Autore: Salvatore Ciaccio

  • Favola di New York di Victor LaValle: una favola per adulti

    Favola di New York di Victor LaValle: una favola per adulti

    Tra i più antichi ricordi che custodiamo come tesori nella nostra mente è possibile che ce ne sia uno in cui uno dei nostri genitori, accoccolato al nostro fianco sul divano di fronte al camino oppure sdraiato assieme a noi sotto le coperte del nostro letto, ci racconta una favola.

    Sono ricordi che affiorano da molto molto lontano, offuscati dalle nebbie del tempo che li circonda: ricordi che appartengono ad un momento della nostra vita in cui tutto ci appariva nuovo, in cui ogni angolo oscuro poteva celare la dimora di un mostro assetato di sangue, in cui il giardino era una foresta impenetrabile irta di rovi e la casa infondo la via il covo di una strega desiderosa di cucinarci a puntino.

    L’unico luogo che ritenevamo sicuro, in quei primi anni, era casa nostra, la reggia in cui vivevamo felici perché protetti dai nostri genitori, il re e la regina, dediti a soddisfare tutti i nostri bisogni.

    Eppure, ad un certo punto, questo equilibrio, questa vita colma di gioie, è stata brutalmente rovinata, disfatta proprio dai nostri protettori, quel re e quella regina che ci avevano riempito d’amore sino a quel momento.

    Come mai?

    In realtà, e adesso lo sappiamo bene, il loro è stato un gesto necessario, compiuto con l’obiettivo di farci crescere, di farci uscire dalla bolla di vetro in cui eravamo stati chiusi nei primi anni della nostra esistenza.

    Victor LaValle (credits: Teddy Wolff, modified)
    Victor LaValle (credits: Teddy Wolff, modified)

    Di conseguenza, spesso, per darci forza, ci immedesimavamo nei protagonisti delle favole che ci raccontavano da piccoli e ci soffermavamo a fantasticare sulle mirabolanti avventure che questi personaggi vivevano nei loro lontani mondi incantati: essere Jack ed affrontare il gigante a cui erano state rubate le uova d’oro era un po’ come affrontare il proprio padre arrabbiato e vincerlo in astuzia, combattere contro un drago e salvare la principessa in difficoltà era un po’ invece come conquistare la bambina che ci piaceva e sottrarla alle grinfie dei nostri nemici.

    Le favole, in molti casi, hanno dunque giocato un ruolo fondamentale nella nostra formazione, ci hanno aiutato a sconfiggere le nostre paure e ad affrontare con fiducia tutti i cambiamenti che abbiamo dovuto attraversare per crescere e diventare adulti.

    Crescendo la maggior parte di noi ha abbandonato le favole, relegandole al magico regno dell’infanzia, smettendo di credere all’esistenza di gnomi o streghe inquietanti un po’ come fa Apollo, protagonista di una favola ambientata a New York nei nostri giorni.

    Apollo è un libraio sempre indaffarato alla ricerca di un volume raro, di un pezzo da collezione che gli consenta di sbarcare il lunario. Ha avuto un infanzia difficile segnata dall’abbandono di suo padre e dai numerosi sacrifici fatti da sua madre per consentirgli di vivere al sicuro in una casa.

    Quando incontra Emma, una bibliotecaria dal corpicino minuto e d’animo gentile, sembra che la sua vita possa avviarsi ad un dolce lieto fine: i due si sposano, lei rimane incinta e pochi mesi dopo il loro matrimonio nasce il loro primo figlio, un maschietto.

    I primi mesi dopo la nascita del piccoletto sembrano andare bene: Apollo fa di tutto per essere un buon padre, portandosi il figlio a lavoro, ed Emma fa altrettanto, riempiendo il bambino di attenzioni e amore.

    Poi l’idillio si interrompe quando quest’ultima commette un atto indicibile.

    favola di New York

    Da lì in poi una serie di avventure condurranno Apollo alla ricerca della sua famiglia, una ricerca lungo la quale incontrerà diversi personaggi bizzarri, figure archetipiche uscite dai libri di fiabe per bambini che lo condurranno nei luoghi più oscuri di New York, luoghi in cui il protagonista sarà messo alla prova, dove farà i conti con sé stesso e con le persone a lui più vicine.

    Nel romanzo di Victor LaValle, infatti, New York sostituisce il bosco dei mondi di fiaba, divenendo il simbolo di un mondo oscuro e pieno di possibilità, scenario della vita adulta e pericolosa.

    Ed è proprio una favola dedicata agli adulti quella scritta dall’autore il quale rielabora il materiale fantastico proprio della tradizione storica al fine di meglio raccontare in termini universali le paure che affrontano oggi i genitori nella crescita di un figlio: dalle difficoltà economiche all’ansia causata dalle aspettative sociali che ci vorrebbero tutti dei buoni genitori, genitori certamente molto presenti ma al contempo lavoratori indefessi.

    LaValle filtra queste tensioni, che causano strappi, attraverso la rielaborazione del materiale fiabesco, vestendo le pagine di una leggera patina di terrore. Purtroppo però risulta rozzo in alcune sue scelte e scarsamente evocativo nelle descrizioni fantastiche o orrorifiche, concentrato com’è nel mantenere alta l’attenzione del lettore.

    L’elemento fantastico, molto funzionale, serve per lo più a rendere tangibili le paure dei personaggi come nelle favole ma non permette una profonda identificazione del lettore in Apollo: infatti, a differenza dei protagonisti delle favole che leggevamo da bambini, Apollo è un personaggio già troppo pieno della sua individualità da non poter riempire con le nostre ansie e le nostre paure.

    Capiamo e condividiamo le sue paure ma non le viviamo a pieno.

    Favola di New York resta comunque una piacevole lettura da fare accoccolati sul divano di fronte al camino oppure sdraiati sotto le coperte del nostro letto, una lettura che, attraverso il terrore che ci causa, ci permette di affrontare con fiducia e coraggio uno dei compiti più difficili della nostra vita: diventare dei buoni genitori.

     


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  • L’orso è il Diavolo: l’orso nella cultura medievale

    L’orso è il Diavolo: l’orso nella cultura medievale

    Storie di animali nel Medioevo – VI

     

    La morte di re Artù, avvenuta qualche giorno dopo la battaglia di Salisbury, si situa, secondo la leggenda, intorno all’11 novembre, al giorno che corrispondeva, più o meno, con la grande festa autunnale con la quale molti popoli del vecchio continente festeggiavano l’orso.

    Come l’orso va in letargo, così anche il re ursino non scomparve definitivamente, ma venne trasportato dalla sorellastra Morgana sull’isola di Avalon, luogo di attesa e di riposo situato nell’altro mondo.  Come ogni eroe messianico, anche Artù aspetta il momento adatto per tornare tra i vivi e così regnare di nuovo e condurre il suo popolo sul cammino della salvezza.

    L’11 novembre divenne quindi una delle date in cui si svolgevano dei rituali pagani dedicati alla figura dell’orso. La Chiesa, spaventata da questi rituali barbarici, cercò presto di rimpiazzarle con altre festività, come è accaduto per la festa del Sol Invictus, divenuta, come si sa, il Natale. E’ così che l’11 novembre diventò la festa di San Martino, uno dei martiri più importanti della tradizione francese.

    L’abitudine a manipolare il calendario da parte della Chiesa, inoltre, era antica e risaliva addirittura alla sua fase primitiva, quando era riuscita a far scomparire le celebrazioni pagane sostituendole con quelle cristiane. A partire dal V secolo, poi, lo sviluppo del culto dei santi e la creazione, poco per volta, di un gran numero di feste destinate a onorarli, furono efficaci soluzioni ai diversi problemi che presentavano i calendari delle diverse popolazioni che stavano via via evangelizzando.

    Fu così che nei primi mesi autunnali comparirono feste dedicate a Santi molto amati, come Martino o che alla fine dell’inverno si cominciarono a celebrare eventi quali la Presentazione al tempio di Gesù e la Purificazione di Maria, entrambi collocati il 2 febbraio. Molti popoli del Nord Europa infatti in quei giorni celebravano la fine dell’inverno e il ritorno della luce a cui si aggiungeva la gioia per il ritorno della fertilità della terra e soprattutto per l’orso risvegliatosi dal letargo invernale.

    L'orso è il diavolo

    L’azione sul calendario fu solo uno dei modi con cui la Chiesa combatté l’orso per circa un millennio: ancora prima di trasformarlo in una bestia stupida, ancora prima di sostituirlo con il ben più innocuo leone, cominciò ad effettuare una demonizzazione nei suoi confronti che lo rese l’incarnazione di ogni male.

    Questo processo, già iniziato in epoca tardoantica, si intensificò durante l’età carolingia, quando vennero organizzate vere e proprie battute di caccia volte ad eliminare fisicamente la bestia nei territori in cui era diffusa.

    L’antico re della foresta, già considerato nocivo da Plinio il Vecchio, autore latino ritenuto un’autorità per gran parte del Medioevo, venne definitivamente condannato da Sant’Agostino per il quale l’orso era nientemeno che il diavolo: ursus est diabolus.

    Nella Bibbia sono i Vangeli a rivelare per primi l’esistenza di quest’ultimo.

    Il Diavolo, infatti, non appare mai nell’Antico Testamento, o quanto meno non nella forma che gli fu attribuita nella tradizione cristiana. Solo nell’Apocalisse e nei testi dei Padri della Chiesa assume un ruolo importante divenendo un essere che pur essendo inferiore a Dio gode di una certa libertà e che nella sua azione di seduzione e tormento dell’animo umano non agisce quasi mai da solo.

    Per fare dell’orso un animale diabolico, tuttavia, i Padri della Chiesa disponevano di ben poco materiale biblico. L’orso di fatti non compare quasi mai nelle Sacre Scritture e quando accade lo si indica in modo vago o metaforico. Spesso, poi, compare in coppia con il leone, con il quale forma una coppia indissolubile come, per esempio, nell’episodio del giovane Davide che, ancora pastore, lotta contro un orso e un leone per salvare il suo gregge (I Sam, 17. 34 – 37).

    In più occasioni, però, alcuni versetti biblici prospettano, in forma di immagini o similitudini, la pericolosità dell’orso, animale selvatico, feroce, crudele, imprevedibile come il serpente, spietato come il leone. Questi passi biblici, anche se non numerosi, costituirono referenti efficaci per organizzare e commentare l’immagine diabolica del re della foresta.

    L'orso è il diavolo
    Miniatura dal Libro delle Ore, di Caterina di Cleves, 1440.

    Attorniato da legioni di demoni, il Diavolo diviene onnipresente in epoca feudale. La sua immagine rimane, per molti secoli, instabile e polimorfa, ed è solo con l’arte romanica, tra la fine dell’XI e il XII secolo, che questa assume definitivamente un aspetto orrido e bestiale. Il corpo, nella maggior parte dei casi, è magro e secco e ricoperto di peli, proprio come un orso o di pustole, come il drago. A questi dettagli si aggiungono la coda o di scimmia o di capro e delle ali da pipistrello a ricordare la sua condizione di angelo decaduto. Il volto, talvolta munito di grugno ursino o porcino, è deformato dalle smorfie. Come il loro comandante, anche i demoni, di dimensioni più piccole, vengono rappresentati nudi, pelosi e orribili.

    Per raggiungere i suoi scopi, cioè allontanare monaci e fedeli dalla retta via, il Diavolo impiega tutti gli inganni, tutti i travestimenti, tutte le tentazioni. Può assumere l’aspetto di una bellissima fanciulla o di un giovane ardente o, più spesso, la forma di un animale, generalmente spaventoso o ripugnante.

    L’elenco di questo bestiario è lungo e coincide con quegli animali che, per una ragione o per l’altra, sono criticati o disprezzati dalla cultura e dalla sensibilità medievali. Animali reali come il serpente, il rospo o la scimmia ed altri immaginari come il drago o il basilisco. In realtà, il bestiario del Diavolo non rimanda tanto all’animale quanto all’animalità: un braccio, un piede, peli e corna sono sufficienti a creare tale animalità.

    Ed è proprio in età feudale che il Diavolo assume spesso degli elementi ursini nelle immagini in cui è rappresentato. Muso, artigli e villosità contraddistinguono la sua figura, la stessa con cui si presenta nei sogni e nelle visioni degli uomini che ne restano terrorizzati. Questa villosità, a cui si aggiunge la somiglianza da sempre riconosciuta tra uomo e orso (entrambi possono stare seduti, si possono alzare e così via) lo rendevano particolarmente pericoloso anche perché durante i diversi rituali pagani, in particolare durante il carnevale, molti uomini si potevano travestire da orsi o, nei secoli centrali del Medioevo, da Diavoli.

    La Chiesa, ovviamente, non poteva accettare tanta perversione.

    Da qui la necessità di trasformare l’orso da animale diabolico, da campione dei vizi, ad una bestia stupida e di secondaria importanza quale poi diviene nelle pagine del Roman de Renart e in genere nella cultura del XII secolo, una bestia in cui nessun uomo si sarebbe voluto immedesimare.

     

    Continua il percorso: Un brutale seduttore: il sesso e l’orso nel Medioevo


    Per approfondire:
    M. Pastoureau, L’orso. Storia di un re decaduto, Einaudi, Torino 2008, pp. 60 – 61, 126 – 137, 144 – 151.

  • Da re a giullare: l’orso nella letteratura medievale

    Da re a giullare: l’orso nella letteratura medievale

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    Storie di animali nel medioevo – V

     

    Un giorno, un contadino di nome Liétard, mentre è intento a lavorare nei campi, si arrabbia con uno dei suoi otto buoi, augurandogli che vanga divorato da un orso. Brun, l’orso fedele del re Noble, che vagabondava nei dintorni, ode le parole del contadino e le prende alla lettera decidendo di divorare seduta stante il bue. Liétard, terrorizzato, lo scongiura di non farlo e per liberarsene gli offre la possibilità di recuperare il bue il giorno dopo. Brun accetta l’offerta e se ne va.

    Il contadino piange, è disperato, non ha idea di come scongiurare il nefasto evento quando giunge Renart, la volpe, che gli offre il suo aiuto in cambio del gallo del contadino, Blanchard. La volpe, infatti, ha osservato la scena da un cespuglio dietro il quale, spiega, si sarebbe nascosta anche il giorno dopo quando sarebbe arrivato Brun. Renart avrebbe spaventato l’orso facendo baccano e imitando i suoni dei cacciatori. Approfittando di ciò Liétard avrebbe dovuto intrappolare e uccidere Brun.

    Il giorno seguente il piano prosegue come previsto: Brun, terrorizzato, ascolta il consiglio di Liétard e si nasconde dentro un solco del terreno dove il contadino prima lo uccide con l’accetta e poi, non sazio, gli taglia la gola con un enorme coltello da macellaio. Giunta la notte l’uomo si fa aiutare da moglie e figlio a trasportare il cadavere dell’orso in casa dove lo fa a pezzi e poi lo mette sotto sale. Quando poi Renart compare il giorno dopo a chiedere il suo compenso, il contadino, furbo e fellone, finge di non ricordarsi niente. Ottiene il miglior risultato senza perdere niente, nemmeno il suo gallo!

    La storia di Liétard è una delle più violente raccolte all’interno dei diversi filoni che compongono il Roman de Renart, una delle fonti più preziose, assieme ai bestiari, per indagare l’immaginario dell’uomo medievale legato agli animali.  un’opera molto varia, di matrice colta, di cui spesso non si conoscono gli autori (come in questo caso).

    Il protagonista dei diversi episodi che lo compongono è Renart, la volpe, figura ambigua di cui di volta in volta vengono esaltate la furbizia e la capacità di districarsi con successo dalle situazioni più pericolose. Ad accompagnare la volpe nelle sue avventure, spesso vittime inconsapevoli, sono un coro di animali accuratamente scelti dal bestiario medievale, dei tipi più che dei veri e propri personaggi, simboli di vizi e virtù. Il re è un leone magnanimo e coraggioso, ad esempio, il lupo una figura meschina così come era percepita nella tradizione popolare. L’orso, una delle figure che compare più spesso, è una figura pigra e golosa, spesso irascibile e violenta. Ed è l’unica che muore mentre le altre, il lupo ad esempio, vengono solo mutilate.

    L'orso nella letteratura medievale

    Fra il XII e il XIII secolo la morte renatiana dell’orso è qualcosa di più che un semplice aneddoto: si tratta della morte simbolica di un re, una morte per altro caricaturale, nella quale si sottolineano tutti gli aspetti che caratterizzano il personaggio dell’orso (alcuni dei quali permangono ancora oggi): goffaggine, ingenuità e golosità.

    Nel Duecento la bestia non era solo umiliata nei racconti della tradizione colta ma anche dal popolo. Ormai era possibile vedere l’orso sulle piazze delle fiere e dei mercati, al seguito di giullari e ammaestratori cui obbediva come un pagliaccio triste e rassegnato. Ognuno poteva toccarlo, anche i bambini, senza timore.

    La presenza di domatori di orsi nel corso del XIII secolo è un dato molto interessante perché risulta essere un’eccezione. La Chiesa, infatti, aveva lottato sin dal IV secolo contro gli spettacoli da circo, sino ad ottenerne la soppressione. L’orso, invece, riceve un trattamento speciale proprio perché deve essere demolito, il suo culto estirpato.

    È lecito chiedersi, a questo punto, quanto fosse profondo e radicato il culto a lui dedicato e come questo si manifestasse nei vari ambiti della vita quotidiana e della cultura.

    L’orso era stato il re della foresta, lo abbiamo ripetuto diverse volte. I popoli del nord Europa lo veneravano da millenni, esaltandone la forza, l’audacia, il coraggio: uccidere un orso faceva di un uomo un eroe, un re.

    Nello specifico gli antichi Celti attribuivano all’orso una posizione simbolica di prim’ordine, così come avveniva per i Germani o gli slavi. A differenza che in queste due ultime popolazioni, dove l’orso era riconosciuto come il guerriero per eccellenza, armato di artigli e forza prodigiosa, l’orso dei celti era più un signore che un guerriero. Spesso era un re, qualche volta un dio.

    Per i celti il nome dell’orso era art, e simili erano i nomi con cui si indicava in irlandese (art), gallico (artos), in gallese (arth) e in bretone (arzh). Questa parola ricorda da vicino il nome di uno dei due più grandi re medievali, Artù, le cui origini sono indubbiamente celtiche.

    Nella mitologia gallese e irlandese sembra che Artù fosse in origine un re orso o, forse, una divinità ursina trasformata in sovrano leggendario solo in un secondo momento. Nei testi latini che raccontano le gesta di Artù questa natura ferina si perde così come nei romanzi cortesi del ciclo bretone scritti in volgare fra XII e XIII secolo. Questo legame con l’orso si conserva solo a livello linguistico: in epoca feudale solo qualche chierico era in grado di avvertire questo legame che rimaneva oscuro per la maggior parte dei lettori. Pochissimi, inoltre, sono gli episodi che hanno per protagonista un orso all’interno del ciclo arturiano e questi episodi non riguardano mai il re direttamente ma piuttosto le donne che lo circondano o i suoi cavalieri.

    Eppure, qua e là, i testi del ciclo lasciano trasparire questo rapporto, spesso in maniera implicita; tra questi l’episodio più esplicito si trova in uno dei testi più belli del ciclo, la Mort le roi Artu, scritto da un autore per noi anonimo intorno al 1220.

    L’episodio si trova verso la fine: Artù giace gravemente ferito e uno dei suoi fedeli compagni, il coppiere Lucano, si avvicina piangendo per dargli l’estremo addio. Artù, allora, si rialza e lo abbraccia tanto forte da schiacciargli il petto e spezzargli il cuore. Un evento strano e drammatico, inatteso e del tutto inutile allo sviluppo del racconto ma che ci ricorda come in origine Artù fosse dotato di una forza sovrumana, la forza di un orso. Come veniva accolta la morte del coppiere dal pubblico di allora? Erano in grado di intuire la natura ursina del re?

    Probabilmente no, perché il ricordo delle origini del re erano ormai state dimenticate così come era stato dimenticato (o quasi) il culto tributato al re della foresta in diverse regioni del vecchio continente. Un culto con un proprio calendario millenario che la Chiesa cercò di sostituire, riuscendoci infine, con il calendario dei Santi.

     

    Continua il percorso: L’orso è il Diavolo


    Per approfondire:
    M. Pastoureau, L’orso. Storia di un re decaduto, Einaudi, Torino 2008, pp. 55 – 59, 204 – 206.

  • Il leone nel medioevo: la conquista di un regno

    Il leone nel medioevo: la conquista di un regno

    Storie di animali nel medioevo – IV

    Come mai ci sono così tanti leoni nelle chiese medievali?

    È una domanda che mi sorse spontanea mentre passeggiavo col buon Luigi. Eravamo a Pavia. Aveva appena smesso di piovere quando ci fermammo ad osservare la facciata della chiesa di San Michele, una delle più belle che mi sia mai capitato di osservare, colma com’è di bestie e ghirigori fantastici ormai evanescenti.

    In realtà, spesso, quello che riconosciamo come un leone nelle chiese romaniche o gotiche sparse in Europa non è il grande felino africano ma più probabilmente una bestia generica, un mostro fantastico che richiama l’idea di leone ma non esclude quella di felino. Nel medioevo, comunque, non era difficile incontrare un leone; poterlo osservare, anzi, non era affatto un evento eccezionale, come potrebbe esserlo oggi.

    Infatti, sebbene allo stato selvaggio il leone sia scomparso migliaia di anni fa dal vecchio continente, questo invase dal XII secolo ogni ambito della vita quotidiana dell’uomo medievale che poteva incontralo da per tutto: in chiesa per le strade nei libri. Dipinto, scolpito, modellato, ricamato, tessuto, descritto, raccontato, pensato, sognato, il leone diviene il re del bestiario e dei serragli principeschi rubando il trono all’antico re della foresta: l’orso.

    Le tradizioni e le simbologie medievali del leone sono eredi delle tre grandi culture che hanno plasmato l’Occidente cristiano, ovvero quella biblica, greco-romana e barbarica.

    Leone sulla porta del Duomo di Pisa (credits: Gerrge Stelligwerf)
    Leone sulla porta del Duomo di Pisa (credits: George Stelligwerf)

    In età biblica il leone viveva ancora in Palestina: era un leone più piccolo del suo cugino africano, un razziatore di bestiame che compare spesso nella Bibbia, dove viene sottolineata la sua forza. Sconfiggerlo era un’impresa e di conseguenza tutti i re o gli eroi dotati di grande forza venivano paragonati a un leone. Dal punto di vista simbolico, però, era una bestia ambigua: crudele, astuto, nocivo, empio, il leone può incarnare le forze del Male e questa seconda lettura vale sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento. Allo stesso tempo esiste però anche una versione buona del leone, il cui ruggito esprime la parola di Dio, che viene adottato come emblema della tribù di Giuda, la più forte di Israele.

    Per i romani i leoni sono delle attrazioni nei giochi del circo, per i quali li fanno venire sia dall’Africa del Nord che dall’Asia Minore. Molti autori latini ne parlano, assegnandogli una sorta di primato d’onore su tutti gli altri animali. Nessuno lo definisce comunque il re degli animali: il primo a farlo, anche se con una sfumatura diversa, è Isidoro di Siviglia, che lo definisce “principe di tutte le bestie feroci”.

    I celti, invece, non conoscevano il leone e rimasero per lungo tempo impermeabili alle tradizioni mediterranee e mediorientali. Per loro il re era l’orso. I germani, infine, si mostrarono più permeabili a queste tradizioni, tanto che accolsero il leone abbastanza presto, anche in ragione della criniera del felino che ricordava l’abbondante capigliatura dei re barbari, inequivocabile segno di forza e di potere.

    Nella simbologia cristiana dell’alto medioevo il leone era ancora una bestia ambivalente. Agostino lo aveva condannato e così avevano fatto anche tutti gli altri Padri della Chiesa, per i quali era un animale diabolico. Le sue fauci erano come l’abisso dell’Inferno, lottare contro di lui era come lottare con Satana, sconfiggerlo era un traguardo che potevano raggiungere solo i più grandi eroi.

    Miniatura dal Bestiario di Northumberland, 1250-1260, opera di un miniatore sconosciuto.
    Miniatura dal Bestiario di Northumberland, 1250-1260, opera di un miniatore sconosciuto.

    Alcuni autori però, come Ambrogio o Rabano Mauro, riconobbero nel felino una dimensione cristologica in quanto.

    Inoltre, dal II secolo d. C., nella tradizione favolistica mediorientale, viene presentato come re di tutte le bestie (non ancora degli animali) dai connotati decisamente positivi sino ad arrivare nel XII secolo, nei rami più antichi del Roman de Renart, con la figura del Re Noble, a vestire i panni del re virtuoso degli animali.

    Ma fu soprattutto grazie ai bestiari che il leone acquisì del tutto una dimensione cristologica: il leone che cancella con la coda le proprie orme per sviare i cacciatori è Gesù che ha nascosto la sua origine divina incarnandosi nel seno della Vergine per ingannare il Diavolo; o, ancora, il leone che con il suo respiro restituisce la vita, dopo tre giorni, ai suoi piccoli, è l’immagine stessa della resurrezione[tooltip tip=”Tradizione, questa, strappata letteralmente dalla mitologia dell’orso. Di fatti, nella tradizione celtica l’orsa quando partorisce degli orsacchiotti morti e informi a cui è in grado di dare vita leccandoli.”][1][/tooltip].

    Una volta giunti a ciò però si pose un enorme problema ai teologi, ovvero come eliminare i lati negativi della bestia, un problema che durò a lungo tenuto conto anche non solo dell’autorità esercitata dalla Pagina Sacra ma anche dall’importanza di autori come Sant’Agostino che si erano scagliati contro il felino.

    La soluzione fu trovata tra XI e XII secolo quando venne creato il leopardo, figlio dell’amore incestuoso tra la leonessa e il pardus (una pantera?) sul quale vennero concentrate tutte le caratteristiche negative del leone. Questo cambiamento ha lasciato un segno profondo nella scultura architettonica di quei secoli: se, infatti, quasi tutti i leoni del romanico sono negativi, così non è più nel gotico perché vengono sostituiti dal fratellastro cattivo.

    Affresco nella chiesa di Burgos, Spagna, oggi al Metropolitan Museum di New York, di epoca duecentesca
    Affresco nella chiesa di Burgos, Spagna, oggi al Metropolitan Museum di New York, di epoca duecentesca.

    La consacrazione del leone, oltre che a passare attraverso la nascita e l’enorme diffusione dell’araldica – di cui magari ci occuperemo in un’altra occasione – si riconosce anche nelle opere d’arte quali miniature e affreschi e, nello specifico, nella sua presenza alla testa del corteo di animali che entrano nell’arca di Noè (o vi si trovano già sopra).

    Questo soggetto iconografico è particolarmente interessante perché mostra un bestiario accuratamente selezionato che forma una sorta di serraglio ideale che muta nel corso dei secoli. Ciò avviene perché il passo della Genesi dedicato al Diluvio universale rimane molto generico: in sostanza non viene nominata nessuna specie; ciò consentiva agli artisti e ai rispettivi committenti di scegliere gli animali da raffigurare.

    Tra il IX e il XIII secolo le immagini dell’arca fluttuante sui marosi del Diluvio non sempre mostrano animali identificabili anche se, quando lo sono, l’orso e il leone sono sempre presenti. A questi spesso si accompagnano altri quadrupedi, come cinghiali o cervi, perché più rispondenti al concetto di animale che si aveva nel medioevo rispetto alle bestie domestiche come capre o vacche. Spesso gli animali rappresentati sono quattro o cinque e tra questi si contano quasi sempre i due re. Solo a partire dall’epoca feudale l’orso comincia a cedere il passo al leone, quest’ultimo sovrano riconosciuto, il plantigrado ormai considerato un esempio di vizi e peccati.

    Il sostituirsi del leone con l’orso come re degli animali fu un fenomeno di lunga durata che vide nel XII secolo il suo momento cruciale, almeno nel vecchio continente. Inequivocabile testimonianza della vittoria del primo sul secondo la troviamo, inoltre, nelle dissertazioni teologiche sul martirio vergate da Onorio Augustodunensis, autore poligrafo di cui non sappiamo quasi nulla.

    Scultura del Castello di Heidelberg (credits: Hughes Songe)
    Scultura del Castello di Heidelberg (credits: Hughes Songe)

    In due opere dell’inizio del XII secolo Onorio parla di coloro che venivano divorati dalle belve: in che modo i corpi dei suppliziati, fatti a brandelli, potevano ritrovare la loro integrità alle soglie della vita eterna? Argomento di difficile soluzione, già peraltro dibattuto dai Padri della Chiesa, aveva attraversato i secoli dell’alto medioevo giungendo appunto sino ad Onorio che, nel suo Eulucidarium (1105) ne parla facendo diversi esempi.

    Onorio comincia con l’esporre il caso di un uomo sbranato da un lupo: dato che le due carni si mescoleranno è lecito chiedersi cosa accadrànel giorno del Giudizio: la carne umana e quella del lupo si separeranno? Il corpo dell’uomo ritornerà integro? Onorio non dà una risposta o, meglio, per far comprendere l’importanza del problema da lui sollevato si spinge oltre e si chiede cosa possa accadere se il lupo venisse mangiato da un orso. In questo modo i dubbi diventano ancora più grandi perché si aggiunge un’altra carne che si mischia con le prime due. Non contento, Onorio si spinge ancora oltre: e se l’orso viene divorato da un leone?

    Al di là del dibattito teologico, certamente avvertito come molto appassionante negli anni in cui scrive Onorio, ciò che ci interessa in questo caso è la gerarchia del regno animale che delinea una netta superiorità del leone sull’orso. Il testo di Onorio è un documento precocissimo ed è anche il primo che, in una lotta simbolica tra le due fiere, pone l’orso come l’animale sconfitto.

    Nessun autore dell’antichità o dell’Alto Medioevo si era spinto a tanto: la vittoria del leone era ormai totale e di ciò la Chiesa non poteva far altro che gioire. Il re della foresta che aveva occupato un ruolo fondamentale nell’immaginario dell’uomo per millenni era stato sconfitto, ed era stato sconfitto soprattutto perché così voleva la Chiesa che vi riconosceva una bestia pericolosa e di cui doveva svellere i numerosi culti che inficiavano il vecchio continente.

    La guerra all’orso cominciata secoli prima, ai tempi di Carlo Magno, e con la definitiva incoronazione del leone in ogni ambito della cultura si poteva ormai definire conclusa.


    Per approfondire:
    M. Pastoureau, Medioevo Simbolico, Editori Laterza, Roma Bari 2005, pp. 40 – 55.
    M. Pastoureau, Lorso. Storia di un re decaduto, Einaudi, Torino 2008, pp. 161 – 187.

  • Il re dei giocattoli: l’invenzione dell’orsetto di peluche

    Il re dei giocattoli: l’invenzione dell’orsetto di peluche

    Storie di animali nel Medioevo – III

    È una giornata uggiosa, novembrina. Luigi e io avvertiamo l’umidità che si appiccica ai vestiti, che li conquista e li oltrepassa insinuandosi tra i peli, sulla pelle per aggredire poi i muscoli i tendini la carne le ossa. Osserviamo la vetrina di un negozio di giocattoli. C’è un orsetto. Ha un’espressione ingenua, un sorriso ampio e un paio di occhi in cui mi sembra di scorgere una profonda malinconia.

    Il nostro legame con l’orso, con quello che una volta era il re della foresta, affonda le proprie radici nella notte dei tempi, quando l’uomo era solo una delle innumerevoli bestie selvagge che vagavano per il globo e condivideva luoghi e paure con altri animali e l’orso di peluche è solo l’ultima manifestazione, la più recente, di un rapporto privilegiato, tra uomo e bestia, che ha attraversato i secoli mutando più volte.

    In questo viaggio a ritroso nella storia partiremo dal Novecento, dalla realtà culturale che ci è più familiare per poi risalire indietro nel tempo sino alle origini dell’umanità. O quasi.

    Michael Sowa, L'orso
    Michael Sowa, L’orso

    L’invenzione dell’orsetto di peluche

    Oggi l’orsetto di peluche è solo uno degli innumerevoli giocattoli che i genitori possono comprare ai propri figli: robot, case, castelli e altri giochi molto più sofisticati (anche i videogiochi) sono comparsi tardi sugli scaffali dei negozi, spesso solo dopo il secondo conflitto mondiale. Sino agli anni Quaranta, infatti, il mercato ludico era dominato da bambole di stoffa e orsi di peluche. Conigli, cani, gatti, elefanti, pecore e leoni entrarono a far parte del bestiario dedicato ai più piccoli solo dagli anni Cinquanta; gli animali esotici poi, come il coccodrillo o il cammello, comparirono ancora dopo.

    Come mai l’orso fu il primo animale ad essere realizzato per i bambini? Perché si scelse l’orso e non il leone, da secoli ben saldo sul trono degli animali?

    Per provare a spiegare il motivo di tale scelta possiamo cominciare col raccontare la storia dell’invenzione dell’orsacchiotto di peluche, una storia molto interessante che si lega strettamente ad un episodio che ha per protagonista Theodore Roosevelt (1858 – 1919), uno dei presidenti degli Stati Uniti più amati del secolo scorso.

    Nell’autunno del 1902 il presidente andò a caccia, sport che amava sopra ogni altro, con al seguito un folto gruppo di accompagnatori. La battuta di caccia non fu affatto soddisfacente: per settimane il presidente cavalcò con il suo seguito per i boschi del Mississippi e della Luisiana senza sparare a nessun animale. Non sembrava infelice di ciò ma un accompagnatore, per noi anonimo, pensò lo stesso bene di far catturare un giovane orso, di legarlo senza farsi notare ad un palo e di chiamare poi il presidente. Roosevelt però non apprezzò l’idea dell’anonimo accompagnatore, proferì una frase divenuta poi celebre (“Se uccido quest’orsetto non potrò mai più guardare in faccia i miei figli”) e liberò l’orso. L’episodio venne immortalato da Clifford Berryman, il cui disegno divenne famoso prima in America, poi nel resto del mondo.

    Clifford Berryman Roosevelt e l'orso
    La vignetta di Clifford Berryman, pubblicata sul Washington Post con la didascalia:”Stabilire un confine sul Mississippi”, riferendosi alle dispute territoriali tra Louisiana e Mississippi allora in corso.

    La storia, che si sarebbe potuta fermare lì, ebbe un seguito, fondamentale per il nostro racconto. A Brooklyn, di fatti, il proprietario di un negozio di dolciumi e giocattoli, certo Morris Michtom ebbe l’idea, insieme alla moglie Rose, di confezionare un orsetto in stoffa e peluche partendo proprio dal disegno di Berryman pubblicato sul Washington Star, e di vendere gli orsetti ai bambini del quartiere. Fu un successo, un successo enorme che in pochissimi mesi oltrepasso le possibilità produttive della coppia di origini russe che si vide costretta a vendere, già nel 1904, i diritti di produzione alla Ideal Toy Corparation.

    Prima di vendere il suo brevetto Morris ebbe l’idea di chiedere alla Casa Bianca la possibilità di dare all’orsetto il nomignolo del presidente, ovvero Teddy. L’autorizzazione fu concessa e da allora l’orsacchiotto di pezza ebbe un nome proprio: Teddy Bear.

    Morris e Rose però non furono gli unici a fregiarsi dell’invenzione dell’orsacchiotto di peluche. Sempre nel 1902, ma in Germania, Margarete Steiff, una donna costretta in casa dalla poliomierite, aveva cominciato a realizzare degli animaletti in panno, tra cui, su suggerimento di un nipote che aveva studiato Belle Arti a Berlino, un orso. L’orso della Steiff si differenziava dal cugino americano perché aveva braccia e gambe articolate. Presentato alla fiera di Lipsia nel 1903, al tempo la più grande fiera europea, il giocattolo ebbe un successo eclatante e fece la fortuna della Steiff che ne godette sino all’aprile del 1912, quando affondò assieme al Titanic nell’atlantico.

    Ritratto di Margarete Steiff
    Ritratto di Margarete Steiff

    Oggi è impossibile dire chi dei due abbia avuto l’idea dell’orsacchiotto per primo anche se, molto probabilmente, l’idea di un giocattolo a forma d’orso era nell’aria da qualche decennio. L’orso, infatti, era presente nelle caricature e nei circhi da tutto l’Ottocento, oltre che nelle raccolte di fiabe. Un orso addomesticato che la società percepiva come malinconico e rassegnato a fare da attrazione alle folle urlanti che si burlavano di lui; un orso dallo sguardo distante, sperduto in verdi paesaggi boscosi dai quali era stato definitivamente cacciato, almeno nel vecchio continente.

    I primi orsacchiotti ereditarono questa malinconia: dinoccolati, dagli arti sensibilmente più lunghi rispetto agli orsacchiotti attuali, erano gobbi e dal muso lungo, dei fantocci che divennero subito depositari di molte delle prime scoperte che fanno i bambini che su di esso possono esercitare (e proiettare) paure e desideri. L’orso può essere il confidente, il complice, l’angelo custode, il migliore amico del bambino, un essere sul quale esercitare tutte le pulsioni che caratterizzano la prima infanzia.

    Può essere tutto ciò per i bambini ma non per gli adulti. Eppure, nel corso dei secoli precedenti l’orso non era stato solo l’attrazione dei circhi – e non la principale – o il fedele compagno dei bambini. A seconda dei periodi storici era stato il massimo esponente dei vizi umani o la bestia più coraggiosa della foresta. Ammirato e temuto, in molte culture aveva regnato incontrastato per diversi secoli sino a quando non si dovette scontrare, simbolicamente, con il leone, ancora oggi il re degli animali.


    Per approfondire: M. Pastoureau, L’orso. Storia di un re decaduto, Einaudi, Torino 2008, pp. 301 – 308

  • I provinciali di Jonathan Dee: America Today

    I provinciali di Jonathan Dee: America Today

    Ne I provinciali, edito da Fazi la settimana scorsa, Jonathan Dee racconta di nuovo l’America, come nel precedente “I privilegiati”, l’America dei primi anni Duemila, attraverso un caleidoscopio di personaggi nei quali è facile immedesimarsi e che nell’insieme formano un mosaico cangiante fatto di sogni, desideri e grandi fallimenti.

    La narrazione percorre poco meno di un decennio, dal 2001 al 2008, immettendo il lettore in un’atmosfera sospesa all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle, tra le strade di una New York deserta in preda alla paura.

    Le conseguenze di quell’attacco, per l’America e per il resto del mondo, le abbiamo sotto gli occhi ancora oggi. Lo stesso evento è stato mostrato e analizzato dai media, raccontato in fiumi di inchiostro, in km di pellicola che hanno donato agli USA se non un mito di fondazione, certamente una grande tragedia nella quale riconoscersi e alla quale fare ricorso per giustificare tutta una serie di scelte politiche e sociali che hanno condotto ad una grande insoddisfazione popolare. L’autore, di fatti, analizza questa insoddisfazione diffusa, riuscendo a sviscerare le emozioni contrastanti che tormentano il popolo americano e lo fa con una chiarezza disarmante, infilandosi a fondo nelle crepe delle vite dei provinciali che racconta, mostrandoci la desolazione che domina e ammorba le loro esistenze.

    Edward Hopper, Casa di Fort, Gloucester, 1924
    Edward Hopper, Casa di Fort, Gloucester, 1924

    Dopo un inizio che impressiona, soprattutto grazie ad una scrittura ruvida e magmatica, colma di invettive, turpiloqui che ben si amalgama con il carattere dell’anonimo newyorkese attraverso lo sguardo del quale siamo introdotti nella vicenda, la scena si trasferisce in provincia, nei Berkshire, uno dei paradisi naturali frequentati da ricchi villeggianti, croce e delizia degli abitanti del luogo. Lì, tra i diversi personaggi che formano il coro di voci variegato che compongono il mosaico, ci sono i diversi componenti della famiglia Firth, tra i quali spicca Mark, artigiano abbagliato dal sogno americano, un sogno che non esiste più e a cui si ostina ancora a credere, nonostante tutte le difficoltà che nel corso degli anni dovrà affrontare.

    Sono vite comuni quelle di cui ci parla l’autore, vite di gente ossessionata dal denaro: soldi che servono per sbarcare il lunario, soldi che servono per mantenere un certo status sociale, soldi che vanno moltiplicati sull’esempio dei ricconi di Manhattan, soldi che sono l’obiettivo ultimo al quale puntare perché si è veramente liberi solo se ricchi.

    Soldi grazie ai quali un broker, Philip Hadi, riesce a mettere le mani sull’amministrazione del paese, che riceve il favore dei paesani diminuendo le tasse e aiutando i piccoli imprenditori dei dintorni, uomini e donne tanto disperati (non tutti!) da accettare i soldi di un forestiero. Hadi è il motore dell’azione, il mezzo brutale attraverso il quale Dee ci dimostra come il sistema capitalistico sia sbagliato, o meglio, come questo ormai non sia più sostenibile per gli americani di provincia, divisi tra la necessità di un contatto con l’esterno, con la città, e la volontà di farsi isola, di distaccarsi dal mare inquinato nel quale sono infissi, come degli spilli e con il quale sono costretti a interfacciarsi.

    Edward Hopper, Casa di Adam, 1928
    Edward Hopper, Casa di Adam, 1928

    Tra i diversi personaggi, tutti ben descritti anche grazie ad uno stile che si adatta alle voci di ognuno di loro, al loro carattere, spicca Gerry, fratello rivale di Mark, leone da tastiera che, in un quadro desolante fatto di solitudine e disoccupazione, si siede dietro uno schermo e da anonimo si fa voce della comunità, fomentando odio dal cantuccio sicuro del suo appartamento. Una voce che ci permette di cogliere quanto il Web nell’arco di una manciata d’anni abbia cambiato le nostre vite, il nostro modo di intendere e di inserirsi in un dibattito (anche) politico.

    Attraverso l’intreccio delle vite che immagina, delle piccole tragedie di cui parla, Dee ci restituisce gli anni di un passato recente, gli anni che hanno formato il volto dell’America di oggi e sui quali è impossibile non soffermarsi a riflettere. Ha scritto, in altre parole, un romanzo americano in cui da americano parla di altri americani, spesso criticandoli con ferocia. Un aspetto, quest’ultimo, che lo avvicina a Gore Vidal, altro scrittore che in circa trent’anni è riuscito a comporre una vera e propria controstoria degli Stati Uniti.

    I provinciali, in ultimo, è un romanzo da leggere non solo perché piacevole, godibile sotto ogni aspetto, ma anche perché – almeno così è avvenuto per chi scrive – ci racconta la realtà di una nazione senza tralasciare nulla, neanche la più piccola tessera di un vasto mosaico.

     


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  • L’anima delle bestie: i processi agli animali nel medioevo

    L’anima delle bestie: i processi agli animali nel medioevo

    Storie di animali nel Medioevo – II

    Il processo della scrofa di Falaise, come scoperto per caso in Normandia qualche mese fa, è solo uno dei casi più noti e meglio documentati di questa categoria di avvenimenti, di quelle decine di processi agli animali che oggi ci fanno storcere il naso, lasciandoci increduli, ma che costellarono l’autunno del medioevo e che, anzi, proseguirono ben oltre le soglie della modernità.

    Un fenomeno curioso che nei mesi successivi a quella scoperta mi ha condotto in giro per le biblioteche e gli archivi sparsi per mezza Italia e che si è conclusa con l’incontro fortuito, in un caffè di Milano, con un esperto della storia degli animali, certo Luigi Gallo, al quale dopo qualche birra sono riuscito a strappare un’intervista che vi trascrivo qui sotto risparmiandovi, vi vedo già sorridere sotto i baffi, dalla lettura delle mie estenuanti ricerche ahimè prive di mirabolanti colpi di scena.

    Inizierei dalla domanda che ha dato origine alle mie ricerche: perché intentare un processo ad un animale? Per quale motivo?

    L’animale, nel Medioevo, ha un ruolo centrale nella vita dell’uomo, lo si trova ovunque: nell’araldica, nei proverbi, nelle canzoni, nelle chiese. La cultura medievale, almeno nell’Occidente cristiano, è nel complesso curiosa dell’animale e questa curiosità si esprime attraverso due correnti di pensiero: la prima usa l’animale in opposizione all’uomo, il secondo creato ad immagine e somiglianza di Dio, il primo forma di vita imperfetta e sottomessa; la seconda, con meno seguaci, coglie una relazione privilegiata tra animale e uomo che affonda le sue radici nel pensiero aristotelico e paolino.

    Da Aristotele, infatti, deriva l’idea di una comunità degli esseri viventi che nobilita l’animale, mentre dall’interpretazione dell’Epistola ai romani di San Paolo nasce l’idea che, poiché anche le bestie saranno liberate dal peccato, così come gli uomini, nel giorno del Giudizio, allora è giusto ipotizzare che abbiano un’anima pure loro. Da qui l’inserimento degli animali tra i figli di Dio, da qui tutta una serie di domande sulla presenza dell’anima nelle bestie, sulla possibilità di una vita futura per loro, da qui l’inserimento, per esempio, del maiale nella sfera della moralità. Hanno gli animali una responsabilità morale? I processi agli animali sembrano dire di sì. Inoltre, e ciò lo si deve tenere sempre in mente, il processo ha valore esemplare più per l’uomo che per l’animale.

    I maiali, in effetti, sembrano essere quasi i protagonisti assoluti di questi processi.

    Sì, è vero. Il caso meglio documentato è quello della scrofa di Falaise ma se ne contano molti altri. Anzi, benché gli animali chiamati a processo siano molti – ricordo alcuni processi fatti ai cavalli, ad esempio – il maiale è una sorta di principe del foro, presente nove volte su dieci. Ci sono molteplici ragioni. Il maiale, innanzitutto, è il mammifero più diffuso in Europa sul finire del Medioevo ed è anche il più vagabondo, lo si trova ovunque, per le strade, nei giardini, nei cimiteri a tentar di dissotterrare cadaveri.

    Ai nostri occhi potrebbe sembrare un’invasione! Ma forse la ragione più interessante è la sua parentela con l’uomo, per l’uomo medievale di certo più serrata di quella con l’orso o con la scimmia. Tale idea viene confermata dalla storia della medicina: per molto tempo, infatti, si sono dissezionati maiali anziché uomini sia a causa dei divieti ecclesiastici sia a causa della somiglianza tra il corpo suino e quello umano. E se il corpo del maiale, se le sue viscere sono così simili a quelle dell’uomo non può esserlo anche l’anima?

    Già, l’anima degli animali. Prima hai concluso dicendo che la presenza dell’anima nell’animale lo qualifica come soggetto morale, responsabile delle azioni che compie e di conseguenza punibile. Cosa hanno scritto a riguardo i giuristi e i teologi del tempo?

    Sino al Cinquecento inoltrato molti giuristi ritengono sia giusto condannare gli animali; Philippe de Beaumanoir alla fine del XIII secolo, ad esempio, afferma che i processi agli animali sono delle perdite di tempo, “giustizia sprecata” ma è per lo più ignorato. Pierre Ayrault, negli anni Settanta del Cinquecento, scrive che probabilmente gli animali, privi di ragione, non possono capire ciò che viene loro fatto ma vanno lo stesso giustiziati perché servano d’esempio agli uomini, i quali devono prestare maggior cura alle proprie bestie e ai propri familiari. Per i teologi, ancora, gli animali vanno giustiziati in quanto colpevoli e impuri.

    Per parte di questi, nello specifico, l’animale è anche parzialmente responsabile dei suoi atti perché possiede un’anima, un’anima non solo vegetativa, come quella delle piante, e sensitiva ma anche, almeno per quanto riguarda gli animali “superiori”, anche intellettiva[tooltip tip=”L’anima vegetativa è dotata del principio di nutrizione, della crescita e della riproduzione; quella sensitiva del principio di ogni sensazione e quella intellettiva dell’intelletto. Michel Pastoureau, Medioevo Simbolico, Editori Laterza, Roma Bari, 2005, pp. 21 – 39.”][1][/tooltip].

    Per Tommaso d’Aquino però, sebbene per lui l’animale superiore sia dotato di conoscenza sensibile oltre che della capacità di provare affetto, non percepisce comunque l’immateriale, non pensa l’astratto. In altre parole, l’animale percepisce solo ciò che è contingente, mentre ogni nozione astratta, anche religiosa, gli è interdetta. Di qui la condanna da parte del santo dei processi agli animali. Ma, comunque, come ho detto all’inizio, per molti teologi e giuristi gli animali hanno responsabilità morale e per ciò vanno processati.

    Dunque, in conclusione, si può dire che nel tardo medioevo i processi agli animali vengono fatti soprattutto per il loro valore esemplare, per indicare agli uomini la giusta via da percorrere, per ricordare loro che nulla sfugge alla giustizia, neppure l’animale. Oltre al maiale, su cui ci siamo concentrati, quali altri animali venivano processati?

    Beh, negli ultimi secoli medievali vennero intentati dei processi agli altri animali domestici come asini, bovini, cavalli, cani. In questi casi l’animale è considerato come singolo. Ci sono poi processi fatti ad animali considerati collettivamente: lupi e cinghiali che devastano il territorio oppure roditori o addirittura insetti che devastano interi campi coltivati. Quest’ultima tipologia di processo si concentra sull’arco alpino ed è un fenomeno che ha una durata secolare; gli ultimi testimoniati sono dei primi del Seicento, ad esempio.

    I processi agli animali rappresentano certamente uno dei fenomeni più curiosi tra quelli giuntici dall’epoca medievale e anche uno dei meno conosciuti. Ma l’animale, come detto all’inizio dal caro Luigi, è il protagonista non solo della storia giuridica ma pure di quella letteraria e artistica, del folklore medievale. A tal proposito è molto interessante la storia dei bestiari medievali e, su tutte, la storia di come il re degli animali sia effettivamente diventato re, una storia di cui potremo discutere un’altra volta.


    Luigi Gallo è un personaggio di fantasia così come l’intervista che avete appena letto. Gli argomenti trattati, invece, sono il frutto di anni di studio dello storico M. Pastoureau.

  • La Bibbia di Borso d’Este e le miniature del Quattrocento

    La Bibbia di Borso d’Este e le miniature del Quattrocento

    Immaginatevi un cielo blu, di un blu profondissimo e perfetto: le stelle una a una stanno bucando la volta mentre la luna, sulla sinistra, assume un contorno sempre più definito. E all’improvviso passa una cometa, brillantissima, che rapisce il nostro sguardo e cattura tutta la nostra attenzione.

    Se il cielo è il rinascimento italiano, quella cometa è la pittura ferrarese del Quattrocento, e in particolare un’arte spesso dimenticata e invece ricca di grande fascino: la miniatura.

    Siamo nel 1455, in primavera. Borso d’Este, signore di Ferrara, fratello del compianto Leonello, figlio del possente Ercole, ha deciso di spendere un po’ di denaro e di farlo regalandosi la più sontuosa copia che si sia mai vista di uno dei pochi bestseller millenari, la Bibbia.

    Il buon Borso non è ancora Duca, o meglio, non ha ancora sborsato fior fiori di lire per acquisire il titolo che gli dovrebbe conferire l’imperatore. Sa, però – è un politico raffinato – che per legittimarsi non bastano solo le corti ammantate d’arazzi e rivestite d’affreschi o feste e pranzi luculliani per acquisire agli occhi del mondo uno status di grande rispetto. Servono anche i libri, dei bei libri da mostrare in determinate occasioni.

    Indi per cui affitta una casa a un paio di miniatori: Taddeo Crivelli, ferrarese, nato circa trent’anni prima da un notaio e dalla sua simpatica moglie e Franco dei Russi, un mantovano profondamente suggestionato dall’opera di Pisanello e di Belbello da Pavia – miniatore tardogotico dallo stile raffinato e dai colori sgargianti.

    Franco dei Russi, Principio del libro di Giosuè, Bibbia di Borso d'Este, II, f. 88, v, Biblioteca Estense di Modena
    Franco dei Russi, Principio del libro di Giosuè, Bibbia di Borso d’Este, II, f. 88, v, Biblioteca Estense di Modena

    I due si mettono immediatamente a lavoro: i sei anni di tempo che gli sono concessi per preparare l’opera sembrano molti, ma passano in un lampo, se si conta la mole dell’opera: due volumi, per un totale di seicento carte di cui dovranno miniare ogni singola pagina. Un’impresa notevole e dispendiosa: se di fatti un normale manoscritto non costa di certo poco, questo finirà certo per avere dei costi esorbitanti: in effetti, il potere costa.

    I due, ovviamente, non possono eseguire l’immane compito da soli. Chiamano, a seconda delle necessità, una serie di aiuti a cui vengono affidati, di volta in volta, lavoretti da eseguire: ripassare a inchiostro i disegni precedentemente stesi con lo stilo, stendere i primi strati di colore. Pare che fossero ben diciassette gli artisti all’opera, di cui non conosciamo i nomi, a parte qualcuno, e tra questi spicca anche un protetto di Andrea Mantegna, tale Girolamo da Cremona, virtuoso della miniatura che lavorerà nientemeno per la marchesa di Mantova Barbara di Brandeurgo, e per alcuni libri liturgici della Libreria Piccolomini.

    Oggi, chi ha la fortuna di osservare il codice conservato a Modena, non può non strabuzzare gli occhi osservando la varietà dei colori e la ricchezza, sfrontatamente esibita, delle decorazioni che incorniciano il testo su ogni pagina, per le scene che si distribuiscono sulla stessa con varietà e originalità del tutto straordinarie.

    Sfogliando il codice si possono osservare la diversità di linguaggio che caratterizza la mano di ogni miniatore e, nel caso dei due artisti principali, l’evoluzione che esso subisce nell’arco di un lustro.

    Se, da una parte, Taddeo Crivelli traccia forme arrovellate, nervose, i cui colori saturi disegnano un mondo non di certo allucinato ma sicuramente molto esuberante in cui i personaggi del testo sacro sono immersi in un’atmosfera cortigiana, dall’altra il buon Franco dei Russi non è da meno, nel tratto metallico delle sue figure. Sembra un mondo fiabesco – rocce simmetriche, alberi lussureggianti – quello tracciato da questo mantovano, un mondo in cui il colore sembra quello delle gemme preziose. Un mondo in cui gli animali sembrano soffici, chiusi come sono in dei tondi che si inseriscono nelle ricche cornici preziose che avranno grandissimo successo nei decenni successivi nel Nord Italia.

    Gerolamo da Cremona, Annunciazione e natività della Vergine, Bibbia di Borso d'Este, II, f. 157 v.
    Girolamo da Cremona, Annunciazione e natività della Vergine, Bibbia di Borso d’Este, II, f. 157 v. Biblioteca Estense di Modena.

    Una delle pagine più belle si trova all’interno del secondo volume, alla carta 157. Siamo all’inizio del Vangelo di Luca, come possiamo leggere in alto. Dopo l’esuberanza delle opere dei due miniatori principali possiamo immergerci in un ambiente più ampio, dalla prospettiva profondissima. Questa pagina, infatti, è stata eseguita da Girolamo da Cremona il cui rapporto con Andrea Mantegna si palesa in una serie di citazioni che il giovane miniatore fa delle opere del suo maestro.

    Concentrandoci sulla miniatura in basso possiamo notare come le colonne che reggono il portico in cui si svolgono le scene dell’Annunciazione (ai lati) e della Nascita della Vergine (al centro) siano modellate su quelle che incorniciano lo spazio della Pala di San Zeno, una delle opere più note del Mantegna conservate a Verona nell’omonima basilica. Il fusto scanalato, il capitello composito sono una diretta citazione della pala d’altare del maestro, a loro volta un recupero archeologico dell’antico. Non solo. Inoltrandoci nello spazio possiamo osservare le pieghe rettificate degli abiti – osservate l’angelo a sinistra! – che richiamano le statue togate dell’antichità o, ancora, i dettagli domestici che si possono scorgere nella stanza centrale: in alto a sinistra, sopra il letto, si possono osservare dei piatti esposti in quella che dovrebbe essere una credenziera. Poi, oltre lo spazio dell’edificio, si estende un paesaggio roccioso, anche quello mantegnesco.

    Tutto ciò dimostra come Girolamo e i diversi miniatori che hanno partecipato all’impresa della decorazione della Bibbia non stavano operando lontani dal resto delle novità che arricchivano il nord della penisola, ma al contrario erano profondamente immersi nella vita artistica del tempo. Erano infatti artisti che si spostavano da una corte all’altra, che piegavano la propria arte al committente di turno: come abbiamo detto Girolamo qualche anno dopo lavorerà a Mantova per i Gonzaga, Crivelli si sposterà a Bologna, dei Russi a Padova. Ognuno di loro farà tesoro delle proprie esperienze e, nel corso degli anni, diffonderà le novità sviluppate a Ferrara.

  • Elmet, l’incantevole romanzo di Fiona Mozley

    Elmet, l’incantevole romanzo di Fiona Mozley

    Ci sono libri che ti lasciano in mente una gran voglia di fare. Di scriverne, di parlarne, di studiarci sopra. Altri invece ti fanno rimanere lì, in silenzio. Senti che c’è qualcosa di grande dentro e non sai cosa sia, lo cerchi e non riesci mai veramente a trasformarlo in parole. Elmet, il romanzo di Fiona Mozley recentemente pubblicato da Fazi, è proprio uno di questi.

    Ai margini di un boschetto fatto di querce faggi e altre decine di alberi, nello Yorkshire, un giorno sorge una casa, dal nulla. A costruirla, per avere un posto dove vivere nel vasto mondo (crudele), sono un padre con i suoi due figli adolescenti, Daniel e Cathy, fratello e sorella legati da un rapporto profondissimo, da un amore che supera le differenze tra i due e che si fa forte proprio di questa diversità, dello sguardo limpido con il quale osservano il mondo, giudicano le persone, agiscono.

    Laddove Daniel è un ragazzo calmo e riflessivo, Cathy risulta essere una giovane donna determinata, coraggiosa e volitiva. Entrambi, però, condividono paure e dubbi rispetto a un mondo che non loro non è stato clemente.

    Su di loro, poi, giganteggia l’ombra (e la protezione) del padre, un pugile non professionista, un omone così grande che sembra ricordare i grandi orsi delle foreste primordiali, quegli orsi che erano stati rivestiti, durante i primi secoli del millennio medievale, di un’aura sacrale, perché forti, perché invincibili.

    André-Derain, Montagne di Collioure, 1905
    André-Derain, Montagne di Collioure, 1905

    In effetti, lungo l’arco del romanzo, questo padre colossale e selvatico – tanto selvatico da essere degradato più volte a bestia – viene paragonato ad un animale gigantesco da Vivien, un’amica della famiglia protagonista del racconto, uno dei non molti personaggi che respirano tra le pagine della storia.

    Parlando con Daniel, il più giovane, la donna tesse un paragone che costituisce una delle pagine più belle del romanzo:

    «Hai mai visto una balena, Daniel?»
    (…)
    «E in televisione ne hai mai vista una saltare?», domandò lei «Escono completamente dall’acqua e poi vanno di nuovo a sbattere contro la superficie del mare. (…) Nuotano per giorni, o anche settimane, si nutrono, dormono, respirano e cominciano a pensare all’ultima volta in cui sono balzate fuori dall’acqua e a quello che hanno sentito quando la testa, e poi il corpo e le pinne, e poi la coda, tutto quanto è emerso dal mare, e a cosa hanno provato librandosi per un attimo in una sostanza che gli riempiva i polmoni ma gli seccava gli occhi. E poi ricordano soprattutto come è stato ritornare in acqua dopo quell’attimo trascorso in aria. Il tonfo. Lo spruzzo. La balena continua a ripensare al balzo, sempre più spesso, finché il bisogno di ripeterlo diventa irresistibile, e allora si lancia fuori dall’oceano e subito ricade di nuovo. E per un po’ si placa. Tuo padre è così, credo. E come una grande balena. E quando combatte, per lui quello è l’equivalente del salto. Però più sanguinoso, molto di più. (…) Lo calma»

    (Fiona Mozley, Elmet, trad, di Silvia Castoldi, Fazi Roma, 2018.)

    Come un enorme cetaceo il padre dei due ha una mente sfuggente, immersa nei silenzi, possiede un corpo dedito all’azione e che nell’azione (non per forza violenta) si esaurisce

    Elmet FIona Mozley

    Un cuore ramingo stanco di fuggire, che tenta (letteralmente) di costruire un futuro per i suoi due figli, un futuro e ancor prima un presente senza cedere a compromessi (con la società, col mondo) e perciò già nel suo atto di nascita condannato ai margini.

    I margini del boschetto, dietro i binari della vecchia ferrovia, sono un confine tanto reale quanto simbolico. Tra gli alberi si respira la libertà, la possibilità di essere se stessi sino in fondo, l’occasione di non dover rendere conto e ragione a nessuno

    La casa è un rifugio, il nido familiare nel quale poter trascorrere gli inverni, fatta da stanze e pareti da poter arredare con ricordi lieti, da poter riempire col profumo della vita quotidiana che placida scorre lungo il sentiero degli anni.

    Elmet è il nome altomedievale della parte di Yorkshire in cui è ambientato il romanzo: un regno remoto, ultima roccaforte dei popoli celto-romani circondati dai nuovi popoli germanici, ancora selvaggio. Poprio come Elmet, la piccola famiglia, ai margini della società, si deve confrontare con l’esterno, accettarne le regole e convivere, oppure, al contrario, lottare con violenza, con tutti i modi in cui questa si può manifestare e renderli vittime, ancora una volta, di quel mondo dal quale hanno cercato di fuggire.

    Fiona Mozley costruisce, come i suoi protagonisti con la loro casa, un romanzo solido, colmo di descrizioni liriche dal sapore quasi ottocentesco che ci immergono in un’atmosfera onirica fatta di sogni destinati a infrangersi contro la dura realtà. Una realtà e un mondo che non dimentica nessuno, soprattutto i più poveri, soprattutto gli spiriti liberi in cerca di tranquillità, di una serenità pura non inficiata dalla corruzione che irrimediabilmente corrode gli uomini che attraversano il mondo o, semplicemente, vivono.

     

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    In copertina: André Derain, L’estaque, 1905

  • Strani imputati: i processi agli animali nel medioevo

    Strani imputati: i processi agli animali nel medioevo

    Storie di animali nel medioevo – I

    Siamo a Falaise, poco a sud di Caen in Normandia. Al nostro arrivo ci ha accolto un paesaggio verde, mosso da dolci pendii coperti di verzura e punteggiati da hgruppi di alberi sempreverdi mentre il Castello normanno di Guglielmo il Conquistatore (Sì, QUEL Guglielmo, quello della Battaglia di Hastings del 1066), arroccato su un promontorio a guardia del paesello, ci ha conquistato con i suoi resti maestosi.

    Decidiamo di attraversare il borgo, di entrare nella chiesa della Santa Trinità della quale percorriamo la navata sino a giungere all’imbocco del transetto sud. Proprio dietro l’angolo, acquattato quasi, siede un vecchiarello, di sicuro un abitante del posto.

    Comincia a parlare con un accento molto marcato.

    Noi, fortunatamente, capiamo (e parliamo) piuttosto bene il francese – abbiamo lavorato a Rouen per più di un anno, una storia lunga, magari ve la racconto un’altra volta – per cui non abbiamo alcuna difficoltà ad intendere ciò che ci dice il simpatico nonnetto.

    Eppure non possiamo fare a meno di strabuzzare gli occhi, interdetti.

    Ci parla di un affresco, il vecchio, un affresco ormai perduto che si poteva ammirare, una volta, proprio lungo la parete occidentale del transetto. Il soggetto rappresentato era affatto singolare: da una parte si potevano vedere i resti smembrati di un bambino ai piedi di alcuni i gradini, il fratello di poco più grande inorridito a quella vista affiancato da una culla. Scorrendo, quasi come la striscia di un fumetto, un’altra scena con al centro una scrofa vestita in giacca, brache e simili di fronte ad un uomo a cavallo e circondata da una folla urlante. Il tutto sormontato da un enorme forca.

    Animali nel medioevo: Ambrogio Lorenzetti, Gli effetti del Buon Governo, Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena
    Ambrogio Lorenzetti, Gli effetti del Buon Governo, Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena

    Affascinati, chiediamo ulteriori spiegazioni: si tratta dell’esecuzione a morte di una scrofa? Si tratta di un animale assassino? Perché imbastire un processo ad un animale?

    È il gennaio del 1386, un vento gelido soffia per le strade sterrate del borgo, alzando dei nuvoloni di polvere fastidiosi; il castello svetta sulle case conservando intatta, anche di giorno, quell’aura spettrale di cui si ammanta ad ogni crepuscolo. Per le strade si aggira una scrofa affamata. Ai piedi di alcuni gradini trova di che cibarsi: è consapevole del suo atto? Il bambino è ancora in fasce, sembra abbandonato. Il suo nome è Jean Le Maux. La scrofa lo annusa, lo azzanna: gli strappa un braccino, poi passa al viso ma già arrivano i soccorsi, viene bloccata da una folla che diviene sempre più grande. Il bambino è raccolto dal padre, ormai solo un piccolo fagotto senza vita.

    Il popolo – e con lui la famiglia dell’assassinato – chiede giustizia! Che si faccia un processo che possa servire da monito agli altri animali, che si punisca in modo esemplare l’infanticida davanti ai suoi simili!

    La scrofa viene scortata in prigione, dove rimane per nove giorni, il tempo necessario affinché la burocrazia faccia il suo corso. Il mesfet[tooltip tip=”Misfatto”][1][/tooltip] è evidente ma la bestia ha la possibilità di richiedere – e ottenere – un deffendeur il quale si trova per le mani un compito impossibile: come difendere un animale così sfacciatamente colpevole? Allo scadere dei nove giorni non viene nemmeno il prete per l’estrema unzione: a soli tre anni Betty[tooltip tip=”Il nome ovviamente è di fantasia, il resto della storia no.”][2][/tooltip] è condannata alla forca.

    Il giorno dell’esecuzione Betty viene vestita con abiti umani e trascinata da una giumenta lungo le vie del borgo, dal castello al sobborgo periferico di Guibray: partecipano all’evento il visconte, Regnaud Rigault, i contadini, le rispettive famiglie ivi compresi i componenti dalla pelle rosea a quattro zampe.

    Fatta salire sul patibolo il boia trancia a Bet il grugno e la priva di una coscia – in perfetta analogia con ciò che la scrofa si era mangiata del povero Jean. Di seguito, dopo averla agghindata con una maschera a figura umana, lo stesso boia l’appende per i garretti.

    Animali nel medioevo

    Una volta morta, però, il supplizio non finisce: viene richiamata la giumenta alla quale viene legata la carcassa dell’assassina – dopo aver mimato, en passant, un ulteriore strangolamento – e fatta trascinare per il paese. Ciò che rimane dell’animale viene dato alle fiamme e per quanto riguarda le ceneri, be’, non sappiamo cosa ne fecero ma possiamo immaginarlo.

    Si conclude così uno degli innumerevoli processi intentati ad animali meglio conosciudagli storici. Se spesso, infatti, si ha notizia di questi rituali solo tramite riferimenti indiretti (magari anche solo cronache che si limitano a citare tali eventi) nel caso specifico della scrofa di Falaise possediamo diversi documenti d’archivio, non ultimo una quietanza presentata dal boia per il risarcimento (materiale e simbolico) dei guanti utilizzati durante l’esecuzione.

    I processi intentati ad animali hanno luogo in tutta Europa lungo un arco temporale che abbraccia tre secoli, quelli del trapasso dall’epoca medievale alla più illuminata modernità.

    La loro esistenza non può far altro che suscitarci una serie piuttosto ampia di domande, le quali vanno dalla concezione che l’uomo medievale aveva dell’animale (Gli animali hanno una coscienza? Capiscono le punizioni? Hanno un’anima?) al significato che potevano assumere certi rituali all’interno della società del tempo.

    Ma questa è una ricerca più ampia, che dovremo approfondire all’interno di qualche biblioteca o, ancora meglio, seduti in poltrona davanti al fuoco scoppiettante di un camino.

    Salutiamo il nonnetto, scambiando con lui uno sguardo d’intesa e di ringraziamento e usciamo dalla chiesa. L’azzurro del cielo è scomparso, sostituito dal grigio plumbeo di alcuni nuvoloni che portano tempesta.

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    Per approfondire: Michel Pastoureau, Medioevo Simbolico, Ed. Laterza Roma-Bari, 2007, pp. 21-28.

  • La statua di sale di Gore Vidal: Be Gay in the USA

    La statua di sale di Gore Vidal: Be Gay in the USA

    Il sole spuntava sulla terra e Lot era arrivato [in cima al monte], quand’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco proveniente dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo. Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale.

    (Genesi, 19, 23-26)

    Il significato più profondo del terzo romanzo di Gore Vidal, La statua di sale (The city and the pillar, 1948), riedito da Fazi è tutto racchiuso in questa manciata di parole, in quell’unico gesto compiuto dalla moglie di Lot, quel guardarsi indietro che le risulta fatale.

    È il ricordo di un momento, di una passione percepita come naturale e al tempo stesso proibita ad animare e strutturare l’intera vicenda di Jim Willard, ragazzo “normale” – bello biondo atletico educato – ossessionato dall’estasi di quel momento.

    Sullo sfondo compare la tipica famiglia americana del sud, immersa nel giallo paglierino dei campi, soffocata nel grigio di case anonime; appare Hollywood tinta di mille colori e mille finzioni, più falsa di quei soldati/impiegati ipocriti e insicuri barricati nella caserma in Colorado, tutti intenti a raccontarsi scemenze, a fingersi – (in)consapevolmente – meno mediocri di quanto in realtà non siano agli occhi degli altri.

    Giulio Durini, Gustavo e Clayton, 2006
    Giulio Durini, Gustavo e Clayton, 2006

    Tutto questo non conta, non ha importanza per Jim che li osserva, li attraversa – i soldati, gli attori – come uno spettatore passivo animato da uno sguardo ironico ma distante, un giovane uomo che rimane in fondo indifferente a ciò che lo circonda:

    Poi la conversazione [dei soldati] si spostò sulle donne. Ad alcuni piacevano le donne formose; alcuni amavano le donne piccole; altri le bionde, altri le brune, e ad alcuni piacevano le donne con i capelli rossi. Ma tutti erano d’accordo sul fatto che gli piacessero le donne e, mentre parlavano, i loro occhi brillavano ripensando alle mogli, alle amanti, ai sogni. Jim era divertito e perplesso: ma davvero quegli impiegati avevano successo con le donne? Nessuno aveva n aspetto attraente. […] Poi uno cominciò a parlare di checche.

    (G. Vidal, La statua di sale, pg. 149, Fazi Roma 1998- trad. A. Osti)

    All’indifferenza al mondo, alla ricerca di quell’attimo passato si somma la difficile accettazione di sé. Jim non corrisponde affatto allo stereotipo di omosessuale tanto caro alla cultura occidentale: non è effeminato e non è attratto dalle “checche”, frequenta i locali e le feste gay ma allo stesso tempo gioca a tennis, entra nell’esercito, si mimetizza perfettamente tra gli etero.

    Jim è un ragazzo comune, senza particolari qualità, non dichiarato al mondo e dunque perfettamente integrato nell’America degli anni Quaranta. Il suo dramma passa da tutte quelle tappe canoniche di chi in fondo sa di essere gay ma che, in quanto così diverso dall’immagine che la società gli fornisce, fatica a capirsi e quindi ad accettarsi.

    Dopo aver scoperto che c’erano davvero molti uomini che amavano gli uomini, Jim passò attraverso varie fasi. La sua prima reazione fu di disgusto e di allarme. Esaminava tutti con attenzione. Era uno di loro? Dopo qualche tempo riusciva a identificare quelli palesi, in particolare quando si muovevano, con il collo e le spalle rigide. Quando poi i giovani si abituarono a Jim, cominciarono a parlare francamente di sé. Alla fine, uno cercò di sedurlo. Jim si innervosì, e reagì con violenza. Eppure, in seguito continuò ad andare alle loro feste, anche solo per poter sperimentare ancora il piacere di dire di no

    (pp. 83-84)

    Gore Vidal la statua di sale

    Soggetto incompiuto, la sua natura risulta e rimane ambigua a quasi tutti i personaggi che lo incontrano durante la sua Ricerca. C’è sempre qualcosa di non detto, di inespresso che soggiace in lui, che non si percepisce neanche fissandolo negli occhi.

    Ed è proprio l’oggetto del desiderio di Jim, quel Bob con cui ha condiviso l’esperienza più intensa e bella della sua vita, quell’attimo – quella serie di attimi – in cui i corpi dei due si sono fusi in uno, uniti in un atto d’accoppiamento giudicato come autentico tra il giallo di un fuoco morente e il grigio del cielo trapunto di pallide stelle a non permettergli di ritenere ciò che lo circonda reale, importante.

    Jim e Bob sono due giovani uomini che si sono amati profondamente, anche se per poco, anche se nessuno dei due sembra essere gay.

    Non c’è da stupirsi, dunque, che l’America della fine degli anni Quaranta rimase sconvolta dal romanzo di Vidal: la normalità di Jim, il suo piccolo desiderio, ha reso gay la più grande nazione del mondo, strappando quelle tende che li nascondevano in ogni settore della vita associata, dall’industria cinematografica all’esercito più macho di sempre – dopo quello spartano, ovviamente – e rivelandone al contempo la normalità, l’altezza e la bassezza dei loro sogni, dei loro desideri.

    È un documento umano profondo e crudele quello che ci consegna Vidal attraverso la storia di Jim, attraverso la sua ricerca di una felicità modesta motivata dal desiderio e dal ricordo, da quell’incapacità di lasciarsi il passato alle spalle, di costruire un futuro nuovo partendo dal presente, da ciò che è e non da ciò che è stato.

    Jim, come la moglie di Lot, non ha mai smesso di guardarsi indietro e, come una statua, si è lasciato scivolare tutta la vita addosso in attesa che ritornasse quell’attimo, che il passato ritornasse a riempire i suoi polmoni e non più solo i suoi occhi.

     

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    In copertina: Andy Warhol, Locandina per il film Querelle di Rainer Fassbinder (particolare) 1982

  • Ernesto di Umberto Saba: un’autobiografia in terza persona

    Ernesto di Umberto Saba: un’autobiografia in terza persona

    Saba e la sua Trieste. Saba e i suoi volti animali, le sue parole scarne e vere. Saba del Canzoniere e di Storia e Cronistoria del Canzoniere: fin dalle superiori, tutti abbiamo imparato a conoscerlo. Raramente, però, si fa cenno a un piccolo romanzetto incompiuto, Ernesto, figlio di uno slancio creativo durato appena la parentesi del ricovero di suo padre – se non meno – a Roma nell’estate del ’53; creatura fragile che affonda le sue radici nella mente e nei ricordi del suo autore, tra le viuzze i cantieri il porto e il mare di una Trieste di fine Ottocento.

    La vicenda, scandita in cinque episodi, non ha confini cronologici ben definiti: l’autore ci informa solo, appunto, che sono gli ultimissimi anni dell’Ottocento e che il protagonista, un giovinetto di nome Ernesto, di sedici anni scopre la vita, la vita da adulto attraverso un rapporto omosessuale con un bracciante avventizio di cui Saba non dice il nome. La loro relazione è  connotata sin da subito dalla curiosità del primo e dalla passione (mista a paura) del secondo.

    Ernesto è innocente e diretto, capace come il suo autore di «giungere al cuore delle cose, al centro arroventato della vita, superando resistenze ed inibizioni[tooltip tip=”Umberto Saba, Ernesto, Torino, Einaudi, 1995, p. 14″][1][/tooltip]». È un giovane che ancora non si è conformato alla società che lo circonda e di cui fa parte, di cui deve far parte. Il gesto, il primo incontro con l’uomo – uomo senza famiglia, per nulla interessato alle babe (donne) – è intessuto dal dialogo tra i due, un dialogo che è dialetto, appena imbastardito da Saba per essere poco più intellegibile; lingua che lega strettamente Ernesto non solo alla sua terra, alla sua dimensione primitiva ma anche alla sua giovinezza, a quel mondo ancora non pienamente consapevole dei ragazzi non ancora uomini, quel mondo fatto di giochi e birichinate, di madri presenti e affettuose[tooltip tip=”È presente, come nel Canzoniere, un ricco bestiario di figure simboliche.”][2][/tooltip].

    Trieste Giuseppe Wulz
    Giuseppe Wulz, Veduta di Trieste

    «Oggi semo soli» disse l’uomo, vedendo che Ernesto non parlava. […] Gli si era messo vicino (più vicino, forse, del solito) e stava in piedi, a testa bassa, giocherellando col cartello attaccato all’imboccatura del sacco. […] «Soli» disse «soli per un’ora» «In un’ora se pol far tante robe» incalzò pronto l’uomo. «E lei che robe el volessi far?» «Nol se ricorda più de quel che gavemo parlà ieri? Che el me gà quasi promesso? Nol sa quel che me piaceria tanto farle?[tooltip tip=”Umberto Saba, op. cit., p. 13″][3][/tooltip]»

    Se in un primo momento l’atto rimane solo un atto, la fusione di due corpi che si desiderano, un gesto che, recepito come naturale, non causa molte riflessioni (solo una subitanea paura, forse un po’ di rimorso), si rivela col tempo essere fonte di tristezza, di tensione. Di lì l’eroe giovinetto di Saba comincia a prendere consapevolezza, passa da una prostituta, da diversi problemi a lavoro che sfociano in una confessione alla madre.

    «Resta seduta» le disse, con voce improvvisamente dolce, quasi implorante, Ernesto. «Devo, mamma, confessarti una cosa che ti darà forse dolore, ma che devo dirti» […] incominciava… ma subito si fermò. Come dire quella cosa? Come dirla a sua madre? Con l’uomo, un ragazzo che, come Ernesto, non aveva peli sulla lingua, poteva parlar franco, ma con lei…[tooltip tip=”Umberto Saba, op. cit, p. 95″][4][/tooltip]

    Una confessione piena di dubbi da una parte ma infondo risoluta, che ha in sé il germe dell’incompiutezza di tutta l’opera. Saba, infatti, non completerà il suo Ernesto che pure, come scrive ad alcuni amici, alla moglie Lina, sente tanto vivo.

    L’autore si costruisce degli alibi per giustificare il suo gesto: il primo è linguistico ed è sostanzialmente inconsistente perché alla metà degli anni Cinquanta, in vista di una pubblicazione, Ernesto non sarebbe stato accolto negativamente tra il Neorealismo e il Realismo espressionistico incipiente di Pasolini.

    Umberto Saba 2

    Il secondo alibi è psicologico e si consuma sia nella confessione della propria esperienza omosessuale ma, ancora di più, nell’incapacità di mantenere la leggerezza – nella lingua nel ritmo nel tono – dei primi quattro episodi.

    Il quinto episodio, l’incontro tra Ernesto e il ragazzo Ilio, si avvicina troppo – ancor più di altri elementi usati negli episodi precedenti – all’esperienza del Canzoniere[tooltip tip=”Dove peraltro non mancano riferimenti, seppure meno espliciti, alle proprie esperienze omosessuali di gioventù.”][5][/tooltip], a quella scoperta della propria vocazione poetica che non permetteva più – nemmeno allo stesso Saba – di scindere la propria biografia da quella del giovane Ernesto.

    In quest’ultimo episodio, inoltre, lo stesso Ernesto cambia. Ancora fanciullesca, la sua figura da primitiva diviene classicheggiante, vicina all’ideale di bellezza proprio della cultura antica; diviene critico rispetto al mondo, acquisisce maggiore consapevolezza di ciò che lo circonda. Si trasforma quasi in un adulto. Potrebbe infatti essere un riuscitissimo romanzo di formazione questo, attento com’è ai riti di passaggio, alla rasatura della barba, al crescere del protagonista, ma la scelta di abbandonarlo ne ha sacrificato lo sviluppo. Ernesto rimane dunque ancora un ragazzo, una proiezione di Saba al passato.

    Svanita l’ispirazione – Saba aveva scritto ad un suo amico che «Una poesia è un’erezione; un romanzo è un parto[tooltip tip=”Pierantonio Quarantotti Gambini del 20 agosto del 53. Citata nell’Introduzione di Maria Antonietta Grignani, p. VI”][6][/tooltip]» – l’autore abbandona la sua creatura che verrà pubblicata solo 22 anni dopo la sua stesura. La paura dello scandalo, possiamo ipotizzare, ebbe il sopravvento, e così Saba non ebbe il coraggio, la forza di continuare un’opera di cui non riusciva più a mantenere i toni iniziali, e che invece avrebbe potuto affiancare, se non addirittura superare, il suo Canzoniere.