Giotto: il mito di un’arte più reale della realtà stessa

Giotto, giudizio universale

In una tiepida giornata primaverile, appena qualche anno dopo la metà del Quattrocento, Lorenzo Ghiberti, artista fiorentino di chiarissima fama[1] decise di mettere per iscritto, ovviamente ad esclusivo vantaggio dei posteri, le sue memorie e le sue conoscenze. Era già in là con l’età, coi basettoni bianchi e in possesso di una quantità di volumi non affatto disprezzabile per un uomo dalle umili origini come lui.

Scrisse un’opera divisa in tre parti. Nella prima, ricopiando e traducendo alcuni dei libri che possedeva, raccontò la storia dell’arte antica riconoscendone l’incontrovertibile superiorità rispetto a quella medievale (che saltò a piè pari) e soffermandosi sulla descrizione di opere che mai e poi mai avrebbe potuto osservare perché perdute[2].

Nella seconda, invece, si occupò dell’arte moderna iniziando la sua narrazione dall’artista che, già secondo i suoi contemporanei, era posto all’origine della rinascenza dell’arte occidentale, ovverosia Giotto:

In una villa allato alla città di Firenze, la quale si chiamava Vespignano, nacque uno fanciullo di mirabile ingegno, il quale si ritraeva del naturale una pecora. In su passando Cimabue pictore, per la strada a Bologna, vide el fanciullo sedente in terra, e disegnava in su una lastra una pecora. Prese grandissima amiratione del fanciullo, essendo di sì pichola età fare tanto bene [domandò] Veggendo aver l’arte da natura, domandò il fanciullo come egli aveva nome. Rispose e disse: «Per nome io son chiamato Giotto […][3]

Giuda giotto
Giotto, Il bacio di Giuda, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1303-1305 (particolare)

L’episodio, dal sapore aneddotico, ci presenta Giotto come un piccolo giovinetto già in possesso di quelle capacità per le quali sarà ammirato nei secoli successivi, al quale è affiancato Cimabue nel ruolo di maestro predestinato ad essere ampiamente superato (in capacità in bravura in ricchezza in fama e chi più ne più ne metta!) dal suo discepolo.

Eppure il mito di Giotto, perché di un mito stiamo scrivendo, non è nato in una calda giornata di sole sulle rive dell’Arno dalle mani di un artista alla fine dei suoi giorni, ma molto prima. E con il mito di Giotto, oltre alla storia dell’arte moderna, nacque invero ben altro: nacquero gli artisti.

Aspetta, cosa?

Be’ sì. O, almeno, cominciò a diffondersi, tra le classi colte e pure a livello più popolare, l’idea che il pittore, lo scultore, l’architetto non fossero dei semplici artigiani ma qualcosa di più.

A ben rifletterci, in effetti, il lunghissimo millennio medievale ci ha consegnato un numero tutto sommato abbastanza alto di opere, molte delle quali di clamorosa bellezza, ma quasi nessun nome.

Sì, ogni tanto qualche nome spunta, un po’ come i funghi nella foresta nera, ma in una quantità davvero irrisoria. Insomma, il nome di un artista medievale e davvero raro, più raro di un tartufo (e di un tartufo bianco per giunta!).

Come mai?

L’artista, nel Medioevo (e qui ovviamente generalizziamo), non esisteva, non era riconosciuto o collocato dalla società civile divisa in classi o, come a Firenze, in Arti, all’interno di una categoria ben specifica: era un artigiano, appunto, confuso tra i fabbri e gli imbianchini, tra gli uomini che per sopravvivere dovevano sporcarsi le mani[4].

Con Giotto qualcosa cambiò.

Giotto, Compianto sul Cristo Morto, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1303-1305 (particolare)
Giotto, Compianto sul Cristo Morto, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1303-1305 (particolare)

Ne ebbero coscienza i contemporanei e, tra questi, il puntualissimo Dante che ne registrò valore e ruolo all’interno della sua Commedia:

La cera di costoro e chi la duce
non sta d’un modo; e però sotto ‘l segno
ideale poi più e men traluce.

Ond’elli avvien ch’un medesimo legno,
secondo specie, meglio e peggio frutta;
e voi nascete con diverso ingegno.

Se fosse a punto la cera dedutta
e fosse il cielo in sua virtù supprema,
la luce del suggel parrebbe tutta;

ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando a l’artista
ch’a l’abito de l’arte ha man che trema[5].

Il sommo coglie e sintetizza, in pochissimi versi, quella che è la capacità che segna la distanza tra l’artista e l’artigiano, ovvero la capacità del primo di imitare la Natura. Certo, il poeta fiorentino ne rileva sin da subito i limiti: se, infatti, nella mente dell’uomo l’idea è perfetta, perfetta in ogni sua parte, nella realizzazione la mano del pittore, o dello scultore, trema, dimentica ciò che è stato immaginato.

Ciò non di meno Dante eleva la figura dell’artista, la separa da quella degli altri artigiani conferendole una dignità inedita. Il merito di ciò, in gran misura, è proprio di Giotto – citato all’interno dell’XI canto del Purgatorio assieme al suo maestro – il quale riuscì a rendere quasi tangibili i tessuti (si pensi alla Cappella degli Scrovegni) e misurabile lo spazio (già nel ciclo di storie dedicato a San Francesco nella basilica superiore di Assisi).

Così, qualche decennio dopo, anche Boccaccio dedicò diverse righe del suo Decameron (addirittura una novella intera!) al pittore che aveva reso di nuovo grande l’arte occidentale.

Siamo a metà della sesta giornata, quella in cui i giovani ragionano su chi riesce, con battute e risposte sempre pronte, a cavarsela nelle situazioni di maggior pericolo o negli scherzi.

Giotto, Giudizio Universale, Cappella degli Scrovegni (particolare)
Giotto, Giudizio Universale, Cappella degli Scrovegni (particolare)
[…] il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto. […][6].

Ancora una volta di Giotto viene sottolineata la capacità di imitare la Natura, di dipingere delle figure che sembravano più reali della realtà stessa. L’occhio dello scrittore si focalizza sui volti dei soggetti dipinti – forse perché memore del ciclo degli Uomini illustri affrescato da Giotto a Palazzo dell’Ovo a Napoli per conto di Roberto d’Angiò, un ciclo (ahinoi!) perduto.

Anche Petrarca ricordò diversi pittori all’interno dei suoi scritti e, in particolare, la sua ammirazione andò al senese Simone Martini, conosciuto ad Avignone.

Citarono Giotto e i suoi discepoli così come anche i pittori senesi e romani altri autori quali Filippo Villani – cronista che scrisse durante la seconda metà del Trecento – e Francesco Sacchetti che, alla fine dello stesso secolo, compose le Trecento Novelle, dedicandone ben sei al pittore fiorentino collocato tra i grandi protagonisti della storia i Firenze.

Quando Ghiberti decise di vergare le sue memorie, dunque, era ben conscio del suo valore di artista, del suo ruolo di guida all’interno della società fiorentina. Ormai l’artista è consapevole delle proprie capacità, ormai è pure esaltato per questo.

Non a caso il vegliardo conclude la sua storia dell’arte moderna sciorinando un lungo elenco delle sue opere, nel quale si legge, potremmo scrivere nero su bianco, la piena consapevolezza che lo scultore ha di sé e del suo valore.

Si pone a sugello di una nobile e ormai secolare tradizione.

 


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Redazione: Salvatore Ciaccio
Salvatore Ciaccio

Nato a Sciacca in provincia di Agrigento nel 1993, ho frequentato il Liceo Classico nella mia città natale per poi proseguire gli studi a Pavia, dove mi sono laureato in Lettere Moderne con una tesi dedicata all'architettura normanna in Sicilia.