Il problema di Gettier: come tre pagine sconvolsero la filosofia

Giacomo Balla, Scienza contro l'oscurantismo, 1920, olio su tela

Fino al 1963, Edmund Gettier era un normale professore universitario di una normale città degli Stati Uniti. Non erano nemmeno molti anni che insegnava in università, lì a Detroit, e tutto lasciava supporre che quel professore trentaseienne sarebbe stato nient’altro che un anonimo professore di filosofia per ancora molti anni. Senonché gli capitò – non sappiamo se di sua iniziativa, o su altrui proposta – di pubblicare un articoletto su una rivista di settore, Analysis. Una cosa da poco, appena tre pagine. Un articolo normale, diciamo. Discreto, addirittura.

Invece, quell’articolo non fu discreto proprio per nulla: fu un’esplosione, che alzò tanta di quella polvere che nessuno si sarebbe immaginato. Un polverone tale che l’articolo prese il nome di Problema di Gettier, e stimolò un dibattito lungo tutta la restante parte del Novecento, con una serie di teorie che miravano a integrare, correggere o riconfigurare le questioni poste dal giovane professore di Detroit. Ancora oggi non si è trovata una soluzione vera e propria, e la definizione di conoscenza rimane ancora una delle questioni aperte della filosofia contemporanea.

Cosa avevano di tanto dinamitardo quelle tre paginette? Prendendola alla larga, riproponevano una vecchia domanda della filosofia – forse la domanda della filosofia: cosa vuol dire conoscere? Quand’è che possiamo dire che conosciamo qualcosa, che sappiamo qualcosa di vero? Andando più nello specifico, mettevano in crisi, in modo semplice e lineare, la definizione di conoscenza che si riteneva fino a quel momento la migliore, la più assodata. Addirittura nel Teteeto di Platone appariva una concezione simile di conoscenza, tanto è antica.

Si tratta della cosiddetta definizione tripartita di conoscenza. Di cosa si tratta è presto detto: una conoscenza, per essere tale, dev’essere una credenza vera giustificata. In altre parole, per definire la conoscenza occorrono tre condizioni: 1) qualcuno (un soggetto, si dice) che creda in qualcosa 2) che questo qualcosa sia vero 3) che questa verità sia giustificata, vale a dire che il soggetto deve avere delle ragioni opportune, delle ragioni adeguate per credere. Deve cioè essere giustificato nel credere.

Apparentemente sembra una definizione molto intuitiva: conoscere significa innanzitutto credere che qualcosa sia vero; questo qualcosa dunque dev’essere vero, e perché noi possiamo dire che è vero dobbiamo avere delle buone ragioni, delle pezze giustificative. Il ragionamento fila. Invece, ci dice Gettier, le cose non stanno esattamente così: queste sì sono condizioni necessarie, ma non sufficienti.

La storia di Smith e Jones

Edward Hopper, Escursione nella filosofia. Dimenticanze di Mattia Lo Presti
Edward Hopper, Escursione nella filosofia, 1959, olio su tela, collezione privata.

Per dimostrarlo il professore crea due contro-esempi, immaginando due situazioni tratte dalla vita quotidiana. Di questi esempi è sufficiente il primo, che è anche il più semplice.

Ci sono due persone, che chiameremo Smith e Jones, in attesa per un colloquio di lavoro. Stanno cercando di ottenere entrambi lo stesso posto. Supponiamo che il capo, poco prima del colloquio, dica a Smith che in realtà c’è poco da fare, il lavoro lo otterrà Jones. Supponiamo anche che Smith, sappia che Jones ha dieci monete in tasca: ha visto con i suoi occhi Jones contarle, e rimetterle in tasca. Sarà dunque del tutto legittimato a concludere che “l’uomo con dieci monete in tasca avrà il lavoro”.

In effetti Smith ha ottimi motivi per credere che “l’uomo con dieci monete in tasca avrà il lavoro”: il capo gli ha detto che Jones otterrà il lavoro, e lui stesso ha visto con i suoi occhi le dieci monete di Jones. Quindi abbiamo le tre condizioni di cui sopra: 1) un soggetto che crede in un’affermazione 2) un’affermazione vera 3) una giustificazione, data da ciò che Smith ha visto e sentito.

A questo punto Gettier opera un rivolgimento. Plot twist: per qualche strano caso, il capo si è sbagliato, o ha cambiato idea. È Smith a ottenere il lavoro. E, beffa delle beffe, pure Smith ha dieci monete in tasca, senza saperlo.

Dunque, la frase di Smith è vera: “l’uomo con dieci monete in tasca otterrà il lavoro”, Però ciò che intendeva Smith è esattamente l’opposto. Ciò che ci sta dicendo Gettier, dunque, è che si possono fare affermazioni vere partendo da credenze false: Smith sta sì affermando il vero, ma per caso, senza conoscere la situazione. Anche se ciò che afferma è vero, non possiamo certo definirlo “conoscenza”.

Ecco la portata dinamitarda dell’articolo. Sono bastati due controesempi semplicissimi per mettere in crisi non solo una teoria considerata valida, ma una teoria determinante per una serie di correnti filosofiche, a partire dalla filosofia analitica, cioè quella corrente di cui faceva parte anche Gettier.

Gettier e la filosofia analitica

Giorgio De Chirico, Le trouble du philosophe (dettaglio), 1925-26, olio su tela, Museo del Novecento, MIlano
Giorgio De Chirico, Le trouble du philosophe (dettaglio), 1925-26, olio su tela, Museo del Novecento, Milano.

E qui è necessario ampliare lo sguardo al contesto in cui è nato il dibattito. Che cos’è la filosofia analitica? Si tratta di una corrente filosofica nata agli inizi del Novecento, ancora in essere, e che ha accomunato filosofi come Gottlob Frege, Bertrand Russell o Ludwig Wittgenstein, per fare i nomi più celebri. Analysis, la rivista su cui pubblicò Gettier, per esempio, ricopriva un ruolo piuttosto importante come rivista di riferimento della corrente, e dal 1933 si prefiggeva il compito di raccoglierne il dibattito. Una corrente che, pur contando un buon di filosofi che vi aderiscono attivamente, non è affatto omogenea, e non è così semplice definirne i principi, al punto che in molti la definiscono più uno stile, un approccio, che non una corrente vera e propria.

Tuttavia una delle caratteristiche fondamentali, e che ci interessa da vicino, è l’interesse della filosofia analitica per il linguaggio e la logica. Le questioni filosofiche, infatti, vengono spesso poste in termini di linguaggio, e soprattutto vengono risolte attraverso il linguaggio stesso. Non è un caso che proprio i filosofi analitici abbiano dato un apporto determinante proprio alla filosofia del linguaggio.

La maggior parte delle risposte a Gettier sarà condotta proprio dal versante della filosofia analitica, mentre gli altri approcci filosofici non intesseranno una relazione diretta, in quanto meno interessati a una definizione rigorosa di conoscenza, ma a riflettere in modo più generale sul rapporto tra realtà e linguaggio. I filosofi analitici invece si concentreranno su un nodo specifico della questione, e cioè il concetto di giustificazione. Se infatti affermiamo che la conoscenza sarebbe una credenza vera giustificata, è proprio il terzo elemento quello meno chiaro: cosa vuol dire “giustificato”? Quando il soggetto è giustificato nel ritenere valida una sua credenza?

È qui che si sviluppano le cosiddette teorie della giustificazione, che si suddividono in una serie molto ampia e articolata di proposte e teorie (peggio di un congresso di trotzkisti), tale da vedere addirittura gli stessi studiosi proporre più teorie nel corso della propria vita, e costringendoli a rivedere le proprie posizioni. Chiaramente è difficile affrontarle in un solo articolo. In estrema sintesi, il nodo del contendere è rappresentato dalle relazioni che intercorrono tra il soggetto, la credenza e la realtà esterna: la giustificazione verrà dunque di volta in volta intesa come una relazione tra il soggetto e la credenza (le teorie “interniste” della conoscenza) o come una relazione tra credenza e mondo esterno (le teorie “esterniste”).

Questo lungo dibattito non ha ancora avuto una conclusione. Anzi, negli ultimi anni è stato accantonato, e da più parti è stata espressa l’idea, già propria di Frege, che dare una definizione di conoscenza sarebbe impossibile: la conoscenza sarebbe dunque un “concetto primitivo”, come il punto o la retta in matematica, che non sono definibili in quanto non possono essere scomposti in concetti più semplici.

Che cosa vuol dire conoscere?

Giacomo Balla, Pessimismo e ottimismo, 1923, olio su tela, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma.
Giacomo Balla, Pessimismo e ottimismo, 1923, olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma.

Se il problema di Gettier ha avuto conseguenze dirette solo in un ambito specialistico e ristretto come quello dell’epistemologia analitica, rimane un punto di svolta fondamentale in quanto pone una domanda centrale, la domanda, come abbiamo detto, della filosofia: cosa vuol dire conoscere?

Una domanda che può apparire tutto sommato banale, scontata, eppure una domanda che non ha mai fine, nonostante i secoli, le innumerevoli pagine di riflessioni, le scoperte scientifiche, la costruzione di una scienza che oggi ci appare come il sapere per eccellenza, inscalfibile nei suoi metodi e nei suoi traguardi.

Il problema di Gettier, dunque, ci insegna proprio a diffidare di questa inscalfibilità, della familiarità con cui trattiamo dei concetti che ci sembrano indiscutibili. Quanto spesso, per esempio, sentiamo appellare ai “dati oggettivi” o ai “fatti concreti”, che sarebbero qualcosa di diverso dalle mere “opinioni”: tanto giornalismo si basa su un culto del “fatto”, come se esistesse una realtà assoluta e totalmente indipendente rispetto al nostro giudizio.

Ecco, quel normale professore di filosofia di una normale città degli Stati Uniti ci mostra che la relazione tra fatti e credenze non è così scontata come sembra. E lo fa proprio partendo dalla vita quotidiana. A noi, che non ci occupiamo di epistemologia, mostra quanto vasto sia l’ignoto anche là dove sembrava di aver fatto luce. Ci insegna a mettere sempre in discussione i nostri fondamenti e anche a sospettare di chi parla di “fatti” e di “oggettività” come se fossero cose ovvie e su cui non è necessaria alcuna riflessione.

Se da un lato ci inquieta un po’ questa continua fallibilità della ragione e del sapere, quest’impossibilità di definire, di “tener fermi” dei principi o delle teorie fondanti, dall’altro i pensatori come Gettier ci spronano a non dare mai nulla davvero per scontato. Dietro l’ovvio, dietro il già visto, spesso si nasconde qualcosa di macroscopico che fino a quel momento nessuno ha notato.

E questo forse è il vero significato del fare filosofia.

 

 


In copertina: Giacomo Balla, Scienza contro l’oscurantismo, 1920, olio su tela.

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Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.