Una piccola, modesta scuola elementare

Au revoir les enfants

I giorni della scuola – I

 

Era una scuola elementare modesta, di paese, con due sezioni, che poi sono diventate tre in corso d’opera, per così dire: sono aumentati gli iscritti e la classe A si è sdoppiata, in A e B. Anzi, nella sezione «A e B», come la chiamavano, perché i maestri hanno continuato a fare come se niente fosse. La scuola era fatta con dei muri a soffietto: erano delle pareti di metallo che si potevano tirare e ripiegare come una fisarmonica.

Così, le due classi erano vicine, e bastava ripiegarne le pareti per tornare ad essere una classe unica. I banchi non erano i soliti: non erano tutti in fila, ordinati, ma sparsi per l’aula. Anche questa è una cosa molto importante. I banchi in fila danno subito un’idea di gerarchia, di frontalità. Invece i banchi messi a isole, con tre o quattro bambini insieme, facilitano la cooperazione, perché, mentre fai lezione, hai sempre un bambino davanti a te, e non semplicemente di fianco.

Al centro della classe, in mezzo ai soffietti, c’era uno spazio vuoto. La mattina arrivavi e ti sedevi lì, per terra. In cerchio. Come una scuola antica. E i maestri ti spiegavano che il cerchio è la forma democratica per eccellenza, perché tutti possono parlare e vedersi mentre si parlano. Non è poco, per un bambino. La scuola, per loro, era quello: sedersi in cerchio a discutere.

Il calderone

Disney, Taron e la pentola magica
Disney, Taron e la pentola magica

Niente libri di testo. I soldi che passava il Comune per i libri, venivano spesi per la biblioteca della scuola. Si andava in gita alla libreria dei ragazzi, e ogni bambino sceglieva un libro per la biblioteca. Non c’era sempre lo scuolabus, il che voleva dire prendere i mezzi, imparare a leggere gli orari dei pullman, e anche questo è crescere.

Al posto dei libri, c’erano degli enormi rotoli di carta, come delle pergamene giganti. I bambini si sedevano in cerchio, e si srotolava la grande pergamena. E il maestro tirava fuori un argomento. Allora, per prima cosa, scrivevano tutto quello che sapevano su quell’argomento sulla grande carta. Quella cosa lì la chiamavano «mappa» o «calderone».

Non era un brainstorming: non si trattava di mettere giù la prima cosa che veniva in mente, ma di dire quello che sapevano già. Non erano trattati come materia informe, da «formare», da plasmare: si dava per scontato che a sei, sette anni, qualcosa avessero già sentito.

Vere e proprie materie non ce n’erano, ma solo delle «aree tematiche», una umanistica, una scientifica, una linguistica. Poi il resto era un «calderone» unico. I maestri dicevano che la mente non è una libreria a scaffali, ma una stanza piena di foglietti a casaccio, con dei fili attaccati. Il tutto sta nel prendere i fili giusti, e tirar fuori il foglietto che ci serve. Poi lo si può ributtare dentro alla rinfusa. L’importante è avere in mano il filo, cioè la chiave per poterlo andare a riprendere.

Anche le ore di lezione erano apparentemente casuali, dicono. Si arrivava a scuola e quello che succedeva succedeva. Ti poteva capitare di fare matematica, ti poteva capitare di fare un tema (che si chiamava «testo», o «racconto». Mai «tema», che è una parola inventata, dello scolastichese: uno scrive un «testo» riguardo un «tema», semmai) oppure facevi storia, geografia.

Il tempo dei nonni bambini

Bombardamenti a Milano
La chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano bombardata durante la seconda guerra mondiale

La Storia era la materia centrale, lo scheletro portante di tutto. Non puoi capire niente, se non sai la Storia. Da lì si dipartiva il resto. Per esempio: si studiava l’antico Egitto? Allora in geografia si faceva l’Egitto. E in scienze si studiavano i deserti. E poi si andava in cucina e si cucinavano i cibi tipici del paese che si studiava. E se la madre, il padre di qualcuno era di quella nazione, lo si invitava a scuola perché lo raccontasse, e spiegasse com’era vivere in un luogo così lontano.

Ecco perché era tutto un calderone: non devi essere tu a fare i «collegamenti», nella tua testolina, che sono tanto importanti per l’esame, ma è già tutto collegato. L’italiano, le scienze, la poesia, la matematica, sono la stessa cosa: sono le diverse rifrazioni di un unico prisma. La scuola non è un supermercato dove compri un po’ di questo e un po’ di quello: la scuola è un metodo, un modo di vivere.

Gli argomenti non calavano così, dall’alto: ci si chiedeva perché bisognava studiarli. Per esempio, perché i bambini si abituassero all’idea della Storia, il maestro si è inventato una cosa. Ha preso, come al solito, il grande papiro, l’ha srotolato per tutta la stanza e ne ha fatto una linea del tempo. E ha detto ai ragazzi di mettere le epoche storiche che sapevano. Poi l’ha appesa lungo i muri della classe, e ha preso il punto più vicino all’oggi.

C’era scritto qualcosa del tipo: «quando i nostri nonni erano bambini». Allora ha invitato i nonni dei bambini a scuola, perché raccontassero com’era Milano al tempo della guerra. È così che, pare, abbiano conosciuto la Storia: andando a ritroso. Che, se uno ci pensa, è un modo fantastico di approcciarla, perché la vedi con gli occhi dello storico, di colui che sa quello che è successo dopo, ma deve capire cosa è successo prima.

Dicono che un giorno il maestro abbia preso delle vecchie fotografie del paese, degli anni ‘30, e li abbia fatti andare in giro per le strade a vedere cos’era cambiato. La Storia è, prima di tutto, uno sguardo sul tempo, un allenarsi a posare lo sguardo sulle cose, sentirne il mutare. È il «sentimento del tempo», per dirla con Ungaretti. Ecco, quel «sentimento del tempo», una briciola di quello, loro lo imparavano così, andando in giro e confrontando le vecchie foto e i vecchi racconti.

Dicono che questo abbia generato in qualche bambino un rapporto con il suo paese che non ha più perso, camminando per le vie, fermandosi se vede un gatto nero ritto in mezzo alla strada, in piena notte; o se un riccio o una lepre spunta nel suo cortile.

Non solo lezione

Edward Henry Potthas
Edward Henry Potthas, Bambini che giocano

La scuola non era solo l’ora di lezione. C’era anche il resto. C’era il cortile. E il cortile era l’intervallo. È lì che si creano i gruppi, le bande, le amicizie. E lì impari a stare in società. Non sui banchi. Nel gioco, coi ragazzi. Sono cose che gli educatori di strada sanno bene, e ci vorrebbe un raccordo maggiore tra professori, maestri ed educatori di strada; cosa che a nessuno, finora, è passata per l’anticamera del cervello.

Nell’intervallo, che durava tantissimo, si poteva fare quello che si voleva, giocare, sporcarsi nel fango fino a diventare marron, giocare con vermi, cavallette e qualsiasi cosa fosse il più schifoso possibile, e i maestri non impedivano ai bambini di farlo. Brontolavano, sì, ma non l’impedivano totalmente, apprezzavano la voglia di scoprire. E giocavano a pallone con loro, e ovviamente si davano reciprocamente del tu.

D’estate si faceva l’orto (che veniva ripetutamente distrutto dalle pallonate e dalle prodezze dei più vivaci, ma questa è un’altra storia) e durante l’anno c’era il teatro. Il teatro è una di quelle cose che possono salvare la vita. Perché non era «la recita». Era una cosa molto più seria.

Il metodo era semplice: si parte dai bisogni dei ragazzi, si tira fuori una storia, e poi si vede come rappresentarla, e nel frattempo si fanno esercizi strani, vocalizzi, giochi con le parole. Giochi che ti facciano «essere» la cosa che vuoi rappresentare. Tu non devi «fare» l’albero. Tu devi «essere» un albero. Come si sente un albero? Che cosa può voler dire, essere un albero?

Questa cosa, più tardi, impari che si chiama poesia. Che è l’arte di sentire, captare le cose, capire cosa ci avviene dentro, e sentire che ci sono delle forze enormi, lì nel nostro corpicino, forze che però possono essere indirizzate verso uno scopo.

Poi facevano anche una cosa splendida e purtroppo costosa che si chiamava «scuola natura». Si trattava di prendere venti mocciosi (trenta, loro, perché erano la sezione «A e B») e portarli una settimana al mare o in montagna. Sì, detta così sembra una cosa da colonia fascista. Ma era tutto diverso. A sei, sette anni, ti alzavi da solo, ti vestivi da solo. C’era quello che dormiva più degli altri, e allora tu, piano piano lo svegliavi, con una carezza. C’era quello a cui mancava la mamma, e rimanevi lì a consolarlo, e gli dicevi che essere liberi prima fa male, e poi fa bene.

Ma non era una semplice vacanza. Si facevano molte cose. Si andava in un frantoio a vedere come si macinano le olive, si visitavano le grotte, si faceva scienze sul campo, nei boschi. Imparavi i nomi delle piante, conoscevi i ginepri, che sono delle piante meravigliose. Una volta, in un paesino della Liguria, i bambini hanno sentito per la prima volta il nome di Montale, e sono quasi arrivati alla tomba di un navigatore norvegese straordinario, Thor Heyerdahl.

Voti e nozioni

Quattrocento colpi truffaut
Fotogramma del film I quattrocento colpi, di Francois Truffaut,

Sapevi i voti solo quando davano le pagelle. Non c’erano compiti in classe, interrogazioni. Perché tutto era un compito in classe o un’interrogazione. Il maestro ti conosce, sa come sei fatto. Non sei uno dei tanti. Sei tu. Con la tua personalità, i tuoi difetti, le tue bravure. Non ha bisogno di consultare il registro, per sapere se vai bene o se vai male.

Se un problema era fatto coi piedi, te lo dicevano in faccia senza bisogno del numeretto. E se invece era fatto bene, ti facevano i complimenti, e sapevano farti capire che dicevano sul serio. C’è persino chi dice che i bambini piangessero quand’erano malati, perché non potevano andare a scuola.

Certo, c’è il problema di insegnare anche le nozioni. E quella scuola le insegnava. Montale e Thor Heyerdal. Ma non solo. I bambini si costruivano i libri da soli, e se li facevano rilegare dalla copisteria del paese. Chi ci ha guardato dentro dice che c’erano stralci di Polibio, di Engels. C’erano anche delle pagine su una città turca antichissima, di più di novemila anni fa, che si chiamava Çatal Hüyük. E poi i bambini, si dice, sapevano riconoscere una chiesa cistercense da una gotica, e sapevano tutto dei fontanili e delle marcite.

Pantigliate, anni 1999-2004 (o giù di lì)

scuola elementare di Pantigliate
scuola elementare di Pantigliate

Può sembrare una scuola del futuro. O una scuola modello, una scuola sperimentale montessoriana, o una cosa del genere. Invece no. Era la scuola di un piccolo paese della periferia milanese, che ha un nome buffissimo e strano: Pantigliate.

Oggi la scuola c’è ancora, anche se è un po’ diversa. Molto si è perso di quegli anni, qualcosa ancora rimane. Quella è la scuola che ho vissuto, e che mi ha insegnato ad avere schifo dei test, delle valutazioni ministeriali, dei banchi in fila.

Siamo sempre preoccupati di immagazzinare cose nel cervello dei bambini. Di insegnar loro l’importanza di questo e di quello, di far fare loro mille cose, il pianoforte e il nuoto e il judo. Tutte cose bellissime. Ma poi ci dimentichiamo i fondamentali.

Ci dimentichiamo che si possono insegnare le nozioni anche senza gli interrogatori e il timore. Nessun insegnante perde più ore e ore a far esercitare i ragazzi a scrivere. A scrivere quello che vogliono, un racconto, un pensiero, una poesia. E insegnare loro la magia di quello scrivere, insegnare che il punto e virgola non è una regoletta, è un’arma; che «sintassi» significa schierare l’esercito, metterlo in campo. Nessuno spiega che la lingua è fatta non semplicemente per «comunicare», ma per costruire. Che le parole sono un’alternativa fantastica al Lego.

Nessuno ci insegna che le scienze naturali sono delle scoperte bellissime, perché ti mettono di fronte all’alterità radicale. Una roccia; un sasso. Non pensa, è. Ma si muove, e si fonde ed erutta fragorosamente. E si spacca, si frammenta fino a diventare sabbia di tanti colori diversi. Una rana; un filo d’erba. Studiamo le cellule, le facciamo alle elementari, alle medie, alle superiori. Però nessuno ci dice mai com’è fatta la pianta che abbiamo sul terrazzo. E che uccello è quello che senti cantare tutte le mattine alle cinque.

In quella scuola, quella che ho fatto alle elementari, c’era tutto questo. C’era l’idea che quello che sta scritto nei libri è la stessa cosa di quello che vedi fuori dalla finestra. Magari non proprio lì, un po’ più in là; magari non proprio oggi, ma un po’ di tempo fa.

E lì, pure, ho imparato la poesia. Se qualcuno mi avesse detto: «impara la poesia della cavallina storna a memoria», non avrei mai iniziato a scrivere. Invece, la prima poesia della mia vita, messa lì così, per caso, una mattina, era Guido, i’ vorrei che tu, Lapo ed io

È così che mi sono innamorato. Perché nessuno mi diceva che era roba da grandi, che non avrei capito. Me l’hanno letta, spiegata, mentre mi riposavo da una lunga corsa per il cortile, e il sudore iniziava a sgocciolare giù dalla camicia mentre ascoltavo la musica classica dall’impianto stereo che il mio maestro si era portato da casa, e sentivo delle strane risonanze tra quello che leggevo e quella musica, e sentivo che un giorno quel vascello avrebbe preso anche me.

 


In copertina: fotogramma del film Arrivederci Ragazzi di Louis Malle

Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.