Portare in scena una cultura diversa dalla nostra tradizione è sempre un’impresa. Il teatro a cui siamo abituati è, con poche eccezioni, proveniente dalla tradizione occidentale: è il teatro europeo, americano, russo. Difficilmente veniamo a conoscenza di opere di paesi diversi. Questo è dovuto certamente al poco coraggio dell’establishment culturale, oltre che all’eurocentrismo della nostra cultura, però c’è anche una ragione maggiormente pratica: la difficoltà di rappresentare opere molto distanti dalla nostra idea di arte.
Abbiamo parlato più volte di Studio Novecento, della sua attività e della concezione artistica di questo centro di ricerca, che non ha paura di portare in scena le operazioni più complesse. E particolarmente complessa è l’azione che si sono prefissi quest’anno: portare in scena il teatro sanscrito, con ben sette spettacoli. Oggi parliamo della Śakuntala riconosciuta.
Si tratta di un testo capitale per la cultura dell’India classica; opera somma del poeta Kālidāsa e apice del teatro sanscrito, Il riconoscimento di Śakuntala ha avuto una grande fortuna in Occidente: tradotto per la prima volta nel Settecento, fu amato alla follia da Goethe e Schlegel ed apprezzato da molte generazioni di letterati. Si tratta dunque di un’opera imprescindibile per chi si approccia al mondo indiano. Kālidāsa è infatti considerato il più grande poeta dell’India classica, e i suoi drammi i più raffinati ed eleganti; inoltre la storia è tratta da un episodio germinale del Mahābhārata che costituisce una sorta di prologo dell’intero poema e dunque ne condivide il ruolo centrale nella cultura nazionale.
Portare in scena il teatro sanscrito è un’impresa, dicevamo. Le differenze infatti con la nostra cultura sono notevoli: è un teatro fortemente stilizzato e codificato, con pochissimo spazio di libertà rispetto ad una norma. Anche i testi sono molto lontani dalla nostra sensibilità, caratterizzati come sono da un insistito lirismo, quasi barocco; presentano pochissima azione scenica e quasi nessuna tensione drammatica. Inoltre il teatro sanscrito sente come assolutamente necessario il lieto fine, al punto da rendere esile la struttura della narrazione.
Per lo spettatore indiano ciò non costituisce una pecca, in quanto non può esistere tragedia nel Disegno, e il Dharma riassume in sé tutte le contraddizioni e le avversità della vita. Anche la mancanza di azione, il lirismo, la precisa codificazione erano caratteri a lui noti e apprezzati, in quanto parte di una tradizione artistica cultuale prima ancora che culturale. Di contro, per lo spettatore occidentale tutto ciò diventa molto difficile da seguire e apprezzare: gli stessi elementi che per lo spettatore indiano sono un punto d’accesso, per noi diventano un ostacolo, un guardiano che impedisce il passaggio della soglia.
Dobbiamo quindi provare a spostare lo sguardo. Mirella Schino, studiosa di ricerca teatrale e professoressa presso l’Università di Roma 3, ha più volte sottolineato che sono due i modi per noi occidentali di approcciarsi al teatro sanscrito: studiarne i codici fino a padroneggiarli e divenirne maestri, oppure viverlo come un sogno.
È questa seconda strada che viene intrapresa da Studio Novecento: non avendo a disposizione note e paratesto, come avviene in un’edizione cartacea, il regista Marco Pernich ha dovuto trovare degli equivalenti, e dei modi per rendere l’opera immediatamente comprensibile. Uno dei tramiti tra noi e la vicenda è costituito da un narratore, Kālidāsa stesso, che racconta la vicenda al pubblico, mentre vediamo comporsi di fronte a noi le scene.
In un tempo non definito – come è in effetti il tempo delle fiabe – il grande re dell’India Duṣyanta cacciava nei boschi, spingendosi in luoghi sempre più feroci e remoti. Un giorno, arriva a un eremo di anacoreti, abitato da bellissime fanciulle. Una di queste è Śakuntala, figlia adottiva del venerabile Kanva. Tra i due è amore a prima vista e, quando confessano il reciproco sentimento, celebrano un matrimonio segreto. È così che il re le dona un anello e poi ritorna alla sua dimora. Śakuntala dunque lo aspetta, e intanto che aspetta, scopre di crescere in grembo un bambino.
La storia già ai suoi inizi presenta un sapore fiabesco, sia per la linea narrativa essenziale, sia per l’ambientazione, sia per il tema d’amore, e in più perché recupera alcuni nodi tipici del racconto folklorico: Kālidāsa è un poeta di corte, al pari dei nostri Basile e Perrault, che scrive una storia colma di meraviglioso e la ripropone a un pubblico raffinato, e smaliziato. La storia che racconta, infatti, non è originale, ma trae le sue origini dal Mahābhārata, dove è affrontata in modo piuttosto diverso – ma di questo parleremo più avanti.
Proseguendo nella storia, infatti, scopriamo che, mentre i due amanti sono separati, giunge all’eremo il veggente Durvasas, di grande potere e ancor peggiore carattere. L’accoglienza, a suo dire, non è adeguata e ciò lo adonta alquanto. In preda all’ira, maledice Śakuntala, proclamando che il re non si ricorderà di lei. Alle suppliche di perdono Durvasas si mostra irremovibile, fino a quando, pur non potendo più ritirare la maledizione, accetta di attenuarla: Duṣyanta ritroverà la memoria solo alla vista dell’anello che ha dato in pegno alla fanciulla.
Così Śakuntala raggiunge lo sposo nella sua capitale, ma durante il viaggio perde l’anello. La maledizione così si compie: Duṣyanta non la riconosce, la ripudia; Śakuntala torna a casa disperata. Solo a quel punto viene ritrovato l’anello da un pescatore; Duṣyanta lo viene a sapere, ma Śakuntala ormai è andata e il re si strugge nel rimorso.
Anche qui vediamo come la narrazione sia strettamente legata alla materia fiabesca: il riconoscimento, topos letterario antichissimo; la maledizione, che non può essere ritirata ma solo attenuata, come nella Bella Addormentata; infine, l’anello ritrovato dal pescatore, che ritroviamo in tutta la tradizione della fiaba, europea e non: l’ultimo e più celebre è Andersen, ma lo rivediamo nei Grimm e prima ne Le Mille e una Notte, e prima ancora in Erodoto.
Il nocciolo del dramma, infine, ne è l’esempio principe: come dicevamo, il Mahābhārata racconta la storia in modo diverso, con Duṣyanta che ripudia volutamente Śakuntala, accusandola di mentire, e raccontando la vicenda in modo molto più drammatico e crudo. Kālidāsa, invece, decide di addolcire la vicenda, creando una giustificazione ad hoc per il giovane re, e portando quindi la storia verso un lieto fine, con il topos dell’anello, il ravvedimento del re e il successivo ritorno di questi all’eremo, in cerca di Śakuntala.
La difficoltà di portare a teatro un testo di questo genere, quindi, non si scontra solo con la lontananza del mondo indiano, con le lunghe tirate liriche che caratterizzano la poesia di Kālidāsa e in generale con l’estraneità del gusto e delle idee che emergono dal testo originale, ma anche con la difficoltà di portare la fiaba a teatro: abbiamo una trama esile, con poca o nulla azione; personaggi che lasciano poco spazio a emozioni e interiorità; una presenza di elementi sovrannaturali e meravigliosi difficili da rendere sulla scena senza risultare posticci.
Era dunque necessaria una pervasiva operazione di adattamento che non si esaurisse alla mera riduzione del testo; occorreva infatti una chiara idea registica per sostenere l’azione del dramma, altrimenti esigua. Prendendo spunto dall’adattamento del Maestro e Margherita, ancora una volta la chiave è stata trovata nel trasformare le difficoltà in punti di forza, capovolgendo l’impianto dell’opera.
Śakuntala riconosciuta infatti si presenta come un lavoro estremamente visivo e immaginifico; il corso della storia è affidato principalmente ai corpi degli attori e delle attrici: non solo il loro intreccio compone quasi interamente la scenografia e realizza le immagini che affrescano lo spettacolo, ma ogni movimento è pervaso da un’energia volutamente non quotidiana, che stacchi completamente dal mondo di fuori e accentui la dimensione onirica del racconto.
Gli interpreti si sono infatti imposti di non camminare mai sulla scena, e questo li costringe ad andature diverse, a salti, a strisciare, a muoversi in modo non comune; ciò porta a un costante sbilanciamento e disequilibrio degli attori, da cui scaturisce una dinamica senza interruzioni. Lo spettacolo arriva così a lambire gli stilemi del teatrodanza, pur rimanendo un’opera estremamente classica.
Sempre dal teatrodanza arriva un’ulteriore cifra di questo spettacolo: una fluidità continua tra le diverse scene e all’interno della scena stessa; il racconto scorre senza interruzioni non solo grazie alle parole del narratore, ma anche per i movimenti di scena, che compongono e scompongono le ambientazioni, quasi si trattasse di una partitura musicale. Questa continua metamorfosi delle scene e dei corpi impiegati per rappresentare la foresta, gli animali e i démoni dona allo spettacolo un sapore ovidiano: l’eterno continuo fluire di un unico racconto dove ogni cosa cambia e assume nuova forma.
Un unico racconto che però si fa duplice, mostrando entrambe le versioni della storia: viene ripresa infatti la versione originale del Mahābhārata, che diviene il nucleo centrale dell’intero spettacolo, con un monologo intenso, di una modernità impressionante, che spezza per un attimo il mondo fiabesco di Kālidāsa. Śakuntala, ripudiata, affronta il re, mostrando una forza sorprendente per un testo tanto antico, capace di scuotere lo spettatore ancora oggi. Il dramma stesso si fa duplice: da un lato è un dramma sul ruolo della donna, ingannata e umiliata; dall’altro una storia sul destino, su come le trame del Dharma appaiano insondabili e tuttavia abbiano una soluzione, come avviene nelle fiabe.
La Śakuntala riconosciuta di Marco Pernich diventa così non solo un’abile rilettura del teatro sanscrito, un modo di ricostruire un testo che ormai ci sarebbe inaccessibile; non è, come ci si potrebbe aspettare, un atto intellettualistico. Non si fa arte semplicemente per il piacere un po’ effimero del riportare alla luce delle belle cose, ma perché queste cose riescono a parlarci, e a dire qualcosa della nostra cultura, di noi, di chi siamo.
Aver dato due versioni della stessa storia, aver creato quella parentesi all’interno di un racconto altrimenti convenzionale ha permesso di generare una ferita che ci fa vedere in controluce il teatro di Kālidāsa, i suoi limiti, ma anche la sua peculiarità: il suo essere affine a quel mondo fiabesco, a quella materia strana, inafferrabile e informe che permea la cultura umana, in cui gli umani diventano degli alberi, in cui ciò che è perduto si ritrova, le strade smarrite si appianano, gli amori nascono e fuggono, e le cose lentamente fanno il loro corso. Ed è un modo di pensare a cui non siamo abituati, immersi come siamo nella tragicità del mondo.
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Śakuntala riconosciuta è uno spettacolo di Associazione Studio Novecento.
Adattamento del dramma Il riconoscimento di Śakuntala (Abhijñānaśakuntala) di Kālidāsa.
Riduzione, drammaturgia e regia di Marco Maria Pernich.
In scena Andrea Bonzi, Sofia De Camillis, Allegra D’Imporzano, Alessandro Gentile, Alice Pareyson, Eleonora Rana, Angelica Topolino, con la partecipazione straordinaria di Bianca Cerro, Andrea Pella e Giacomo Piseri.
Il testo de Il riconoscimento di Śakuntala è edito da Adelphi, a cura di Vincenzina Mazzarino.
In copertina: Foto di Giulia Berruti