. Orazio ci invita ad afferrare l’oggi, a cogliere l’attimo, a non tentare di scrutare ciecamente ciò che è lontano, ciò che non possiamo prevedere.

    William Adolphe Bouguereau, Baccante, 1894
    William Adolphe Bouguereau, Baccante, 1894

    La matrice di questo pensiero è individuabile nella filosofia di Epicuro, filosofo greco del III secolo a.C., che verteva su una concezione di vita legata al piacere come elemento essenziale del raggiungimento della felicità. Orazio è un epicureo convinto, che esprime più volte un sentimento di placida ricerca del piacere, già nelle Satire, ma soprattutto all’interno degli Epodi, e infine nella sua opera più celebre, le Odi. L’invito del poeta è sempre lo stesso seppur variato in una serie di motti e situazioni: cogliere i sani momenti che la vita ci offre, non eccedere in smodatezze viziose e non lasciarsi tormentare dall’incertezza di un futuro oscuro e fumoso. In altre parole, l’edoné, il principio epicureo che invita a godere dei piaceri sani e naturali concessi all’uomo.

    L’epicureismo, contrapposto all’austera dottrina degli stoici, vivrà ancora per secoli  assumendo a volte connotazioni semplicistiche, ma anche annoverando autentici uomini di cultura (si pensi alla figura di Petronio Arbitro), fino a quando la civiltà latina non subirà un profondo mutamento antropologico: l’avvento del cristianesimo.

    Padre dell’Europa moderna, artefice e demiurgo della coscienza dei popoli mediterranei per i molti secoli del Medioevo, questo nuovo credo propone (impone?) una visione della vita, un rapportarsi con essa, totalmente opposto all’ottica edonistica. Pentirsi della vita, pregare non per un domani migliore, ma per la vita eterna che ci attende una volta varcata la soglia nera della morte. Tale cambiamento, una visione opposta della realtà, è da ricercarsi nel contesto concreto in cui operarono gli epicurei prima e i cristiani poi.

    I primi, gente potenzialmente ricca o comunque agiata, si muovono all’interno di una realtà multiforme, piena di attrattive e svaghi (non dissimile dalla nostra). Il piacere di cui parlano non è la corruzione della carne e del vizio: è una ricerca del giusto mezzo, per godere giusti piaceri. I secondi, oppressi e perseguitati, in uno stato di miseria, tendono a proiettare la loro felicità in un’altra vita.

    La mortificazione del corpo e l’esaltazione dell’anima sono solo alcuni dei concetti che guidano la vita dell’uomo medievale, intrappolato nella rete di credenze e riti che segna la sua quotidianità.  Nel corso di questi secoli quasi scompare la filosofia di Epicuro, mentre Orazio è letto in chiave cristiana e apprezzato soprattutto per il suo stile raffinato. 

    Umanesimo e Rinascimento, invece, riscoprono e reinterpretano la filosofia epicurea: personaggi come Lorenzo de’ Medici, e in generale il clima che si respira nell’Italia delle corti, riprende (in modo anche molto consapevole) quella raffinatezza e quel mecenatismo che erano tipici della cultura antica. Lorenzo De’ Medici, inoltre, è anche poeta e, come è noto, una delle sue poesie più note invita a godere dell’esistenza, in quanto «di doman non c’è certezza». L’Epicureismo si mescola e diventa quasi sinonimo di edonismo, spogliandosi nel contesto rinascimentale della saggezza e della severità propri dell’originale. Anche nel Rinascimento maturo l’opulenza e la raffinatezza delle corti si manifestano in una serie di affreschi, di iconografie che ricordano l’età dell’oro, Bacco e Arianna, i banchetti spensierati di figure mitiche e antiche. Questo si può vedere a Palazzo Schifanoia a Ferrara oppure, in particolare, a Palazzo Te a Mantova, in cui viene rappresentata la giocosità, le maschere, il divertimento: nella sala di Amore e Psiche, per esempio, possiamo ammirare il banchetto degli dei, in cui vediamo Sileno afferrare un’anfora di vino, vediamo figure seminude, animali esotici, spensieratezza e gioia. Il richiamo propagandistico è evidente: la corte dei Gonzaga è una riedizione moderna dell’età dell’oro. La prosperità di quell’epoca è la prosperità del presente.

    Nell’era contemporanea sono avvenuti così tanti sconvolgimenti, cambi di paradigma, di pensiero, che la filosofia antica ci appare lontana, e forse anche un po’ ingenua. Però, pur in questa grande distanza, si può individuare un’onda lunga, non tanto dell’epicureismo in sé, quanto dell’edonismo. Pasolini parlava di edonismo descrivendo la civiltà dei consumi: godere i piaceri concessi dalla vita è il nostro canto, ispirato da un materialismo non meglio definito, impostoci dalla realtà consumista che ci circonda, satura di possibilità da cogliere al momento.

    Parole rivolte al nostro intimo, ci influenzano e ci formano, testimoni della più grande arma che l’uomo ha a sua disposizione. Interpretate e reinterpretate nel corso dei secoli, parlano ad ognuno assumendo di volta in volta nuove sfumature e colori ma rimanendo al contempo sempre le stesse e veicolando sempre lo stesso invito: afferrare il presente, non turbarsi del domani.  Godere i caldi raggi del sole che morente si nasconde dietro alla collina, prima che il velo della notte ci chiuda gli occhi per sempre. Potremmo riaprirli in Paradiso o all’Inferno.

    Ma, nel dubbio…

     


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