Categoria: Balloons

Una serie di articoli imprevedibili sul mondo del fumetto, caratterizzati da una visione dissacrante e ironica dell’attualità.

  • Da Dylan Dog a Dylan Top: un indagatore da incubo

    Da Dylan Dog a Dylan Top: un indagatore da incubo

    L’albo dei morti viventi – III

    Il 2 luglio 2019 Radio Play Time, una web radio italiana, ci ha invitato all’interno dello spazio-rubrica “Non solo anime”. L’intervista toccava il tema della comparazione tra il primo albo di Dylan Dog L’alba dei morti viventi e la parodia-omaggio di Topolino Dylan Top: l’alba dei topi invadenti.

    Ma perché ne abbiamo parlato? Cosa c’è da dire a riguardo?

    «Perché proprio Dylan Dog?»

    «Perché utilizza il fantasy come chiave per comprendere la realtà, allontanandoci da essa per mostrarci una panoramica completa»

    (dal nostro intervento a Radio Play Time)

    Dylan Top: l’alba dei topi invadenti, numero 3094 di Topolino, è stato realizzato da Tito Faraci per quanto riguarda la sceneggiatura e da Paolo Mottura per quanto riguarda il disegno (inoltre Mottura si è occupato della copertina per l’edizione variant presentata a Cartoomics nel 2015), su un soggetto di Roberto Recchioni.

    Dylan Top e Dylan DogA presentare il prodotto all’appassionato pubblico sono proprio loro, insieme a Tiziano Sclavi, con una serie di interviste riportate all’interno dell’albo e un’interessante intervista di Topolino.it: si fa luce su tre questioni fondamentali per comprendere al meglio la lettura, ossia i punti in comune tra Dylan Dog e Topolino, che hanno portato allo sviluppo dell’idea, il contributo di Roberto Recchioni e le tecniche di parodizzazione visiva.

    In primo luogo Tito Faraci elenca le analogie tra l’indagatore bonelliano e il topo disneyano: «Entrambi hanno un amico bislacco e un amico poliziotto in gamba e rispettato, e questo a sua volta ha un braccio destro non molto affidabile; inoltre i due investigatori cadono nelle loro avventure per predestinazione e per caso, e ne escono con le proprie forze; parole che risuonano all’interno del fumetto, nella quarta vignetta di pagina 128 Minnie esclamerà: «Uhm…so che ti occupi di misteri… hai un assistente strampalato… e il tuo migliore amico è un commissario, affiancato da un ispettore babbeo!». Infatti Topolino diviene Dylan Dog (o meglio Dylan Top!), mentre Pippo si ritrova nei panni di Groucho e Basettoni di Bloch, la coppia formata da Topesio e Minnie rispecchia quella di John e Sybil Browning e l’antagonista non è più Xabaras, bensì John Black soprannominato Macchia Nera.

    Dylan Top

    In secondo luogo, invece, viene presentato l’espediente di Roberto Recchioni, espediente attraverso il quale si è trasformato il concetto di zombie in qualcosa di adatto all’universo Disney: i topi invadenti.

    Infine Paolo Mottura ha spiegato come è riuscito ad unire le suggestioni dell’horror a quelle della comicità: attraverso i tratteggi e l’uso massiccio del nero ha ricreato le atmosfere gotiche del primo albo di Dylan Dog, ha applicato il gioco delle citazioni ricostruendo in chiave umoristica le inquadrature di Angelo Stano e ha enfatizzato la drammaticità di certi ambienti attraverso il ripasso digitale.

    Tuttavia Topolino non viene snaturato al fine di ricreare una parodia-omaggio, dunque si riscontrano svariate differenze fra i due albi in questione.

    Prima di tutto Dylan Top: l’alba dei topi invadenti riporta solamente le vicende salienti del suo omologo, tagliando o modificando le scene violente, gli omicidi e le vignette di nudo o “erotiche”, non adatte al target e allo stile disneyano; motivo per cui le forbici di Sybil in mano a Minnie diventano… una padella. La motivazione potrebbe essere, però, anche caricaturale, in quanto una padellata è utilizzata spesso in chiave ironica; lo stesso gioco comico è stato applicato nel titolo “indagatore da incubo” e non “indagatore dell’incubo”.

    Inoltre vengono alterati altri particolari di Dylan Dog: la famosa espressione “Giuda ballerino” diviene “Gamba ballerino”, il villaggio “Undead” viene soprannominato “Unvited” e lo strumento suonato non è il clarinetto, bensì la cornamusa. Specularmente il modellino del galeone, legato a un episodio dell’infanzia di Dylan Dog, per Topolino è il puzzle incompleto del battello a vapore, dettagliatamente lo Steamboat Willie che Topolino pilota nel suo primo cortometraggio del 1928. In secondo luogo la similitudine tra i due protagonisti sussiste soltanto a livello fisico: i vestiti, le espressioni e le posture (ad esempio la posa pensante sulla sedia) sono le medesime, mentre per il resto le caratteristiche permangono legate al personaggio d’origine.

    Infine i piani degli antagonisti sono totalmente differenti, ciò comporta un mutamento della morale stessa, e di essi è stato alterato anche il livello di perfezione: il piano di Xabaras è imperfetto in quanto influenza solo il corpo e non ancora la mente, mentre il piano di Macchia Nera viene definito perfetto.

    Come verrà modificato, invece, il finale?

    Sta al lettore scoprirlo, come sta al lettore verificare se l’analisi è esatta e in quale modo si concretizza… ciò nonostante c’è un’ultima curiosità di cui tenere conto: Dylan Top: l’alba dei topi invadenti non è il primo caso in cui Topolino e Dylan Dog si fondono.

    Infatti il primo omaggio disneyano si intitola Topolino e il talismano elfico. L’albo n.2076 venne pubblicato il 12 settembre 1995 e ad occuparsi del testo fu Alessandro Sisti mentre dei disegni Massimo De Vita.

    Topolino e il talismano elfico

    Minnie è un’appassionata della rivista “Mostri&Mistery” e un’amante del mistero; Topolino per conquistarla accetta di risolvere il caso di una sua amica, la quale credeva di avere la casa infestata ma poi si scoprirà che era semplicemente una radio interferenza.

    La sua fama da “indagatore del mistero” si propaga facilmente sino ad arrivare alle orecchie dell’editore di “Mostri&Mistery”, Galad. Quest’ultimo gli affida un incarico da incubo (che Topolino accetta subito per la sua Minnie): sorvegliare il medaglione elfico del collaboratore Cordelius Plot, medaglione d’argento tempestato di rubini e di diamanti, nonché ereditato dalla famiglia e di “fabbricazione elfica”; dunque di alto valore economico, affettivo e segnato dalla credenza che da esso derivi il successo della rivista.

    Quando Topolino e Minnie arrivano nel luogo dell’incontro, scoprono di non essere i soli ad occuparsi del caso: ci sono anche due “professionisti” con i loro strumenti al completo; essi sono Zed l’acchiappafantasmi e il mago Spookenbaker.

    In seguito ad una serata negativa, Topolino capisce tutto con una sola alzata di occhiali: escogiterà un piano e risolverà il caso…chi saranno i ladri di gioielli? E Galad è veramente un essere umano? Infine Topolino renderà contenta Minnie? La conquisterà?

    L’unico che potrà rispondere alle domande è l’albo; tuttavia posso anticipare che il finale è influenzato da Dylan Dog: per quanto possano esserci delle vicende o degli esseri fantasiosi, alla fine si scopre sempre che i mostri sono gli esseri umani.

    È da sottolineare, però, che l’atmosfera finale, il ruolo dell’indagatore dell’incubo e la copertina sono gli unici paragoni che possiamo constatare, per il resto Topolino non si snatura minimamente: non si ha difronte una parodia completa di un albo di Dylan Dog, come nel caso precedente, bensì un omaggio che viene influenzato in minima parte dalle atmosfere dell’indagatore.

    Leggere per credere!

  • Curiosità alle luci dell’alba dei morti viventi

    Curiosità alle luci dell’alba dei morti viventi

    L’albo dei morti viventi – II

    «Groucho! La pistola!» è una delle citazioni più utilizzate da Dylan Dog, citazione ripresa o stravolta nei “Grouchini”, trattati nell’articolo precedente Dylan Dog presenta: Grouchomicon, il libro maledetto delle risate, Ma da dove proviene?

    La prima volta che l’indagatore dell’incubo richiese il revolver Bodeo 1889 al suo assistente fu nella settantunesima pagina del primo albo di Dylan Dog: “L’alba dei morti viventi”.

    Di cosa si tratta?

    Dylan Dog numero uno, L’alba dei morti viventi, venne pubblicato per la prima volta il 26 settembre 1986 (con data ufficiale di copertina ottobre 1986, mentre la seconda ristampa fotografata è del giugno 1991). Ad occuparsi dell’ideazione, del soggetto e della sceneggiatura fu Tiziano Sclavi; del lettering, invece, Renata Tuis; per quanto riguarda i disegni fu Angelo Stano; mentre la copertina venne curata da Claudio Villa.

    L’albo è diviso in tre parti, di cui le ultime due sottotitolate “Il dottor Xabaras” e “L’orrore”. La vicenda incomincia con la tentata aggressione di una donna da parte di un uomo e con la morte di quest’ultimo per legittima difesa. La settimana seguente la donna, Sybil Browning, suona il campanello di Dylan Dog, ad aprire per la prima volta la porta è Groucho con il suo estenuante umorismo; mentre Dylan entra in scena in maniera sensuale ed irriverente. Nonostante un iniziale diverbio, Sybil presenta il suo caso: suo marito, un biologo dal nome John, torna a casa dopo mesi, malato, con la febbre altissima e un morso sulla spalla; la compagna tenta di curarlo, ma è troppo tardi: lui è già morto… purtroppo non del tutto, siccome egli rinviene e a mo’ di zombie l’aggredisce. Il resto è già stato raccontato, sia da noi che «abbastanza fedelmente dal “Times”» (pag 21). Compaiono, inoltre, due elementi che caratterizzano il personaggio di Dylan Dog: la miniatura del galeone legato alla sua infanzia e il clarinetto, stimolatore di pensieri. Oltre a ciò, viene presentato l’ispettore Bloch, capo a Scotland Yard fino all’albo 338.

    Da questo momento in poi le parole-chiave saranno romanticismo e seduzione tra Dylan e Sybil, zombie e Xabaras.

    Zombie come John e il dottore che scopre il virus sconosciuto nel suo sangue, un microrganismo capace di ridare la vita; zombie come i protagonisti dei film che Dylan “analizzerà” al cinema insieme a Groucho e alla sua nuova fiamma; zombie come i cadaveri contaminati nella cella frigorifera e ai quali Xabaras sparerà in testa e brucerà; zombie come quelli che aggrediranno i protagonisti al villaggio di Undead; zombie come Sybil nel sogno di Dylan Dog.

    Chi o cosa è, invece, Xabaras?

    «Xabaras è l’anagramma di Abraxas, che poi è uno dei nomi del diavolo» (pag 24)[tooltip tip=”Una curiosità è proprio legata alla citazione: Abraxas rappresenta Dio nei testi gnostici, in quanto legato al nome di Ahura Mazda. Che la citazione sia legata al Dio-Demone dei Sette Sermoni di Jung? Che l’autore volesse capovolgere la figura? Sta ai lettori interpretarlo!”][1][/tooltip].

    Il dottor Xabaras è lo scienziato che John ha affiancato durante la ricerca; è la presenza inquietante comparsa in treno; è l’uomo che vive nel villaggio Undead. Egli sta progettando di sconfiggere la morte: Il mio scopo è trasformare la morte in un semplice passaggio da una vita a un’altra senza fine… non quella che promettono le religioni, ma una vita vera, qui, nell’unico mondo che conosciamo… voglio che tutti abbiamo quello che ho avuto io… L’IMMORTALITÀ!» (p.59). Tuttavia il virus sintetico finora testato è imperfetto, poiché il sistema non agisce sul cervello, creando soltanto dei morti viventi liberi di esternare il proprio inconscio e infrangere i tabù (tra i quali il cannibalismo): i nuovi arrivati sarebbero ottime cavie per i suoi test.

    I protagonisti riusciranno a salvarsi? Come? Un indizio: lettore, prova a suonare anche tu il clarinetto!

     Come riconoscere l’originale dal contraffatto?

    La contraffazione è una delle problematiche che attanagliano i collezionisti di Dylan Dog. Il fenomeno è altamente frequente nei primi venti numeri della serie, in quanto essi sono scarsamente reperibili ed sono esauriti presso l’Editore. Il caso emblematico, ovviamente, riguarda il primo fumetto “L’Alba dei morti viventi”.

    Già negli anni Novanta furono creati i primi albi falsificati, i quali hanno assunto ormai un valore collezionistico, in quanto di stampo artigianale: il corpo delle pagine non corrisponde né all’originale né all’inserimento di parte delle ristampe. Tuttavia l’apice è stato toccato recentemente, in quanto i falsi moderni vengono stampati in serie ponendo, all’interno di una copertina replicata, un corpo di pagine provenienti dalle ristampe successive.

    Diversi sono gli accorgimenti:

    La copertina è più scura dell’originale; i fondi dell’albo sono meno nitidi; la seconda e la terza di copertina interni sono bianchi e lucidi come gli albi moderni; il margine del fumetto è ricoperto di colla seccata, questo perché le seconde stampe di Dylan Dog sono impaginate in maniera diversa dagli originali che invece non hanno un bordo di prima copertina attaccato alla seconda pagina del fumetto.

    (tratto da dylandogofili.com).

    Dylan Dog copertina L'Alba dei morti viventi
    Sono, inoltre, verificabili altri due fattori:

    Per quanto riguarda il falso creato dalla terza ristampa Collezione Book, si presentano due evidenti differenze rispetto all’originale: non permane la suddivisione in “capitoli” è la prima pagina recherà il numero 5 e non il 3, siccome la Collezione Book riporta un disegno evocativo della storia tra la seconda di copertina e la prima pagina, che viene conteggiato nel computo complessivo dell’albo; per quanto riguarda il falso creato dalla prima/seconda ristampa, si può riconoscere il falso osservando il font con cui sono stampati i numeri di pagina all’interno dell’albo: l’originale aveva i numeri di pagina stampati con un font piuttosto squadrato, mentre, fin dalla prima ristampa, il carattere è stato cambiato con una forma più stondata.

    (tratto da dylandogofili.com).

    È consigliabile consultare le immagini presentate dai due link per una migliore comprensione.

    Citazioni all’interno del primo albo di Dylan Dog

    Il titolo è un omaggio al film “Zombie” di George A. Romero (Dawn of the Dead – L’Alba dei Morti Viventi). Tuttavia la massima citazione si incontra a pagina 29, durante la serata all’insegna dell’horror, in cui Dylan Dog, Sybil Browning e Groucho vedono proprio il film nominato.

    La tavola si apre con una sequenza del citato film di Romero, in cui viene pronunciata la frase più nota del film: «Quando all’inferno non c’è più posto i morti cammineranno sulla terra». In realtà la citazione è imprecisa. La frase esatta, nella versione italiana del film è «Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra».

    (da Fumettologica)

    Inoltre Dylan replica al disgusto di Sybil: «Non azzardarti più a chiamare schifezza “Zombie” di Romero!» (p 29).

    Per quanto riguarda la copertina, essa è un evidente omaggio ad una delle locandine de “La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead)” (1968) da parte di Claudio Villa.La notte dei morti viventi
    Gli omaggi all’interno dell’albo non finiscono qui:

    • Browning è il cognome di Tod, regista di Freaks (1932) e Dracula (1931);
    • A pagina 15 risuona la colonna sonora di Ghostbusters (1984);
    • Vengono disegnati un disco di Modest Petrovič Musorgskij e la locandina di “The Rocky Horror Picture Show”;
    • Il titolo del secondo capitolo di quest’albo, “L’orrore”, rimanda al romanzo di Joseph Conrad Cuore di Tenebra e, forse più direttamente, al film a questo romanzo liberamente ispirato, Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, e in particolare al monologo sull’orrore del colonnello Kurtz. (Fumettologica);
    • A pagina 33 Xabaras «Non aprite quella porta!…non apritela!» chiara citazione al film “Non aprite quella porta” (The Texas Chain Saw Massacre – 1974) di Tobe Hopper;
    • Il villaggio scozzese Undead richiama il titolo inglese del film “La sopravvissuta” (The Undead) di Roger Corman;
    • Dylan Dog suona il “Trillo del Diavolo” di Giuseppe Tartini con il clarinetto;
    • A pagina 57 Xabaras afferma: «Io sono la leggenda», riferendosi all’opera “Io sono leggenda” di Richard Matheson.

    Infine è dilettevole scoprire curiosità e omaggi dei protagonisti o di altri personaggi, scoprire a chi siano ispirati graficamente e chi li disegni. È possibile stuzzicare la fantasia anche su internet, ad esempio tramite le curiosità del blog A star crossed Wasteland.

    L’opinione pubblica

    L’Alba Dei Morti Viventi. Oggi è considerato all’unanimità un capolavoro della letteratura fumettistica Italiana. Ma il pubblico dell’epoca come l’aveva accolto? Beh, non dico come spazzatura, ma poco ci mancava. L’esordio non fu dei migliori tanto che, citando le parole di Decio Canzio, all’epoca Direttore responsabile della testata: “Un paio di giorni dopo, il distributore telefonò «L’albo è morto in edicola, un fiasco». A Sclavi fu tenuta pietosamente nascosta l’orrenda notizia. Qualche settimana dopo, un’altra telefonata del distributore «È un boom, praticamente esaurito, forse dovremo ristamparlo»”. Nella recente conferenza stampa annuale che la Bonelli tiene ogni 26 Settembre per le novità editoriali di Dylan Dog, Michele Masiero e Roberto Recchioni hanno rivelato che le vendite del mensile sono state pessime fino al numero 9 (Alfa E Omega), per poi salire di botto.

    (tratto ascwblog.blogspot.com, numero dieci).

    Per concludere leggete l’albo e Dylaniatevi, non ve ne pentirete!

  • Dylan Dog presenta: Grouchomicon, il libro maledetto delle risate

    Dylan Dog presenta: Grouchomicon, il libro maledetto delle risate

    L’albo dei morti viventi – I

    La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà

    M. Bakunin

    Grouchomicon, il libro maledetto delle risate, presentato da Dylan Dog, è un progetto del 2017 della casa editrice Sergio Bonelli, incentrato sulla figura di Groucho, il folle e simpatico assistente dell’indagatore dell’incubo. Il cofanetto contiene dodici albi spillati di trentadue pagine e raccontati dai maggiori autori italiani del fumetto comico, oltre all’albo esclusivo firmato da Tiziano Sclavi e Alfredo Castelli, i quali ci regalano un’opera d’arte da montare a mo’ di puzzle.

    Groucho viene presentato in stili diversi sia per quanto riguarda il disegno sia per quanto riguarda la narrazione: trasportato in contesti insoliti al personaggio oppure ricostruito nella sua routine quotidiana, stravolto da una personalità malinconica e riflessiva oppure riproposto nella sua esplosione di allegria e freddure. Insomma, dodici sfumature di Groucho.

    Zerocalcare, Lo sbucciacipolle

    Zerocalcare Grouchomicon

    Il primo albo si intitola Lo sbucciacipolle ed è stato creato da Zerocalcare, «creatura mitologica per un terzo aretino, per un terzo francese e per un terzo di Rebibbia[tooltip tip=”frammento della simpatica descrizione dell’autore all’interno dell’albo, a cura di Roberto Recchioni”][1][/toocdcltip]».

    Zerocalcare, nato a Cortona il 12 dicembre 1983, è uno dei fumettisti italiani di maggior successo, insignito di prestigiosi premi quali il Premio Strega e il Premio Micheluzzi; inizialmente dedito all’illustrazione di volantini di concerti, copertine di dischi e locandine di manifestazioni, l’illustratore si apre al mondo dei fumetti, in un primo momento pubblicandoli su Internet ed infine vendendo oltre mezzo milione di libri.

    La storia riguarda un misterioso caso di spellatura. Due ragazjzi romani suonano alla famosa porta dell’indagatore dell’incubo e ad aprirgli, come sempre, è Grocho con il suo senso dell’umorismo; tuttavia questa volta, in via del tutto straordinaria, sarà lui ad occuparsi del caso e non Dylan Dog. Un essere spella dei ragazzi lasciandoli alle loro paranoie e debolezze più crude, intime e viscerali. A risolvere il caso e a dettarne la morale sarà una versione determinata e grintosa (Zerocalcare probabilmente la definirebbe “cazzuta”) di Groucho, il quale non si troverà a lanciare la pistola al capo, bensì a sparare in prima persona.

    Maicol&Mirco, Papà sto male

    Maicol & Mirco Grouchomicon

    Il secondo fumetto è Papà sto male di Maicol&Mirco, «due autori che però è soltanto uno[tooltip tip=”idem”][2][/tooltip]». Maicol&Mirco è lo pseudonimo di Michael Rocchetti, nato a San Benedetto del Tronto il 2 settembre 1978, che originariamente indicava un duo composto anche da Mirko Petrelli. Autore di storie brevi e graphic novel, il fumettista è conosciuto soprattutto per “Gli scarabocchi di Maicol&Mirco” sul web, irriverenti e caustiche vignette su sfondo rosso.

    La storia narra la nascita e lo sviluppo del senso dell’umorismo in Groucho, presentando l’infanzia di quest’ultimo e il rapporto con suo padre. Sarà proprio l’insegnamento del papà a suggerire la commovente morale.

    Luca Enoch, Groucho oltre lo specchio

    Luca Enoch Grouchomicon

    Nato a Milano il 12 giugno 1962, Luca Enoch «ha spesso trattato temi come il razzismo, la diseguaglianza sociale e la discriminazione. Visto che è tutta roba noiosa, per farlo ha sempre usato delle belle ragazze mezze nude. O nude del tutto, come nel caso di Lilith[tooltip tip=”idem”][3][/tooltip]». Negli ultimi anni, invece, si sta occupando del mondo fantasy, un esempio è l’illustrazione de Il drago di ghiaccio di George R.R. Martin nel 2007. La personalità di Groucho, in questo caso, viene trasformata da una pillola assunta durante una festa. A predominare sarà il suo lato violento, rude, spericolato e donnaiolo.

    Riccardo Torti, Per un pugno di like

    Riccardo Torti Grouchomicon

    Il quarto: Per un pugno di like di Riccardo Torti. Il fumettista, romano, classe ’81, si divide da anni tra la pubblicazione di albi, collaborazioni con prestigiose case editrici quali la Sergio Bonelli Editore e le vignette social “Torti Marci“.

    Proprio il social network Facebook e la predominanza del blu sono i protagonisti della storia. La distrazione causata dal cellulare e la popolarità dall’alter ego mediatico, recano l’estraniamento del reale Groucho. Interessante è la citazione al primo albo di Dylan Dog, tuttavia questa volta l’assistente, intento a postare un selfie, non lancerà la pistola all’indagatore dell’incubo.

    Tito Faraci e Silvia Ziche, Groucho-con

    Sillvia Ziche Grouchomicon

    Tito, nonché Luca, Faraci (Gallarate, 23 maggio 1965) è stato autore di diverse storie per Topolino, Dylan Dog, Diabolik, Lupo Alberto, L’Uomo Ragno, Capitan America ecc.; inoltre è stato uno dei primi narratori italiani a confrontarsi con i comic statunitensi (Marvel Comics dettagliatamente). Silvia Ziche (Thiene, 5 luglio 1967) in un panorama di uomini, si distingue per bellezza, intelligenza e feroce ironia[tooltip tip=”idem”][4][/tooltip].

    La fumettista è famosa per le sue collaborazioni con la Disney Italia, in particolare per il settimanale Topolino, e con Donna Moderna, dove appaiono le strisce di Lucrezia e delle sue crisi sentimentali.

    Durante la convention di sosia di Groucho, tra le freddure degli occhialuti e lo stress degli organizzatori e dei lavoratori, all’interno del Paradise Hotel un assassino uccide. Chi sarà quest’uomo? Chi impersona? Ma soprattutto un comico si salverà? Come?

    Sio, Il bambino dei Baskerville

    Sio Grouchomicon

    Sio, pseudonimo di Simone Albrigi (Verona, 8 ottobre 1988) è un fumettista e youtuber italiano, che ha prodotto libri, riviste, video musicali e videogiochi.

    Ha debuttato nel campo nel settore fumetto con delle storie sulla carta igienica[tooltip tip=”idem”][5][/tooltip].

    Un mistero si abbatte sulla Villa Baskerville. Un bambino, colpito da una forte amnesia, suona al campanello di Dylan Dog; tuttavia ad occuparsi del bambino e del caso sarà Groucho, in quanto Dylan non accetta commissioni in cui non ci sono mamme sexy o mamme sexy zombie. Tra una battuta non divertente e un’altra, Groucho arriva alla villa e scopre quanto un cane dal nome Fufi possa alimentare il mistero e l’orrore.

    Giacomo Bevilacqua, La sindrome di stencil

    Giacomo Bevilacqua, La sindrome di stencil

    A mio parere, uno dei “Grouchini” più belli. «Giacomo Bevilacqua è uno che da anni campa sulle spalle di un ingenuo panda a cui piace tutto[tooltip tip=”idem”][6][/tooltip]”». Famose le sue collaborazioni con là Panini Comics, Bao Publishing e Sergio Bonelli Editore, le sue Graphic Novel sono ormai celebri anche negli Stati Uniti.

    Groucho, in seguito ad una visita oculistica, si trova a percorrere una strada sfocata, a causa della sua vista appannata. I muri sono pervasi di graffiti che la squadra di pulizia e decoro sta cancellando. La fantasia e la realtà si mescolano, l’arte si anima e il lavoratore diviene un disegno assassino, creando una storia di violenza. Il graffito di Dylan Dog ha l’incarico di risolverla, tuttavia il gioco della pistola non può funzionare questa volta, dunque Groucho deve trovare un altro espediente.

    Idea piacevole e grandiose citazioni ad opere famose. La morale è direttamente collegata alla sindrome di Stencil (gioco di parole proveniente dalla sindrome di Stendhal): “Capo, credo di aver capito cos’è che mi ha fatto svenire davanti a quel quadro…non è stata la sua incredibile bellezza… ma il modo in cui ha combattuto e resistito in tutti questi anni” (albo 7 del Grouchomicon).

    Francesco Artibani e Giorgio Cavazzano, Una scatola di polvere

    Giorgio Cavazzano, Grouchomicon

    Francesco Artibani, nato a Roma il 27 ottobre 1968, collabora come sceneggiatore presso la Disney Italia su Topolino, W.I.T.C.H., per la co-creazione di Moster Allergy, ecc. Giorgio Cavazzano, nato a Venezia il 19 ottobre 1947, è noto per i suoi fumetti Disney italiani e le riviste Disney francesi. Semplicemente «prima di Cavazzano, il fumetto non esisteva[tooltip tip=”idem”][7][/tooltip]».

    Una famiglia particolare suona alla porta di Dylan Dog, tuttavia anche questa volta a rendersi protagonista e a risolvere il caso sarà Groucho. Il fantasma di una sconosciuta vecchietta sta infestando la casa della famiglia: è arrabbiata perché i suoi parenti non hanno mantenuto le promesse e l’agenzia funebre ha scambiato le ceneri. Sarà Grocho ad aiutarla e a sventare i crimini dell’obitorio, costruendo un’amicizia.

    Paola Barbato e Luigi Piccatto, Groucho profondo

    Luigi Piccatto, Grouchomicon

    Il nono: Groucho profondo di Paola Barbato (Milano, 18 giugno 1971) e Luigi Piccatto (Torino, 13 luglio 1954), due colonne portanti di Dylan Dog.

    Nel futuro e nell’universo, all’interno di una navicella spaziale, viene risvegliato il quinto elemento: Groucho. Lui e le altre quattro personalità scomposte dal suo intero dovranno contrastare l’apocalisse, dovranno salvare l’universo da Typhoreth l’assurdo, un divoratore di mondi: «li annienta togliendo ogni senso logico alle cose. Chiunque lo incontri è destinato a impazzire[tooltip tip=”Albo 9 del Grouchomicon”][8][/tooltip]».

    Solo un comico resistette di più di qualche minuto, per questo fu scelto lui e le sue personalità. Durante il viaggio si troveranno ad affrontare l’assurdo ed infine il mostro: chi avrà la meglio? Come?

    Interessante notare volti famosi: a voi il divertimento di scoprirne le identità.

    Marco Bucci e Jacopo Camagni, La caduta di Gro-uk-oh

    Marco Bucci e Jacopo Camagni, La caduta di Gro-uk-oh

    Il decimo “Grouchino” è intitolato La caduta di Gro-uk-oh e ad occuparsene sono stati Marco Bucci e Jacopo Camagni, che non hanno una pagina Wikipedia, quindi vi conviene comprare l’albo e leggere la descrizione di Roberto Recchioni!

    Una delle storie più fascinose e passionali del Grouchomicon, in cui Groucho viene presentato come un barbaro, un distruttore in un’epoca passata. Lotte corpo a corpo, muscoli, nudità, sesso, violenza, creature fantasiose, profezie e magie vengono raccontate da una poetica e brillante voce fuoricampo. Tuttavia, anche in un mondo e in una personalità a sé distante, Groucho riesce, infine, a creare un teatro delle risate.

    Daw, Groucho all’inferno

    Daw Grouchomicon

    Il penultimo albo è Groucho all’inferno di Daw. Davide Berardi, in arte Daw, è nato a Bergamo il 9 febbraio 1980. Il fumettista italiano si occupa prettamente di vignette comiche, è conosciuto soprattutto per la serie Lov e gli annessi problemi di copyright.

    Dylan Dog è morto e Groucho insieme ad un assistente va a ripescare la sua anima all’inferno. Groucho, come tutti noi, lo ricorda alla maniera dantesca, mentre in realtà anche l’inferno si è modernizzato. Belzub, un demone antico, non riesce ad accettare le nuove regole dettate dal demone moderno. Grazie a Groucho riuscirà ad approfittare della situazione arrecandone vantaggio. Infine Dylan verrà resuscitato? E come? Da sottolineare la simpatica parodia dell’indagatore dell’incubo.

    Marco e Giulio Rincione, La fine di un giorno qualunque

    Marco e Giulio Rincione, La fine di un giorno qualunque

    L’ultimo fumetto, invece, è La fine di un giorno qualunque di Marco e Giulio Rincione. I due gemelli sono nati a Palermo nel 1990, Marco scrive e Giulio disegna. Mixando tecniche tradizionali e strumenti digitali, creano storie e disegni malinconici, «perché ai due autori non piace che la gente sia allegra», per citare un frammento della simpatica descrizione dell’autore all’interno dell’albo, a cura di Roberto Recchioni.

    Una delle storie più travolgenti, dalle atmosfere più vorticose e trascinanti del Grouchomicon, ci presenta Groucho in una veste inedita: ferito, disilluso e trasformato psicologicamente e fisicamente dall’amore. Lasciatevi cullare dalla narrazione a ritmo di un treno, ma non lasciate andare via Groucho, fatevi lanciare la pistola, ancora una volta… sparate! Leggetelo con amore e malinconia, con la paura di un abbandono e la dolcezza di un abbraccio.

    A voi l’onere e l’onore di scoprire i finali, analizzare gli stili e sviscerare le morali. Certo è che i “Grouchini” non vi deluderanno!

  • La strada della vita: dentro l’assedio di Leningrado

    La strada della vita: dentro l’assedio di Leningrado

    Dicono il Diavolo abbia molti nomi. Lucifero, Satana, Belzebù, Samael, Gabriele Stilli… Il soggetto dell’articolo di oggi ne ha altrettanti, di nomi. Herr Besetzung, Monsieur Siège, Mr. Siege, Мистер Оса́да…

    Noi, usi alla nostra lingua, lo chiameremo Signor Assedio.

    Assedio è uno dei personaggi principali di La strada della vita, graphic novel nata dalla penna di Giovanna Furio e dalla matita di Marco Nizzoli, e pubblicata a settembre 2018 da Oblomov Edizioni. C’è di più: Assedio è il cattivo, di questa graphic novel. La personificazione astratta dell’assedio di Leningrado che, tra 1941 e 1944, reclamò oltre un milione di vite nella città che oggi conosciamo come San Pietroburgo. Le pallottole e le bombe tedesche, la scarsità di cibo e il gelo russo concorsero a creare le condizioni della strage: tali aspetti furono tutti, in una misura o nell’altra, Assedio.

    E proprio Assedio, nel fumetto, presiede al massacro. Lo dirige e lo coordina, come un maestro di cerimonie avvezzo al suo mestiere: carismatico, abituato alla pompa senza esserne assuefatto, distante e clinicamente efficiente. Un essere che è al contempo invisibile agli occhi delle vittime ed esposto alla massima visibilità, nel suo istrionismo crudele quanto scanzonato, di tutte le vignette che lo ospitano.

    Quello di oggi è un articolo ad personam. Un’intervista ad personam, anzi. Sulle orme dell’incontro di presentazione tenutosi venerdì 7 dicembre presso la Libreria Il Delfino di Pavia, gli autori del volume si sono offerti di rispondere a qualche domanda sul diabolico, spettacolare villain della loro vicenda.

    Davide: Giovanna, Marco, benvenuti (metaforicamente parlando). Lo stoicismo di cui date prova continuando imperterriti a sopportarmi è lodevole. Da dove è nata l’idea di dare una forma fisica, nella vostra opera, proprio all’Assedio di Leningrado? Non la Fame, non il Freddo, non la Morte… l’Assedio. Un’entità che in sé riesce a convogliare tutti gli aspetti precedenti, ma che appare decisamente inusitata: e in quanto tale decisamente originale.

    Giovanna: Assedio come entità fisica nasce quasi in contemporanea alla rappresentazione delle entità Inverno, Tempesta, Gelo e Fiamma. In questi termini si definisce come oppositore per eccellenza di un universo declinato su piani differenti: reale e fantastico, toccando sfere che coinvolgono un piano collettivo e personale in un colpo solo. In realtà in un primissimo approccio all’idea della storia avevo pensato ad Assedio come a un personaggio del mondo reale. Un asso nella manica di Hitler. Un personaggio immaginario che avrebbe dovuto inserirsi in uno scenario prettamente terreno, legato a una mia vecchia passione: la storia delle strategie militari.

    La strada della vita

    Non ci è voluto molto per capire che la storia, quella del mondo fantastico, sarebbe rimasta orfana della controparte di cui avevo bisogno perché funzionasse. Quindi…l’ho introdotto come il male per eccellenza in un mondo invisibile ai più. Dargli una forma a quel punto è stato naturale per me.

    Davide: Nel dialogo con un altro personaggio (il presente, si sappia, è un articolo rigorosamente SPOILER FREE), Assedio fa diverse allusioni a suo padre. Un’entità superiore dalla quale si è liberato a caro prezzo: guadagnandosi, nel far ciò, un marchio di traditore impresso a fuoco sulla pelle. Chi è, questo padre più grande persino del cattivo della vicenda? Una più generica Morte, forse? E qual è il marchio dell’ignominia che affligge Mr. Assedio, così composto e signorile?

    Giovanna: Assedio è figlio di un massimo e supremo BENE. Per questa ragione la sua ribellione ha comportato un prezzo molto alto da pagare. Assedio decide di occuparsi della parte oscura e maledetta della creazione, di cui egli stesso è parte: il male. Ma va persino oltre. Il suo scopo è alimentarlo. Il male che amministra è per lui una forma di intrattenimento. Un male insidioso, possibile soltanto attraverso le azioni degli uomini. La sua è una forma subdola di interferenza allo scopo di accompagnare sul sentiero del non ritorno le vicende umane. Il suo marchio è quello del sobillatore, per l’appunto.

    Oh, sì… accoglietemi morendo, voi tutti.
    Questa è gioia! Questa è musica!
    Requiem a voi!

    Davide: In una delle scene più atroci aventi per protagonista il cattivo della vicenda (e in una di quelle in cui, consono al suo ruolo, il nostro si palesa più noncurante e rilassato: come un impiegato sul finire del suo turno), Assedio dichiara di essere nato assieme al mondo, senza però accusare alcuna vecchiaia. Non è anziano, lui: è esperto. E, in quanto esperto, visita tutti coloro che lo invocano, senza un’ombra di stanchezza o di fatica. Lui l’uomo lo segue da vicino dai tempi del Diluvio. Gli sta appresso ogni volta che sbaglia, ogni volta che perde.  Si nutre di debolezze umane; i suoi ambiti di competenza privilegiati sono odio, crudeltà e genocidi.

    Assedio, se non altro, sembra una personificazione della Morte violenta: quella intenzionale, quella cattiva, lontani dal proprio letto e dal pacato fluire degli eventi. È questo, il ruolo che avevate ponderato per l’antagonista? In altri luoghi e in altri momenti, Mr. Assedio magari è stato – e ancora ha da essere – Mr. Guerra, Mr. Genocidio, Mr. Strage?

    Giovanna: Questo è il ruolo che ho pensato per lui sin dall’inizio. Occupandosi e alimentandosi della parte oscura della creazione, puoi declinarlo secondo i diversi gradi di degenerazione che macchiano e che hanno macchiato il genere umano lungo il filo della storia.

    La strada della vita

    Davide: Giovanna mi aveva accennato alla sua idea originale sulla forma fisica di Assedio. Vi dispiacerebbe ricordarla?

    Giovanna: Nell’idea originale Assedio era una figura sì antropomorfa ma dalla sostanza decisamente diversa: era formata da una miriade di scarafaggi. Gli scarafaggi in fatto a disgusto hanno un riscontro unanime. Non solo: sono in grado di sopravvivere a tutto.

    Marco: Gli scarafaggi sono stati sostituiti da corvacci neri in stato di decomposizione, ma è stata una scelta estetica: semplicemente funzionavano meglio.

    Davide: Penso la forma definitiva del nostro mi sia più congeniale. Forse. Volete dirci qualcosa della sua creazione? Da dove è derivato l’iconico outfit, completo di ghette impeccabili, bastone da passeggio istoriato e cappello a cilindro? Nella moltitudine di teschi che lo decora dobbiamo vedere la classica iconografia della Morte oppure, magari, un riferimento alle uniformi delle Schutzstaffel, idealmente gli “Assedianti” in carne e ossa?

    Giovanna: Da una ragione semplice: il male è anche una forma di perbenismo, quella che permette di farsi strada con facilità nella vita. Assedio incarna questo concetto attraverso un’eleganza quasi maniacale. Per questo mantello, cappello a cilindro, bastone e sigaro all’occorrenza mi sono parsi gli accessori più consoni con cui vestirlo. Di primo acchito potrebbe essere scambiato per un uomo d’altri tempi. Un uomo distinto. In realtà si tratta del suo ennesimo travestimento volto ad occultare la sua natura.

    Pleased to meet you / Hope you guess my name

    (The Rolling Stones, Sympathy for the Devil)

    Davide: E in quanto al volto, di Assedio? Il suo viso scheletrico è molto vicino alle rappresentazioni classiche della Morte, ma la sua forma oblunga mi ha riportato alla mente anche le iconiche maschere da medico della peste seicentesco. Un’immagine che, a sua volta, sposa alla perfezione quella del corvo, alto sul luogo della strage, in attesa di potersi concedere un lauto pasto. I corvi restano la manifestazione più tangibile di Assedio, dopotutto. Corvi immateriali, invisibili: troppo fredda Leningrado, e troppo intirizziti i corpi che dovrebbero costituirne l’alimentazione privilegiata, perché possano trovarsene di veri.

    Marco: Il volto scheletrico è la rielaborazione del teschio di un uccello, usare un teschio umano mi sembrava banale. Inoltre in alcune scene vediamo uno stormo di corvi neri che si fondono l’un l’altro prendendo l’aspetto antropomorfo di Assedio; dargli un viso scheletrico che ricordasse quello di un volatile è stata una scelta conseguente.

    Giovanna: I corvi traslati nel mondo dell’invisibile a cui Assedio appartiene riprendono la più classica iconografia e simbologia di una certa letteratura gotica e romantica.

    In alcune delle scene che lo vedono protagonista (inclusa l’atrocità di prima), Assedio ci appare ricoperto di sangue: una nebbia rossa che sembra sua diretta emanazione, secrezione delle sue sembianze immateriali. Si tratta di una manifestazione delle vittime fino ad allora accumulate? O di quella che, in quel preciso momento, sta per aggiungere alla lista? Nella stessa istanza, poi, il nostro mastica avidamente un sigaro. La fiamma da lui animata – contrapposta a quella che, altrove, si è applicato per sopire – ha un qualche significato, o è semplice elemento di costume caratterizzante l’azzimato gentil“uomo”?

    La strada della vita

    Marco: La tua intuizione è esatta! Quel sangue non è altro che l’aura di Assedio a simboleggiare la sua essenza di morte. Per quanto riguarda la fiamma animata dal suo sigaro, è una semplice nota di colore che accentua l’aspetto surreale del personaggio.

    La conquista dei corpi e delle menti è la parte che preferisco.
    Mi offre una fisicità che non ho.
    Mi fa sentire cose che altrimenti non potrei conoscere.

    Davide: Che significato ha, per Assedio con la “A” maiuscola, l’inevitabile dissoluzione dell’assedio? Va considerata una sconfitta? O, semplicemente, quel milione di vittime equivale a un “è stato bello finché è durato”?

    Giovanna:  “È stato bello finché è durato”. Si sposa perfettamente con la natura predatoria di Assedio.

    Davide: In base alla domanda di prima: come si manifesterebbe, al giorno d’oggi e nella nostra realtà, Assedio? Sceglierebbe sembianze diverse? Un nome diverso, magari? Niente nomi di ministri, per favore: l’autore dell’articolo al pensiero ha già ridacchiato a sufficienza tra sé e sé.

    Giovanna: Al momento è troppo presto per parlarne. Siamo nell’ambito di un altro progetto in lavorazione.

    Davide: Che dire… penso per oggi possa andare. Giovanna, Marco, grazie di cuore di essere stati con noi. Aspettiamo con ansia la vostra prossima collaborazione: tra voi due, chiaramente; ma anche con noialtri non sarebbe male. Un’intervista con Mr. Spread, magari?

    Giovanna: Grazie a te Davide. Alla prossima intervista ad personam.

    Strada della vita

  • Alzheimer. Storie a casaccio, di Rosa Puglisi

    Alzheimer. Storie a casaccio, di Rosa Puglisi

    Focolare color cielo, v. 2

    Canzone consigliata durante la lettura: nessuna, o almeno nessuna esplicitamente nota all’autore dell’articolo. Blue degli Eiffel 65, da un punto di vista puramente semantico, potrebbe vantare una corrispondenza perfetta con le predilezioni cromatiche del nostro oggetto di analisi odierna.

    Le corrispondenze, purtroppo, si fermerebbero lì[tooltip tip=”La canzone, pertanto, è stata severamente sbarrata, perché non vi venga l’idea di andare a cercarla e sentirla durante la lettura. Non ci sono, d’altra parte, obiezioni sul cercarla e sentirla al di fuori della lettura.””][1][/tooltip].

     


    Il presente articolo non c’entra nulla con quello che, ormai un’eternità fa, è uscito con lo stesso titolo. Eppure, il titolo in sé calza alla perfezione l’argomento di oggi: più di quanto non accadesse, in effetti, con lo splendido fumetto Il blu è un colore caldo di Julie Maroh e con la sua distinta – ma degna – trasposizione filmica La vita di Adele, firmata Abdellatif Kechiche.

    Focolare color cielo“: si parla di calore, e si parla di blu. Un accostamento antitetico risolto, nelle due opere sovra citate, in una storia d’amore osteggiata dal mondo, dalla società, dalle stesse difficoltà della relazione.

    Calore ce n’era tanto; blu ancora di più.

    L’articolo di oggi va oltre. Ha il calore, ha il blu. Ma ha, soprattutto, il focolare: quello domestico.

    È una storia di casa, di famiglia.

    È Alzheimer. Storie a casaccio di Rosa Puglisi alias “Vorticerosa[tooltip tip=”Nessuna parentela (almeno dichiarata) con Pioggiafucsia, Ventovioletto e Mulinellopervinca.”][2][/tooltip]”, pubblicata da It Comics: piccola casa editrice i cui membri, nell’omonimo It Space di via Giovanni Enrico Pestalozzi a Milano (non molto distante dalla fermata Romolo della Metro 2 verde), organizzano corsi di disegno e fumetto.

    Alzheimer storie a casaccio

    È una graphic novel peculiare; se invero l’etichetta non le risulta troppo larga. Un’opera fulminea nella brevità della sua durata (neanche quaranta pagine, diverse delle quali occupate da note o soli titoli), debitrice all’illustrazione e all’arte visiva più che alle squadrate vignette e ai balloons[tooltip tip=”Nome della rubrica inserito nell’articolo. Boom, baby. Sfido gli altri a cacciare nei loro Eremos Kora o Cerco la strofa.”][3][/tooltip] del fumetto.

    Mi ricordo, o non mi ricordo…
    So che sono qui,
    vedo le mie mani e il mio viso,
    vedo che è sempre lo stesso.
    Sì, è proprio il mio viso.

    È, come da titolo, un insieme di storie rigorosamente “a casaccio”, un flusso dominato dalla malattia di Alzheimer: dalla coltre d’indistinzione e ottundimento che, avanzando di pari passi con l’impietoso scorrere degli anni, priva le sue vittime anche del conforto dei più cari ricordi.

    Ed è una vicenda di cui, considerata l’immediatezza della sua fruizione, non avrebbe senso fornire le guide linea. Basti sapere che a narrarla e a costituirne la protagonista è una figlia, una madre, una nonna: chiamata a rivestire alternativamente i tre ruoli assecondando lo scorrere caotico del tempo; le immersioni nel passato come le traumatiche emersioni nel presente.

    Le immagini fluttuano in libertà sulle pagine, incuranti del severo pattern che domina le stesse: righe e quadretti giustapposti casualmente, a indicare l’umile mezzo di un semplice quaderno (di più quaderni, anzi). Un supporto che si fa vero e proprio album di fotografie; ricettacolo in cui, a fatica e senza soluzione di continuità, si raccolgono le immagini di tutta un’esistenza. Si strappano alla graduale progressione della malattia, una ad una, per poterle conservare, per averle vicine. Eppure, le nebbie dell’Alzheimer riescono a infiltrarsi anche nella carta e nelle immagini: distorcendo i confini di una vicenda che, proprio come la sua narratrice, non riesce a mantenere un’oggettività testimoniale.

    Alzheimer storie a casaccio

    Ciò che emerge da questo scandaglio, pur frammentato e distorto, è l’affresco di una Sicilia novecentesca, barcamenatasi faticosamente tra due conflitti mondiali per poi varcare la soglia della seconda metà del secolo. Un mosaico familiare dai plurimi e variegati tasselli, dove l’oggettistica di casa ha un valore precipuo: appiglio materiale all’esistenza, lascito di ciò che è stato che a sua volta costituisce un caleidoscopio di storie, di volti, di vite. Un catalogo, affiancato da timide nuvolette, che l’autrice di Alzheimer sembra conoscere alla perfezione, e che nell’universo da sogno del fumetto ha trovato la perfetta corrispondenza alle sue reali sembianze.

    Care nonne,
    raccontate ai vostri nipoti
    le esperienze più belle della vostra vita
    come fossero fiabe,
    non lasciate che come eredità
    prendano il sopravvento solo
    i ricordi dei dissapori familiari.

    Lasciandosi trasportare dal lento flusso dei ricordi, il disegno si serve di forme differenti. Scandaglia il blu soffuso dell’esistenza trascorsa in cerca di immagini, appoggiandosi ora a sagome infantili ora a schizzi virtuosi, per giungere all’esibizione di scorci pittorici: tutti paesaggi della memoria, dal primo all’ultimo.

    Incollati con mani ormai tremanti e insicure sul libro della vita, certo. Ma anche disposti con maestria sulla pagina del fumetto, a regalare un impatto visivo unico e di infinita tenerezza.

    Alzheimer. Storie a casaccio, in definitiva, non sarebbe fuori luogo descriverlo servendoci del già citato titolo dell’opera di Julie Maroh, del “Focolare” precedente.

    Mai come ora, infatti, il blu è stato un colore così caldo.

    Manina salutina
    Vorticerosa, oltre ad avere realizzato la presente graphic novel, è anche nota come la geniale inventrice dell’innovativa Manina Salutina™. La Manina Salutina™, oltre ai suoi ovvi pregi (immediatamente evidenti a qualunque persona di intelligenza elevata), ha il grosso vantaggio di essere blu pure lei. Alla Manina Salutina™ ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli.
  • Io sono Una: sentirsi marce per la brutalità altrui

    Io sono Una: sentirsi marce per la brutalità altrui

    È così impalpabile Io sono Una. Frasi scarne, semplici, un po’ didascalie, un po’ appunti, considerazioni. Quelle frasi che metti lì in un discorso, mentre stai facendo altro, mentre sei sovrappensiero e intanto parli. Quelle frasi appese, aeree come dei balloons. Doveva venir fuori per forza una graphic novel. Tutta quell’aria, tutto quell’inespresso potevano emergere solo con grandi campiture di bianco e di nero, e queste nuvolette.

    È una ragazzina come tutte le altre, Una. Una ragazzina con la sua chitarra, i suoi sogni, le sue prime impressioni del mondo. Aspettiamo di conoscerla, di capirla, sfogliando pagine di alberi e figure. Le nuvolette appaiono qua e là, come se a parlare fosse uno spirito, una coscienza priva di corpo:

    Cosa vi posso raccontare? Be’… Una volta ho imparato a suonare Mull of Kintyre alla chitarra. Gli altri ragazzi mi prendevano in giro. Ma io pensavo davvero che fosse una bella canzone! Era il 1977. La maggior parte dei miei coetanei era in fase punk, o ska, anche se avevano solo dodici anni, quindi ero proprio fuori tempo. Era una strana epoca musicale.

    Le parole sono molto distanti tra loro, come se fossero dette a fatica. Le pagine diventano man mano più scarne, bianche, e i disegni si fanno maggiormente metafisici. «Adoravo Val Doonican. C’era una sua canzone che s’intitolava Walk Tall. Mi diceva di camminare dritta e di guardare il mondo dritto negli occhi. Ed era quello che cercavo di fare. Presto imparai ad abbassare lo sguardo».

    1975, Yorkshire. Un anno duro, il ’75, per lo Yorkshire. I fatti del mondo arrivano attutiti nella contea inglese, ma c’è una storia che sta prendendo forma, e di cui Una sentirà parlare per molti anni a venire: «Il 5 luglio, qualcuno con un martello e un coltello aggredì in una stradina una donna trentasettenne di Keighley. Sopravvisse. Il 15 agosto, qualcuno con un martello e un coltello aggredì per strada una quarantaseienne di Halifax. Rimase ferita in modo serio. E il 27 agosto, qualcuno aggredì in una stradina sterrata di Silsden una quattordicenne, ferendola gravemente».

    Accadono molte cose in quell’anno, nello Yorkshire. Un’ereditiera adolescente viene ritrovata uccisa sul fondo di un canale di scarico; una ragazzina undicenne viene ritrovata, stuprata e uccisa, nella brughiera vicino a Ripponden. Qualcuno, sempre con un martello, uccide una donna a Leeds.

    Io sono Una
    “Presto imparai ad abbassare lo sguardo”

    «Il 1975 fu un anno intenso anche per me. È l’anno in cui incontrai un uomo che mi disse di chiamarsi Damian. Fu l’inizio di una calda estate…» Una non fa parola con nessuno di questo Damian, di chi sia, di cosa abbia fatto con lei. I genitori sono altrove, hanno altri problemi. Addirittura Una ha una sorella senza saperlo. Non è una famiglia particolarmente disastrata, quella di Una: è una normale famiglia dello Yorkshire degli anni settanta. Una non ha altra scelta che seppellire dentro di sé quel fatto. «Cercavo di essere una brava bambina».

    E non è l’unico. «Circa un anno dopo, mentre giocavamo, ci trovammo davanti due ragazzi grandi, ci fecero sentire molto adulte. Pensai che ci saremmo baciati! Fantastico! Un uomo adulto era interessato a me! Mi resi subito conto… che non avevo capito bene la situazione». Uno di questi si chiama Terry.

    Sarebbe molto più facile se la prossima volta mettessi una gonna.

    Sì, mi ha detto così.

    Ci vorranno anni ad Una per rendersi conto di essere stata vittima di stupro. L’apparente dolcezza con cui Damian e Terry si sono avvicinati a lei li rendevano diversi da quegli uomini sui giornali che uccidevano e violentavano. Sapevano come tranquillizzarla, come conquistare la sua fiducia. Non l’hanno aggredita, e lei non poteva immaginare nulla di male. Di queste cose non si parlava mai ai bambini, se non con con «vaghi avvertimenti su sconosciuti e caramelle». Ma, di caramelle, nemmeno l’ombra.

    Da questo momento in poi, comincia per Una una diversa esistenza. In un primo momento non si rende conto di quello che è successo, ha semplicemente paura. Una paura irrazionale, una paura infantile. Ha paura di qualcosa, qualcuno che la possa rapire, la notte. Qualcuno che la stia spiando. Il suo corpo cambiava, come una crisalide.

    Forse pensate che io abbia rinunciato alla mia intimità per quello che mi è successo, ma non succede quasi mai così. I bambini non razionalizzano le cose allo stesso modo degli adulti. […] Quando qualcosa dentro di te si rompe, le tue difese non funzionano più molto bene, e quelli che intendono farti del male lo fiutano subito. Scoprire che non sei al sicuro nemmeno nel tuo corpo è profondamente traumatico, purtroppo…

    Copertina Io sono Una

    Difficile esprime re il concetto in maniera più sintetica e chiara. Forse è questa la caratteristica straniante della graphic novel: frasi dirette, quasi asettiche, incorniciate in balloons e disegni che le trasformano, facendole entrare direttamente dentro di noi. Il punto è questo: da un lato l’avvenimento è annichilente per la ragazzina, dall’altro però le ha fatto scoprire qualcosa di completamente nuovo, e che quindi sente di esplorare, e di conoscere meglio.

    È esattamente in questo modo che la bambina inizia a scavare una trincea tra sé e la società, che non la capisce e la colpevolizza sempre di più. La ragazzina sarà vittima di altri uomini, fino a convincersi di essere lei il problema, di essere irrazionale, squilibrata. Per gli adulti è una ragazzina strana, incomprensibile, “problematica”; per i suoi coetanei, è semplicemente una «troia».

    Nel frattempo, gli omicidi di donne aumentavano, e probabilmente la mano era sempre la medesima. Si incomincia quindi a parlare di un misterioso «squartatore». Non si sa come, ma tutte le donne che uccideva venivano in qualche modo etichettate come prostitute. Fra i ragazzi, lo squartatore riscuoteva quasi più successo che riprovazione, e non erano rari gli scherzi, le canzoncine e lo humour macabro; oggi ci avrebbero sicuramente fatto dei meme. Dietro lo «squartatore»  c’è tutta una società a sostenerlo, una società che l’ha nutrito fino a un momento prima, e che continua, velatamente, a nutrirlo.

    Sebbene vi fossero anche dei movimenti di protesta, delle lotte, il sentimento comune era molto più tiepido nei confronti dello squartatore. Certe cose non succedono se non te le sei andate a cercare: questa era la mentalità dominante. Ed è evidente, a questo punto, come le due cose, la cronaca giornalistica e la vicenda personale di Una, si intreccino: le cose ti succedono perché sei una puttana, una troia. Alle persone buone queste cose non succedono.

    Certo, si può pensare che quella fosse la mentalità retriva dello Yorkshire degli anni settanta. Oggi siamo persone moderne e non la pensiamo più così. Ma allora, si chiede Una, come mai nel Regno Unito quasi nessuno viene condannato? Secondo la graphic novel, il 39% degli accusati di violenza; ma per lo stupro vi sono dati ben più gravi. Stando alle dichiarazioni della deputata inglese Jess Phillips. infatti solo del 2%. degli accusati per stupro viene effettivamente condannato. Un dato sconcertante, assurdo, che sembra inverosimile.

    Una
    “Nel 2012 due delle motivazioni più comuni per non aver denunciato le violenze sessuali più gravi erano: la vergogna e l’idea che la polizia non potesse fare molto”.

    E poi c’è l’oceano dei crimini sessuali non denunciati.

    Il peso che Una si trascina sulle spalle è come un grande balloon bianco. È un vuoto che pesa. È la sua condizione di sopravvissuta. Se, infatti, da un lato molti colpevolizzano la vittima, altrettanti la compatiscono, la cristallizzano nel suo ruolo di vittima: qualcuno che sì, è sopravvissuto, è ancora vivo, ma è irrimediabilmente spezzato. Quello che le è successo è così inconcepibile che non vi è rimedio. Sarà sempre una vittima.

    Per potersi lasciare alle spalle i ripetuti stupri, Una, che esiste davvero ed è l’autrice della graphic novel, si è dovuta trasferire dove nessuno la poteva conoscere, e, afferma, ancora adesso il suo passato a volte torna a trovarla, «perché la gente ama le storie intriganti».

    È un libro struggente, carico di domande, che lascia un enorme senso di vaghezza e di tenerezza poetica. Racchiude in sé una vita, senza una sola parola retorica. Senza essere in nessun momento un’opera militante. Anche nelle sue parti più dure, vi è sempre il segno di una mano carezzevole. Di una mano che non si rivolge soltanto alla grande massa di chi non ha mai subito violenza, ma anche a chi l’ha subita, per dire che lo stupro non è, non deve essere un marchio indelebile. Che ci si può alzare, non si può vivere il resto della propria vita sentendosi marce dentro per colpa della brutalità altrui.

    Io sono Una non indica una via d’uscita. Non la indica nel coraggio, nel dover essere una “vittima forte”. Nessuno ridarà Una com’era prima degli stupri che ha subito; nessuno le ridarà indietro la sua parte orribile di vita. Eppure, se c’è una via d’uscita, questa la si trova, forse, negli alberi che popolano il libro, storti nodosi, fitti fitti di rami bassi a toccare terra; alberi tristi, spogli, pieni dei loro segni di dolore, eppure vividi di una luce inaspettata.

     


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  • L’Eternauta: il sergente nella neve (radioattiva)

    L’Eternauta: il sergente nella neve (radioattiva)

    Arrancano con fatica sotto la nevicata.
    Sono armati, tutti: e dai vari livelli di familiarità con le armi
    è possibile distinguere i soldati dai semplici scampati.
    I mezzi corazzati che li accompagnano sembrano condividerne il peso;
    i cingoli stridono come di rassegnazione.
    Arrancano con fatica sotto la nevicata;
    ricoperti delle goffe tute ermetiche che ormai hanno assunto
    le parvenze di un’uniforme.
    Di fronte a loro Buenos Aires, o ciò che ne resta.
    A rifrangere il panorama urbano in una miriade di frammenti,
    i fiocchi di neve incessanti.
    Leggiadri, eterei, bellissimi.
    Fosforescenti, alieni.
    Letali.

    È in questa introduzione melodrammatica e non scevra di rassegnazione esistenziale (mia, va da sé) che si sostanziano le premesse de L’Eternauta: fumetto a episodi apparso sulle pagine dell’argentino Hora Cero Semanal nel 1957, e soggiornatovi fino al 1959. Spezzoni in bianco e nero settimanali, sottomessi alle esigenze di continui sommari e ricorrenti cliffhanger, andati a confluire solo in seguito nella monumentale graphic novel di cui andiamo trattando oggi.

    Un caso più unico che raro, oltretutto, di opera tradotta in italiano ma non in inglese.

    Nella sua natia Argentina, L’Eternauta è un vero e proprio cult. E come cult si configura anche, con tutta probabilità, nella percezione dei pochi lettori occidentali che siano arrivati a mettere le mani sulla sua esclusiva versione cartonata del 2017, curata da Antonio Scuzzarella e pubblicata da 001 Edizioni: stampata in orizzontale e restaurata per riportare alla luce tutto ciò che il formato periodico posticcio le aveva sottratto.

    Filologia del fumetto, nientedimeno.

    Questa misconosciuta pietra miliare della letteratura a nuvolette nasce dalla mente di Héctor Germán Oesterheld, e trova concretizzazione grazie alla mano del disegnatore Francisco Solano López. Il secondo si è spento nel 2011, consapevole di aver regalato al mondo dei fumetti uno dei suoi più fulgidi esempi.

    Al primo è andata diversamente. Héctor Oesterheld è scomparso nel nulla il 21 aprile del 1977. Anzi, non è scomparso: è desaparecido. Fatto sparire da una delle squadre armate al comando del dittatore Jorge Rafael Videla, propugnatore della Guerra suciaGuerra sporca») con cui il neonato regime argentino, dal 1976 in poi, si premurava di rimuovere i “sovversivi”. Oesterheld è prelevato all’apice di un’agonia durata un anno, che gli ha visto sottrarre nel medesimo modo tutte e quattro le figlie – due delle quali incinte. Desaparecidos, dalla prima all’ultimo. Genitori e figli, figli destinati a diventare genitori. Tutti entrati nel nulla.

    E sull’ignominiosa dittatura argentina di là da venire, forse, L’Eternauta aveva avuto modo di esprimersi ben prima del tempo.

    L'Eternauta

    La vicenda, anticipata dalla narrazione iniziale, è semplice: una bella sera d’estate, una sonnolenta Buenos Aires si scopre improvvisamente coperta da una nevicata fuori dalla norma. Il tratto più appariscente della birbante precipitazione estiva è il barlume fluo dei suoi fiocchi; il più notevole, d’altra parte, è la capacità di causare la morte immediata di quanti vi entrino a contatto. Licenziati in maniera letale i meteorologi che avevano previsto cielo sereno, la nevicata massacra indistintamente la popolazione, congelando ovunque i civili nella quotidianità spezzata della loro dipartita.

    È uno scenario replicato ovunque nel mondo. Si tratta, dopotutto, di una manovra ponderata: della prima, primissima manovra di un’invasione aliena, atta a indebolire le difese terrestri in vista della conquista del pianeta.

     

    Alla disfatta atmosferica scampa, va da sé, il gruppo dei protagonisti. Esponenti della classe media occupati nei lavori più svariati, ma uniti tutti dalla passione per il fai da te nel solaio dell’amico Juan Salvo: colui che, di lì a poco e tramite varie peripezie, è destinato a diventare l’eternauta del titolo.

    Ma sugli sviluppi successivi, per non rovinare l’esperienza, si taccia.

    Sappiate solo che, scoperto nel loro amore per il bricolage in compagnia un’ottima abilità da possedere durante un’Apocalisse aliena, lo sparuto gruppo abbandona gradualmente la sicurezza della villetta di Juan. O, come sostiene eloquentemente un altro Juan, Juan Sasturain, nell’introduzione al testo, apre le porte all’Avventura con la A maiuscola.

    I protagonisti entrano in contatto con invasori alieni sempre più minacciosi, interagiscono con altri superstiti, si scoprono riuniti in un esercito improvvisato per contrastare la minaccia extraterrestre. Proprio dall’ultima caratteristica deriva il paragone col titolo di Mario Rigoni Stern: dall’attenzione dedicata ad azioni militari romanzate, alla disastrosa avanzata in un territorio nemico insidioso ed estraneo. Gli invasori rivelano via via il loro arsenale sovrannaturale, e i terrestri non possono affrontarlo che con “rudimentali” mitragliatori, cannoni, carri armati.

    Hanno qualcos’altro, però.

    Lealtà, coraggio, generosità e astuzia: sono le virtù dell’Eroe. Degli Eroi, anzi. Perché Juan non sopravviverebbe senza Fava, senza Pablo, senza Franco; e lo stesso vale per loro. È una collettività eroica, quella di Oesterheld e López, che assume sostanza nelle sfaccettature dei suoi singoli componenti. Ne fanno parte l’introspezione riflessiva di Salvo, il raziocinio asettico del fisico Favalli, l’avventata vitalità di Franco: esponenti di una popolazione che, a scapito delle sue differenze, è pronta a dare il meglio per opporsi all’invasione e all’oppressione.

    L'Eternauta

    Gli sforzi di Juan e degli altri esseri umani si snodano tra l’azione bellica e la ricognizione, tra la tragedia del setting e la naivëte avventurosa dei singoli episodi: picareschi incontri con la minaccia aliena dominati dall’iniziativa e dalla furbizia dei terrestri, dalla loro capacità di adattarsi a situazioni strane e diverse.

    Gli invasori osteggiano i protagonisti con ogni mezzo, facendosi gradualmente più insidiosi, ma non tardano a divenire parte integrante di una nuova, apocalittica quotidianità: i Cascarudos, i Gurbos, gli angoscianti Hombre-robots e i tragici Manos sono rapidamente fagocitati dall’immaginario dei sopravvissuti, e con altrettanta rapidità divengono ostacoli familiari, comuni, prevedibili. Sono entità aliene a misura d’uomo, che accettano senza proteste l’onomastica loro attribuita (magicamente – e comodamente – coincidente coi loro veri nomi) e arrivano a dimostrare un’impensata serie di somiglianze con le loro vittime.

    Non c’è da sorprendersi. Gli “invasori” non sono che ingranaggi delle macchinazioni di qualcun altro; aguzzini inquadrati in una piramide di aguzzini. Su tutti costoro incombono le eminenze grigie dei los Ellos: le menti amorfe dell’invasione, troppo immateriali ed evanescenti per essere evocate se non in assenza, in una lontana terza persona. Entità nella cui minacciosa latenza materiale non sarebbe fuori luogo cogliere riferimenti a un’America latina governata dall’alto, da una serie di regimi dittatoriali la cui sola menzione poteva far scomparire le persone nel nulla.

    Come riferirsi a un simile sistema di aguzzini se non come a “Loro”[tooltip tip=”No, nessuna parentela con le recenti produzioni di Paolo Sorrentino.”][1][/tooltip]?

    La narrazione bellica dell’invasione aliena, la cronaca che lo storiografo Mosca tenta di stendere con una puntigliosità comica e incurante del contesto, è lo specchio di un Paese avviato verso il regime, verso un’oppressione che avrebbe messo a tacere ogni voce contraria. Finzione e realtà si incontrano, fanno coincidere le loro distopiche – e dispotiche – prospettive in una desolante convergenza di universi.

    Entrambe le vicende, d’altra parte, sono incastonate entro una cornice percettiva autobiografica pressoché univoca. Entrambe sono oggetto dello sguardo di uno sceneggiatore di fumetti argentino[tooltip tip=”Sceneggiatore di fumetti: what were the chances? Se questa non è proiezione autobiografica, non so francamente cosa possa esserlo – e non lo so, eh -“][2][/tooltip]: ora testimone del racconto dell’eternauta palesatosi inaspettatamente in casa sua, ora preoccupato osservatore di un regime di cui già si potevano scorgere le avvisaglie.

    Nella narrazione di Juan, l’Oesterheld disegnato ha modo di sperimentare l’invasione dalla sicurezza della sua villetta di periferia: una casa in tutto e per tutto paragonabile a quella dello stesso eternauta.

    L'Eternauta

    Il vero Oesterheld, come sappiamo, non potrà fare altrimenti.

    Sulla desolazione di un’esistenza sudamericana sconvolta dal cataclisma si stagliano i virtuosi disegni di Solano Lòpez. Dal candore della nevicata – e della pagina – emergono volti, ombre, dettagli. Lineamenti maschili scavati nella pietra, fattezze femminili di infinita delicatezza, avversari delineati da dense masse nere. Lo sguardo talvolta si allontana, arrivando ad accogliere i panorami della città immersa nel silenzio e le battaglie che vanno a turbarne la quiete funerea.

    E la capitale argentina, pur immersa nel sonno dell’eccidio nevoso, si scopre rianimata nella precisione dei luoghi, delle vie, dei landmarks della sua controparte reale: una geografia rielaborata e modificata dall’invasione, eletta a palcoscenico della morte e dell’avventura.

    L’Eternauta ha ricevuto una revisione nel 1969, venendo riscritto in chiave maggiormente politicizzata da Oesterheld e reso più violento dalle tavole del disegnatore Alberto Breccia.

    Ha poi avuto un sequeldal titolo fantasioso, L’Eternauta II, nel 1975, quando l’avvento del regime di Videla aveva assunto sembianze ben più concrete. E, nella collettività eroica protagonista di questo secondo capitolo, i tratti di opposizione al regime sono stati ulteriormente evidenziati: fino alla concretizzazione in un Juan Salvo concettualmente non troppo dissimile da un Ernesto Che Guevara.

    L’entusiasmo dei lettori per la continuazione dell’opera, qui come altrove, è stato inferiore a quello per il cult originale.

    Una terza parte, sorprendentemente intitolata L’Eternauta parte terza, risale al 1983. Ad accompagnarla, tristemente, un ulteriore abbassamento nella percezione del pubblico: nella convinzione che una grande e impegnata serie di fumetti, connessa visceralmente alle alterne vicende di un intero Paese, si sia spenta nella semplice narrazione di una buona storia fantascientifica.

    L’Eternauta, con tutta probabilità, nelle meccaniche di brand ha visto diluita la sua originaria autenticità, l’impegno sapientemente nascosto tra righe e vignette.

    Ciò che il suo primo volume ha rappresentato per un’Argentina in cerca di risposte e per un mondo del fumetto in cerca di capisaldi, tuttavia, non verrà mai meno.

    Buon viaggio, Juan. Nello spazio e nel tempo, fino alla tua meta.

    E se tu avessi una tomba, Héctor, ti porteremmo dei fiori.

    Dov'è Hoesterheld?

     


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  • Ghirlanda di Mattotti e Kramsky: grandiosi ghirigori

    Ghirlanda di Mattotti e Kramsky: grandiosi ghirigori

    Oltre i sospiri delle nubi, tra gli orizzonti del crepuscolo, si stende la terra di Ghirlanda.
    Le sue vaste piane e i morbidi pendii sembrano trattenere la luce, il clima è mite.
    Laggiù da tempo immemorabile vivono i Ghir, un popolo di esseri pacifici,
    che amano contemplare le magie del territorio con il loro stupore di bambini antichi.

    Partiamo da un presupposto: i «bambini antichi» in questione sono dei trichechi antropomorfi completamente nudi con delle setole di Grande Pennello Cinghiale™ a mo’ di barba[tooltip tip=”Sì, anche le donne”][1][/tooltip], degli arti sproporzionatamente piccoli rispetto al loro arrogante girovita e delle simpatiche codine affusolate.

    Già.

    Ora che ci siamo levati di torno la doverosa premessa: Ghirlanda è una graphic novel del 2017 scritta da Fabrizio “Jerry Kramsky” Ostani e disegnata da Lorenzo Mattotti, vincitrice del Premio Gran Guinigi[tooltip tip=”Super-premio ottenuto, naturalmente, dalla fusione tra il Premio Guido e il Premio Luigi”][2][/tooltip] all’ultima edizione del Lucca Comics & Games come Miglior Graphic Novel. Oltre 400 pagine, frutto di 10 anni di lavoro, lungo le quali i testi intrisi di poesia di Kramsky e i sapienti bianchi e neri di Mattotti delineano una grande vicenda, una storia dai risvolti mitici.

    È un mondo allo stato brado, quello di Ghirlanda, ricoperto da una flora surreale e abitato da una miriade di creature uniche. Ghir-landa, «terra dei Ghir»: è questo il significato del suo nome. E di un simile universo i boteriani bipedi costituiscono invero la componente “umana”. La loro è una società primitiva, contenta di una sussistenza di base e fedele alla ciclicità dei suoi riti, che mantiene uno stretto contatto con una natura densa di spiriti e guardiani.

    ghirlanda mattotti kramsky

    I ghir sono uomini puri e ingenui, assisi in un Eden che permane inviolato dal Peccato originario. La vita non li ha ancora messi alla prova, non ha ancora provveduto a flagellarli con catastrofi apocalittiche o tentarli con falsi idoli.

    Ancora.

    È un universo che sembra respirare in egual misura della fiaba e dell’allegoria, il loro, della spensierata leggerezza dei fumetti infantili[tooltip tip=”Ispirazione diretta di Ghirlanda, secondo i suoi autori, sono i teneri Moomin di Tove Janssons, la satira preistorica Alley Oop di Vincent Trout Hamlin e i surreali universi fantastici delineati da autori come Jean Moebius Giraud e Frédéric Fred Aristidès”][3][/tooltip] come dei più feroci miti di creazione e distruzione, delle metafore violente con cui l’uomo – pardon, il ghir – si approccia a ciò che non conosce, a ciò che ritiene sproporzionato rispetto a sé. Tra avventura di deliziosa naïveté, viaggio iniziatico gradualmente aperto alla conoscenza e attesa messianica di qualcuno in grado di cambiare lo stato vigente delle cose, Ghirlanda applica forme e figure frutto di secoli di narrazioni e archetipi umani a un mondo che umano non è: e men che meno antropomorfo.

    Divinità protettrici di una natura personificata, tentatori diabolici della volontà dei singoli, psicopompi poco rispettosi delle anime dei defunti loro affidate, mostri apocalittici rilasciati contro il mondo per porvi fine: con queste e altre entità i ghir hanno a che fare, sono costretti a misurarvisi come con pilastri inamovibili della loro esistenza. È un reale che accetta i nostri topoi, ma che li trasforma e ne fa istanze ben più familiari agli autoctoni di quanto, ormai, non accada nella nostra società.

    Il lettore è uno straniero in terra d’altri, e deve accettare le bizzarre convenzioni e gli altrettanto bizzarri abitanti del paese che ospita la sua lettura come gli vengono presentati, correlati solo da saltuari sprazzi di introduzione diegetica: il maestoso Uccello del Fato, il loquace Muso Stropicciato e il burbero Monte Rauco sono parte integrante dell’universo narrativo. Creature, peraltro, strane abbastanza da poter essere confuse con le entità oniriche prodotte dalle visioni intrise d’aromi che conducono gli sciamani ghir ancora più in là, in luoghi ancora più bizzarri di quello che abitano.

    Ghirlanda Mattotti

    Realtà e fantasia si mescolano senza soluzione di continuità, in Ghirlanda, rendendo quanto mai labile il confine che le separa e dando vita a un mondo dove l’allegoria convive con la quotidianità in inscindibile simbiosi, in reciproca attribuzione di significato.

    E il sincretismo delle cognizioni e delle influenze di Kramsky si estende anche alla matita di Mattotti, spingendola verso uno stile ibrido di suggestioni differenti: ora semplice e sobrio, teso a una stilizzazione quasi infantile, ora affollato a dismisura di linee vorticose e opprimenti. Certi pannelli vantano la densa corposità delle stampe giapponesi che già ispirarono Van Gogh e l’800 europeo; altrove parentesi spensierate sono affidate a un’immediatezza da striscia umoristica. Le grandi scene di massa, poi, sono dominio di fantasmi, affollate di spettri partoriti dalle più recondite zone dell’anima in un’esplosione di linee e forme che non può lasciare indifferenti.

    È una grande mano, quella di Mattotti, che coi suoi sapienti ghirigori delinea un mondo di fantasia in tutta la sua travolgente realtà.

    Ed è un tuffo nell’infanzia, Ghirlanda, sempre memore del trampolino della maturità da cui spicca il salto.

    Non lasciatevelo scappare.

    Non vi deluderà.

     


    Questo articolo è stato inserito nel catalogo del COMICON​, il Salone Internazionale del Fumetto di Napoli, del 2018, che ringraziamo di cuore.

    Vorrei inoltre ringraziare Gabriele, Salvatore, Erica, Nicholas e Matteo per avermi fornito l’oggetto della recensione di oggi.
    Grazie, ragazzi.
    Avete diritto a foto randomiche di roditori o altri animaletti dalla graziosa facie (da consegnarsi in privata chat).

  • Batman: The Killing Joke. Le risa letali dei folli

    Batman: The Killing Joke. Le risa letali dei folli

    Io non sono un lettore di Batman.

    Sono, d’altra parte un appassionato frequentatore di Wiki online, e con tutta probabilità ho sviluppato una dipendenza nociva dal sito Tvtropes.org; con una predilezione tossica per le ricche sezioni che esso dedica ai personaggi di varie opere fittizie.

    Tutto quello che so sul Cavaliere Oscuro e sui mille volti che popolano il suo universo l’ho appreso sfogliando pagine su pagine di enciclopedie online, sempre e rigorosamente in inglese[tooltip tip=”Trilogia filmica di Nolan, videogiochi della serie Arkham e qualche reminiscenza infantile a parte”][1][/tooltip]: dalla banalissima Wikipedia fino alla Batman wiki[tooltip tip=” Mi sorprende l’assenza di una crasi di dubbio gusto sul modello di Batmobile, Batcaverna, 2 Batarang, Battaglia di San Martino e Solferino etc.”][2][/tooltip], dal database della DC Comics alla galleria di soli cattivi della Villains Wiki, quello dei cataloghi è un mondo che mi ha sempre affascinato. È un mondo dove a farla da padrone non c’è solo l’Uomo Pipistrello: ogni personaggio, ogni spalla, ogni nemico ha la sua pagina, il suo personale spazio di fama (o, nella stragrande maggioranza dei casi, di notorietà). Un luogo che gli appartiene totalmente, dove sono snocciolati le vite, le morti e i miracoli di cui, nel corso degli anni, è stato protagonista.

    Penso poche cose possano favorire l’immersione in un universo fittizio come uno scandaglio metodico, approfondito e quanto più possibile oggettivo di ogni singolo abitante dello stesso: del suo aspetto, della sua personalità e delle sue abilità come del mare delle azioni fattegli compiere dalla penna di un autore o di un altro.

    Ed è proprio leggendo una di tali pagine, quella di TV Tropes in cui a parlare di sé in prima persona  è il Joker, psicotico principe dei cattivi di Batman, che sono incappato in qualcosa di interessante: The Killing Joke, da molti considerata la «migliore storia del Joker mai scritta»; oltre che detentrice di una dignitosa medaglia di bronzo sul podio delle «migliori storie di Batman in assoluto».

    Una storia del Joker. Una storia che, come una diligente pagina Wiki, sposta il suo focus dal protagonista all’antagonista.

    Una storia del Joker che, per la stessa ammissione dell’attore, è stata la principale ispirazione dell’ultima, grandiosa, letale interpretazione di Heath Ledger.

    Batman
    Il Joker di Heath Ledger (e con lui il suo abito decisamente non da poco) approva quest’articolo. Si asterrà pertanto dallo sparare all’autore, dallo sguinzagliargli contro dei cani, dal dargli fuoco e dall’inquisire sul motivo della sua apparente mancanza di ilarità. … Vero?

    Una storia del Joker che, per la stessa ammissione dell’attore, è stata la principale ispirazione dell’ultima, grandiosa, letale interpretazione di Heath Ledger, sceneggiata da Alan Moore[tooltip tip=”Per chi non lo conoscesse (e avesse quindi avuto la fortuna di non leggere i miei articoli 3 precedenti), Alan Moore è la mente meravigliosamente distorta dietro a V per Vendetta e Watchmen. I fumetti, non i film. Che poi, Watchmen è bello anche come film. V per Vendetta, no”][3][/tooltip].

    Avevo ufficialmente abboccato.

    The Killing Joke it is.

    L’opera nasce nel 1988 dalla collaborazione tra Moore e un disegnatore, come sempre chiamato a mettere su carta le invenzioni dell’inimitabile sceneggiatore: a impugnare la matita, a questo giro, è Brian Bolland; altra personalità di spicco dell’universo editoriale DC. La creatura dei due non impiega molto ad assumere le sembianze di una pietra miliare: nel 1989 The Killing Joke vince un Eisner Award nella categoria Miglior album grafico; aggiungendo l’ennesimo trofeo alla bacheca della star del fumetto dalla barba importante[tooltip tip=”Credo che Alan Moore rappresenti per il mondo dei fumetti quello che Daniel Day-Lewis 4 rappresenta per quello del cinema. Le somiglianze sono stupefacenti: britannici, estremamente talentuosi, perfezionisti, reclusivi, pluripremiati, fuori come dei balconi.”][4][/tooltip].

    L’albo, inizialmente, fu pubblicato coi colori vivaci di John Higgins, poco rispondenti all’idea originale del disegnatore. Nel 2008, in occasione del ventesimo anniversario, The Killing Joke è stato ristampato in una prestigiosa edizione rivista da Bolland, intervenuto sulle tavole e sulla palette cromatica che le anima.

    Niente più sfumature intense, sotto di lui.

    Niente colori vivaci.

    La discesa nella follia è un anestetico amaro.

    Il Joker dà prova del suo spropositato charme relazionandosi con alcune leggiadre esponenti del gentil sesso. Da sinistra verso destra: una Barbara Gordon/Batgirl terribilmente malandata mentre riceve consigli di cosmesi da un burlone assai stiloso; una pressoché impassibile Rachel Dawes (Maggie Gyllenhaal, sorella di Jake; inspiegabilmente subentrata a Katie Holmes dopo il primo dei film di Nolan) alle prese con lo humor tagliente del clown del crimine (Heath Ledger); una spaesata Baby Jane Towser (Diana Ivarson) lasciata senza parole dall’incommensurabile eloquenza del folgorante pagliaccio anni ’60 (Cesar Romero).

    The Killing Joke presenta, di facciata, l’impianto canonico di una storia del Joker. Ad animare la vicenda e a costituirne l’ossatura c’è l’ennesimo “piano diabolico” del giullare del crimine, contorto e oscuro disegno partorito dalla sua mente distorta, che l’Uomo Pipistrello si troverà a dover sventare.

    L’atmosfera di base è quella di fine anni ’90: Batman in calzamaglia blu-grigia in perfetto stile Adam West, sufficientemente affabile, fedele al suo concetto di giustizia amabilmente naïf e abituato a pestare gli avversari come ai vecchi tempi, in perfetta coreografia da fumetto. Ad affiancarlo, effettivo e atteso protagonista della storia, un Joker all’apice della sua rappresentazione burlesca: in tenuta classica, alla Jack Nicholson, con tanto di cappello, fiocco e bastone da passeggio. Un mingherlino dal mento importante e dal make-up ignorante, solare e a tratti addirittura canterino; abbondante sia nelle parole che nei gadget eccessivi e circensi che hanno caratterizzato le sue prime apparizioni.

    Le premesse sono quanto di più distante si possa immaginare dalle moderne raffigurazioni del personaggio, dal criminale psicotico e drammaticamente irrecuperabile.

    Non preoccupatevi: con Moore è sempre così.

    The Killing Joke non impiega molto a mostrare il suo vero volto: quello di elogio della follia, di inno alla deviazione mentale. Una pazzia ricercata come fuga dal reale, come tonico a ricordi insopportabili. La tragicità della vita è annientata, a occhi allucinati, da una pennellata di psicosi delirante; da uno stato di alienità totale abbracciato come l’unica soluzione possibile a un’esistenza che tendiamo imperterriti a considerare razionale e sostanzialmente positiva.

    Il criminale psicotico si fa profeta della follia, visionario portatore di uno stato di grazia che, non è chiaro se per sadismo diabolico o per altruismo messianico, si sente in diritto/dovere di estendere al mondo.

    Una follia percepita come rifugio, come rimedio, come unico stato sensato delle cose contro una convenzionalità artefatta, forzata, buonista, insensibile alla vera natura del mondo.

    The killing joke

    Ecco gli effetti di una bella dose di realtà…
    Io quella roba non la tocco neanche.
    Mi rovina le allucinazioni.

    Ma The Killing Joke è anche la storia del Joker, delle origini del Joker[tooltip tip=”Quelle che, azzardate in un albo precedente, sono diventate pressoché canoniche proprio a 5 partire da questa storia”][5][/tooltip]: di quella fulminea serie di sfortunati eventi che, susseguendosi in un’istantanea, drammatica e apparentemente casuale ineluttabilità, ha strappato al mondo un uomo normale per farne qualcosa di assolutamente altro.

    Questa, nelle parole del demone dal capello verde, è l’unica differenza tra lui e noi: una brutta giornata. Basta un momento di disperazione, di vera disperazione, per infrangere lo specchio, per scorgere ciò che sta al di là.

    La traumatica sostanza delle cose: impossibile ricoprirla con lo scudo della convenzione, dei buoni valori, della normalità.

    L’unica soluzione è la follia, in tutta la sua portata anestetica e allucinogena.

    Una droga a cui assuefarsi nel tentativo di dimenticare il mondo.

    Di arrivare a riderne.

    Basta una brutta giornata per ridurre alla follia l’uomo più assennato del pianeta.
    Ecco tutta la distanza che passa tra me e il mondo.
    Una brutta giornata.

    Il volume getta anche (o perlomeno, approfondisce magistralmente) le basi dell’identificazione tra il Cavaliere Oscuro e il Joker. La distanza tra i due, sogghigna Moore, è irrisoria; la linea che li divide un’illusione. Lo stesso Batman sembra riconoscerlo, a inizio numero: tra lui e il suo arci-nemico c’è un rapporto unico; una relazione distruttiva per loro come per gli altri, destinata a finire in tragedia con la morte del “buono” o del “cattivo”. Un legame tra due identità apparentemente lontane quanto incommensurabilmente vicine.

    Joker Alan MooreDue psichi infrante dal dolore, piegate dalla sofferenza, allontanatesi dal mondo e dalle sue orribili sembianze tramite una trasfigurazione delle loro: l’uomo in calzamaglia, celato dietro la sicurezza di una maschera scolpita, che risparmia la vita dei malvagi nel delirio auto-stimolato di potersi mantenere sulla retta via in un universo di cui contempla giornalmente la putredine; il derelitto dal volto cinereo che, presa visione della crudele insensatezza della vita, ha deciso di allontanarsene dedicandosi anima e corpo al divertissement più intenso e definitivo.

    E di estenderlo, per quanto possibile, a tutti gli altri.

    E una volta l’hai avuta pure tu. Ho ragione?
    Hai avuto una brutta giornata e sei impazzito come tutti… Solo che tu non lo ammetti!
    No, vuoi far finta che la vita abbia un senso, che questa battaglia abbia non so che significato.
    Dio, mi dai il vomito.

    Due facce della stessa moneta: forse proprio quella su cui si concentra l’ossessione dualistica di Harvey Dent/Due Facce, altro noto cattivo di Batman, non per nulla fugacemente apparso in una storia che non lo tange minimamente. Teste su entrambi i lati di freddo metallo: l’una intonsa, perfetta, pulita; l’altra mostruosa, resa quasi irriconoscibile dalle fiamme, ombra grottesca di ciò che era.

    L’idea del Joker?

    Non è affatto detto la faccia distorta sia la sua.

    L’edizione che ha funto da riferimento per la stesura del presente articolo è la già menzionata “ristampa di lusso” del 2008, quella coi colori (e le revisioni) di Bolland[tooltip tip=” A tal proposito gradirei aprire una parentesi: il costo dell’edizione italiana, col senno di poi, è di 6 11,95 €. Undici e novantacinque. Punto. Un’allegra visita al Cartoomics di Milano tenutosi lo scorso weekend al vostro ingenuo autore di articoli online l’ha fruttata per 20. A chiunque all’amena manifestazione si sia dilettato a gonfiare i prezzi originali mascherandoli con dei bollini dall’aria innocente per gabbare i gonzi del caso (tipo il vostro ingenuo autore di articoli online): mi spiace terribilmente essermi dimenticato il nome del vostro infame negozio. Spargere la fama della vostra figli di*******ggine sarebbe stato meraviglioso.”][6][/tooltip]. In coda a tale volume, va detto, c’è una perla, meravigliosa e disturbante quanto lo stesso Killing Joke: le poche, incisive pagine di Un uomo innocente, storia brevissima firmata unicamente da Bolland.

    Terrificante quanto la cinquantina di pagine che la precede.

    Perché mai?

    Perché le parole del Joker e del cosiddetto uomo innocente, astratte dal contesto, hanno senso.

    Joker
    Ricordate cosa avevo detto sulle premesse apparentemente innocenti e anni ’80 di The Killing Joke? Ecco. Arrivati a questo pannello, sentitevi liberi di dimenticarle. Saluti.
  • Cacciatori nelle tenebre: the Italian Sin City

    Cacciatori nelle tenebre: the Italian Sin City

    Canzone consigliata durante la lettura: …ok, è imbarazzante. Lo sapete, no, quella canzone, quella che in qualsiasi scena noir fa da sottofondo all’ispettore incappottato di turno che torna a casa in taxi (ha anche un cappello, eh, un bel cappello), sotto la pioggia, e si dà a un soliloquio mentale sulle sue recenti scoperte e sulla difficoltà del caso da risolvere… Dai, la sapete. Quella! La telecamera può spaziare sullo scenario urbano, sapete no, oppure entrare in uno spazio chiuso, magari un jazz club, fare una panoramica degli avventori (sono tutti eleganti, non c’è una donna brutta che sia una) e continuare con un primo piano su un sassofonista… Su, QUELLA canzone! Diamine, com’è che si chiama…

    Lo ammetto subito: il titolo dell’articolo odierno nasce in consonanza con tutta una serie di nomignoli affibbiati a varie opere di nicchia che, nel bene ma più spesso nel male, ricordano prodotti più noti. La mente dei più potrebbe correre a Italian Spiderman (2007), nome effettivo di una produzione australiana avente per protagonista il probabile frutto dell’unione adulterina tra un cosplayer in carne dell’omonimo supereroe americano e Super Mario. La mia predilezione, tuttavia, va al cosiddetto “Rambo Turco” (Korkusuz, 1986), bizzarro e grottesco take turco sul veterano di guerra interpretato da Sylvester Stallone. Per citare il nostro sempre immancabile Yotobi… “Tunf!” (date un’occhiata al minuto 10:46 del seguente video per un raffronto preciso e puntuale).

    Soggetto dell’associazione geografica qui proposta, arbitraria e forse abbastanza forzata (ma non totalmente… ci torneremo), è Cacciatori nelle tenebre, graphic novel del 2007 firmata dai fratelli Gianrico e Francesco Carofiglio. Al secondo, in linea di massima, spetta la splendida realizzazione grafica delle tavole, mentre il primo è il vero e proprio sceneggiatore della vicenda narrata, nata come copione cinematografico e strettamente connessa ad alcuni libri dello stesso Gianrico: quelli aventi per protagonista Guido Guerrieri, avvocato che, oltre a vantare un nome degno di far concorrenza al più infimo motivational speaker americano, costituisce un bastione fittizio contro la criminalità organizzata.

    È proprio dall’universo di Guerrieri che i Carofiglio traggono il protagonista di Cacciatori nelle tenebre: l’ispettore Carmelo Tancredi, leader di una fantomatica squadra fantasma della polizia barese dedita alla ricerca di persone scomparse e in particolare di minori. Tutore della legge appassionato di origami e haiku, Tancredi rientra nel novero dei protagonisti tormentati da fallimenti del passato, afflitto da un incubo-ricordo debilitante che, tuttavia, risulta essere movente della giornaliera e faticosa battaglia contro il male senza volto della sua città.

    Cacciatore nelle tenebre
    Il tenente Jim Gordon della polizia di Gotham L’ispettore Carmelo Tancredi, indispettito dai rapporti della polizia secondo i quali l’ammontare di tavole di Cacciatori nelle tenebre presenti in rete sarebbe assolutamente ridicolo. Le fattezze dell’ispettore, come quelle di buona parte degli altri personaggi, si ispirano a diversi volti del mondo cinematografico; primo tra essi Richard Dreyfuss.

    Sotto la guida dell’ispettore Tancredi, strappato ai romanzi di mafia solo per divenire protagonista di una vicenda ancora più cupa, militano tre poliziotti-falliti, reietti cacciati da rami più convenzionali delle forze dell’ordine e depositari di nomi che sono veri e propri riferimenti cult. Lotàr (pronuncia barese del Lothar di Mandrake)[tooltip tip=”Che, nella forma fonetica Mä’ndreik, è a sua volta pronuncia aberrante americana dell’a noi più congeniale Mandrache.”][1][/tooltip], oltre a essere il “grosso” del gruppo e con tutta probabilità il fratello segreto di Kingpin della Marvel, è un silenzioso genio del computer con un occhio per dettagli apparentemente insignificanti. Iena (come lo Jena Plissken, in originale Snake, interpretato da Kurt Russel in 1997: Fuga da New York), è lo sbirro di strada, volgare come un fenomeno di YouTube e riccioluto come Caparezza. Ultimo membro del poco canoro quartetto è Nora (il cui splendido nome deriva direttamente dalla Casa di bambola del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen)[tooltip tip=”Ecco, sono anche riuscito a citare Ibsen in un articolo. Cosa posso volere di più? Oltre a un castello, dei superpoteri e un criceto gigante, certo.”][2][/tooltip], la poliziotta statuaria immancabile in qualsiasi task force fittizia.

    Le tinte fosche della vicenda, sipario non totalmente spalancato su un universo criminale degradato e degradante, permettono solo risoluzioni parziali, mezze verità, percorsi d’indagine concreti e decisamente poco cinematografici; lontani dalle sbalorditive trovate d’uno Sherlock o d’un Poirot.

    La storia è ambientata entro i confini di una Bari nebulosa e decadente, città fittizia a metà tra il suo corrispettivo reale, esaminato nella componente criminale estremizzata e metropolitana più che nel caldo afflato meridionale, e un luogo di perdizione noir squisitamente americano.

    A commentare l’ambientazione e le vicissitudini dei quattro “cavalieri oscuri”, con una predilezione quasi maniacale per Tancredi, è un narratore onnisciente poetico quanto insistente, figura fantasmatica che si rivolge direttamente ai nostri sondandone pensieri, paure, rammarichi, sezionando le loro interiorità frammentarie e conferendo una dimensione universale ai soggetti (o alle vittime) della sua martellante pratica psicanalitica.

    Capibara
    Le immagini della graphic novel, come già fatto notare, sono quantomeno scarse sulla rete. Di conseguenza, eccone una totalmente irrelata. Ammirate il capibara (Hydrochoerus hydrochaeris), il roditore più grande del mondo; secondo autorevoli studiosi creato in laboratorio unendo una lontra, un maiale e la dottrina greca dello Stoicismo. AMMIRATELO.

    Una nota particolare va fatta riguardo al disegno: unico, abbozzato, più adatto forse al mondo dell’illustrazione che a quello dei fumetti, e ciò nonostante perfettamente calzante al contesto. I personaggi e gli spazi entro i quali essi si muovono sono definiti da Francesco Carofiglio tramite linee di matita spezzate che conferiscono all’intera opera un’aria di non-finito, di creazione in divenire: un unico, mastodontico sketch privo di certezze, come privo di certezze è l’universo dei protagonisti.

    Scoperte tutte le carte sul tavolo, converrà tornare al titolo e al dilemma da esso sollevato. Cosa accomuna la folgorante, epica e trascendentale brutalità milleriana[tooltip tip=”Aggettivo coniato qui e ora, e in quanto tale dichiarato immediatamente proprietà dello stato indipendente di… Ehm… Davidonia. Cosa? Certo che esiste, non l’ho inventato di sana pianta. Eccome, esiste eccome. ESISTE, e voi siete solo degli scettici!”][3][/tooltip]di Sin City alla fredda, realistica e disillusa pacatezza di Cacciatori nelle tenebre?

    Secondo il mio modesto parere, fil rouge di entrambe le opere sarebbe la concezione di metropoli moderna come spazio mitizzato e mitizzante, sede di innumerevoli minacce fantasma[tooltip tip=”L’uso del lessico e il relativo riferimento non sono casuali. Suono di spada laser che si attiva.”][4][/tooltip] celate nelle tenebre di ciascuna tavola, in quegli imperscrutabili abissi di china che fanno da contraltare alle più nette linee della vicenda e dei suoi interpreti. Il male che affligge la Bari dei Cacciatori, come quello di Sin City, pare qualcosa di astratto, inafferrabile eppure sempre a portata di mano. L’ombra indistinta che si disegna nell’arcata d’un cancello, immobile come un predatore nella tana… finché l’opportunità di ghermire qualcuno e strapparlo al mondo della luce non si fa viva. Ed è in quei momenti che la tensione verso un ignoto sempre presente si incarna nella verità traumatica dell’omicidio, dell’atto di pedofilia o di qualcosa di ancora peggiore con cui i protagonisti di Cacciatori nelle tenebre si trovano ad avere a che fare, improbabili ma indefesse sentinelle contro drammi che, descritti per metafore o affrontati di petto, sono propri anche della realtà stessa.

    Una sola lamentela, signori Carofiglio: poco o nullo flavour locale. Leggere un unico, solitario «ispetto’ Tancredi» in un noir ambientato a Bari è come ricevere un pugno nello stomaco dal “Polacco”.

    Ah no, pardon. “Lituano”.

  • Le bizzarre avventure di Jojo: l’emblema di una rubrica

    Le bizzarre avventure di Jojo: l’emblema di una rubrica

    Canzone consigliata durante la lettura: Any Way You Want It, by Journey.

    Ebbene sì, dopo una lunga e difficile sperimentazione ho implementato la rivoluzionaria funzione Ascolta una canzone che l’autore ritiene calzante alla lettura dell’articolo mentre leggi l’articolo™!

    Servirvi di questa nuova, entusiasmante feature è semplicissimo: Non dovete far altro che cercarvi la canzone sovra citata su YouTube, su Spotify, su CD-Rom o su qualsiasi altro supporto di vostra scelta, e farla partire in contemporanea all’inizio della lettura! Non siete entusiasti?[tooltip tip=”NB: l’autore declina ogni responsabilità relativa all’irreperibilità della traccia, al termine della stessa prima della lettura o alla durata eccessiva oltre il finale dell’articolo. Il connubio tra lettura e ascolto può provocare sonnolenza, fame, sete o tendenza all’autolesionismo. In presenza di sintomi preoccupanti rivolgersi al proprio medico di fiducia.”][1][/tooltip]

    Dall’alba dei tempi a questa parte, ciascun raggruppamento più o meno organizzato di uomini ha tentato di sintetizzare il proprio credo in qualcosa di semplice, di immediatamente riconoscibile. Ideali di intensità incomparabile e strutture concettuali infinitamente complesse sono stati concentrati in effigi, riassunti in frasi topiche o raffigurati in immagini stilizzate. Una serie di “percorsi abbreviati” la cui minore complessità rende immediatamente riconoscibile la materia trattata, di volta in volta suscitando rispetto o incutendo terrore nel cuore degli osservatori.

    La storia è piena di emblemi, di simboli, di stemmi; un apparato elevato sui campi di battaglia come sopra le tavolate signorili, nelle parate in pompa magna come sulle recinzioni dei campi di prigionia. La swastika nazista suscita a un tempo sdegno per la strage e rammarico per la perdita di simboli orientali simili ma ben più antichi, ormai impossibili da usare per l’onta loro inflitta. Presso un luogo contrassegnato da una croce rossa su sfondo bianco sappiamo di poter trovare rimedi ai nostri mali; uno schema di colore invertito ci invita con allettanti offerte di cioccolata e benzina a prezzo ridotto.[tooltip tip=” Di recente un po’ meno, ma vabbè.”][2][/tooltip]

    Vedete, George R. R. Martin di Game of Thrones conosce perfettamente l'importanza degli emblemi. Se solo la smettesse di ammazzare i personaggi come fossero mosche...
    Vedete, George R. R. Martin di Game of Thrones conosce perfettamente l’importanza degli emblemi.
    Se solo la smettesse di ammazzare i personaggi come fossero mosche…

    A lungo[tooltip tip=”That is, all’incirca una settimana. Massimo una e mezza.”][3][/tooltip] mi sono interrogato su quale potesse essere l’emblema di Balloons, di una rubrica su fumetti, cultura pop & co caratterizzata dalla più totale mancanza di senso compiuto e dai massimi svarioni che sia concesso raggiungere all’uomo senza l’uso di sostanze psicotrope. Ho sempre pensato l’onore spettasse a One Piece, l’interminabile epopea piratesca firmata Eichiro Oda di cui sono un appassionato fan ormai da anni. Gli ultimi tempi, tuttavia, hanno portato alla mia attenzione un altro lavoro; un’altra produzione d’alto livello che, a mio parere, sposa ancora meglio la causa della rubrica, ed è quindi adatta a rappresentarla in toto.

    Permettete che vi presenti l’opera che, da ora fino a quando avrò voglia o cambierò idea,[tooltip tip=”Nel caso ve lo stiate chiedendo: sì, posso farlo. Il mio contratto include una clausola grossa così al riguardo.”][4][/tooltip] rappresenterà la massima sintesi e al contempo la massima espressione dei concetti di Balloons: Le bizzarre avventure di Jojo, di Hirohiko Araki. La storia editoriale de Le bizzarre avventure di Jojo comincia nel 1987, esattamente 10 anni prima di One Piece, per continuare tutt’oggi. La formula dell’autore, almeno relativamente alle produzioni nipponiche, è quantomeno rivoluzionaria: piuttosto che concentrarsi sull’infinito percorso di formazione di un singolo protagonista, l’opera di Araki narra di varie generazioni della famiglia Joestar, i cui nerboruti esponenti (tutti soprannominati JoJo unendo la prima sillaba di nome e cognome) divengono di volta in volta personaggi principali della serie.

    Non lasciate che il titolo, equiparabile per intensità tragica a quello dei Teletubbies o di Guru Guru, vi tragga in inganno: Jojo (a questo punto mi sembra un’abbreviazione lecita) è un manga violento, riconducibile per brutalità al genere dei seinen; per quanto la sistematicità dei combattimenti e le numerose trovate comiche rispecchino molto gli shōnen.[tooltip tip=”Riguardo al secondo punto conviene fare una doverosa nota: anche in Le bizzarre avventure di Jojo, come già era stato per Vagabond, abbiamo delle gag sulle feci. Non c’è nulla che io possa fare a riguardo.”][5][/tooltip] Una particolare nota di merito va al primo degli elementi appena citati: gli scontri e i duelli che contrappongono i personaggi principali agli antagonisti del momento rimangono sempre interessanti, dominati dall’astuzia e dalla creatività più che dalla semplice efficacia dei poteri sovrannaturali (abbondantissimi ma raramente banali) di ciascuno.

    Jotaro Kujo (Joestar per parte di madre, ma comunque “JoJo” grazie alla prima sillaba del nome e all’ultima del cognome), uno dei protagonisti più amati della serie. Eletto all’unanimità “Jojo più etero del manga”.

    Lo stratagemma delle generazioni e la relativa suddivisione dell’opera in  parti permette ad Araki di esplorare vari registri narrativi, spesso dominati dal tema del viaggio. Il cammino dei protagonisti, va detto, non è mai unicamente fine a sé stesso: alla congerie di combattimenti e, come da titolo, di “bizzarre avventure”, l’autore unisce tutta una serie di digressioni relative ai luoghi visitati, siano essi reali o fittizi (da buona parte dell’Oriente e dell’Africa esplorati nella Parte III fino all’immaginaria città di Morioh che funge da palcoscenico per la Parte IV); delinea una forma di etnografia semplicistica ma intrigante che fa convergere reale e fantasia, immergendo l’opera in una dimensione e in un’atmosfera uniche.[tooltip tip=”Ulteriore, doverosa nota: almeno per quanto riguarda la Parte III, gli interessi etnografici di Araki abbracciano spesso le varie tipologie di servizi igienici presenti nel mondo. Sto cominciando a pensare che per vari mangaka sia un chiodo fisso…”][6][/tooltip]

    Veniamo ora alla caratteristica precipua della serie, al tratto che ha fatto de Le bizzarre avventure di Jojo l’opera grafica più adatta a rappresentare tutta Balloons: il suo infinito, illimitato serbatoio di riferimenti pop. Quasi ogni singolo personaggio della serie deve il proprio nome a un cantante, a una band o a un brano, con una predilezione quasi morbosa per il rock ‘n roll. Il disegno, dettagliato e dinamicissimo, è influenzato dalla moda e dal fashion di ogni tempo, da pose plastiche volontariamente spinte al parossismo: sull’onda delle tendenze anni ’80 che hanno visto nascere la serie, uomini e ragazzi di qualsiasi età sfoggiano corporature impossibili da body builder,[tooltip tip=”Cosa che, assieme all’interesse per una tipologia di moda abbastanza estrema, rende buona parte dei personaggi abbastanza effeminati.”][7][/tooltip] mentre alle donne sono riservate figure abbastanza realistiche e umanamente proporzionate; contro la tendenza odierna che vuole le giovani protagoniste dotate di forme tali da attirare nella loro orbita gravitazionale femmine-satelliti meno prosperose.

    Credo che il caleidoscopio di riferimenti spontaneo, sregolato e random e la tensione ad abbracciare l’universale nella semplicità dei suoi elementi più umili e casuali rendano Le bizzarre avventure di Jojo il miglior specchio possibile per Balloons, rubrica senza testa e senza coda il cui girovagare sconnesso è determinato solo dalle turbe mentali del suo autore.

     


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  • Blame! di Tsutomu Nihei: l’imitazione non ha colpa

    Blame! di Tsutomu Nihei: l’imitazione non ha colpa

    Per il numero odierno e forse per diversi numeri futuri ho deciso di optare per qualcosa di nuovo. Questo qualcosa, come suggerito dal titolo, non è esattamente farina del mio sacco. L’idea, lo ammetto pubblicamente e senza vergogna, me l’ha data Karim Musa AKA Yotobi, youtuber che ho avuto modo di menzionare più e più volte negli articoli precedenti. Seguo Yotobi da molto tempo e lo ammiro da altrettanto. Ed è proprio alla sua ultima trovata, la serie dei video ▌▌PAUSA, che devo quella che sto per presentarvi.

    Con ▌▌PAUSA, Yotobi si serve di un format rilassante e divertente: niente di più che una chiacchierata sul primo episodio di un cartone animato, esaminato col duplice sguardo di bambino esaltato e di adulto disilluso. La serie che sto per inaugurare altro non è che una trasposizione totalmente cartacea di questo concetto: un esame del primo volume di vari manga giapponesi. L’unica sostanziale differenza consisterà nella selezione “a scatola chiusa”: se Yotobi si concentra sul prologo di serie che già gli sono note, gli articoli verteranno su fumetti esaminati ad hoc, senza previa conoscenza degli stessi.

    Allo youtuber, a dirla tutta, non devo solo la scelta del format, ma anche quella dell’argomento di questo primo numero: lasciate che vi presenti Blame! di Tsutomu Nihei; un’opera della cui esistenza ho appreso proprio in un video di Yotobi[tooltip tip=”Mi duole non poter citare con certezza il video incriminato per pura e semplice dimenticanza. Sono quasi sicuro si trattasse di un episodio della serie sul videogame Dark Souls II presentata dallo youtuber sul suo secondo canale. Nel caso abbiate giocato il gioco/non ve ne freghi niente/siate intolleranti al lattosio, vi consiglio la visione di questi brillanti video e dell’ancor più riuscita serie (a mio parere) sul primo Dark Souls.”][1][/tooltip]. Da pronunciarsi “Blam”[tooltip tip=”Mettendo da parte la pronuncia all’inglese (blame = colpa) senza la quale il gioco di parole del titolo perde tutto il suo senso. Brillante.”][2][/tooltip], questa manga consta di 10 tankōbon rilasciati tra 1998 e 2003.

    Una strepitosa panoramica di una delle architetture che costellano il mondo di Blame!.
    Una strepitosa panoramica di una delle architetture che costellano il mondo di Blame!.

    Come era stato per Asterios Polyp solo un mese fa, anche oggi ci occuperemo di un fumetto in cui l’architettura gioca un ruolo di primo piano. Il mondo di Blame! presenta forme architettoniche al contempo spoglie e monumentali, mastodontici “livelli” meccanici il cui slancio verticale fa sembrare ancora più piccoli i già riduttivi umanoidi che vi si aggirano[tooltip tip=”Conviene dire, a questo punto, che Nihei ha compiuto studi di architettura; qualcosa su cui già si era soffermato Yotobi nel sempre introvabile video.”][3][/tooltip].

    Umanoidi, sì, perché di veri e propri umani non esiste traccia: persino Killy, il solitario protagonista, è spinto da una personale, apparentemente impossibile ricerca di “umani” e “DNA puro”; questo nonostante lui sia perfettamente umano almeno nell’aspetto fisico. A dividere gli abitanti di Blame! da noi sembra essere la possibilità di connettersi direttamente a una fantomatica “Rete” tramite cavi; una caratteristica che rende il protagonista e gli altri personaggi simili a dei cyborg.

    O a chiavette USB umane.

    No.

    Cyborg suona meglio.

    Ad affiancare gli esseri appena descritti e a causare gran parte delle loro peripezie sono i “mostri” della situazione: androidi vari, talvolta antropomorfi, e diverse creature simili ad insetti; tutti quanti dotati di capacità distruttive terrificanti. Detto ciò, è sorprendente notare come le più grandi espressioni di distruzione siano opera del protagonista. È proprio Killy, infatti, a impugnare l’arma più palesemente overpowered della serie (o almeno del volume): una piccola, anonimissima pistola i cui proiettili, dopo aver perforato qualsiasi cosa sul loro cammino, causano esplosioni mastodontiche a qualunque distanza.

    Nel leggere questo primo volume ho constatato diverse somiglianze con Dorohedoro, soggetto di quel primissimo, ormai remoto articolo di Balloons. Mi sembra le due opere si affidino a una tecnica di straniamento assai simile; per quanto Blame! sia volutamente privo dell’irriverente umorismo che caratterizza il lavoro di Hayashida. Credo una prima, superficiale lettura dei capitoli iniziali di Blame! potrebbe persino portare alla sommaria definizione di “Dorohedoro con le pistole”. O perlomeno, così è stato per me.

    Un secondo, incredibile pannello. Non ha un che di... <em>Star Wars</em>?
    Un secondo, incredibile pannello. Non ha un che di… Star Wars?

    Ho deciso di riunire le mie constatazioni sul primo impatto con Blame! in un assai anti-climatico elenco puntato. Si tenga conto, d’altra parte, che l’articolo di oggi ha fini prevalentemente ludici, e non ha alcuna pretesa di indagine analitica.

    Cominciamo.

    Blame! – Constatazioni generali:

    1. Nel mondo di Blame!, prima si spara e poi si fanno le domande. Anzi, sparare e basta è meglio.
    2. Distinguere maschi e femmine è incredibilmente difficile, vista la somiglianza impressionante tra un sesso e l’altro. Il corteggiamento avviene a scatola chiusa e con un bel 50/50 di probabilità: è solo una volta che il/la partner decide di rimuovere la sua armatura che capisci se ti sia andata bene oppure no. Che dire, il rischio è la glassa della vita.
    3. L’espressione britannica “It’s raining cats and dogs” (“Piovono cani e gatti”) è l’equivalente del nostro “Piove a catinelle”. Il titolo di un film animato risalente a pochi anni fa, Piovono polpette, ne riassume in maniera rapida e incisiva la trama: in Piovono polpette, infatti, piovono polpette. Nell’universo di Blame!, dai “livelli” più alti possono saltuariamente piovere manciate di enormi bruchi mutanti senza che nessuno si dia alcun pensiero. Già.
    4. La posizione delle braccia è questione di stile. Potete muoverle a vostro piacimento, attaccarvele alla vita nel caso vi risultino scomode troppo in alto, e attorcigliarle insieme a mo’ di brezel per guadagnarvi le simpatie di ogni paffuto frequentatore di Oktoberfest.
    5. Ci sono degli scalatori di pareti a corpo libero che, con tutta probabilità, hanno ricevuto i loro elmi da Bazuso di Berserk. L’aspetto di quest’ultimo fa pensare che in cambio lui abbia ottenuto del cibo
    6. Cadute di decine se non centinaia di metri contro una superficie compatta lasciano totalmente incolume la vittima; anzi, è più probabile che a lamentarsi sia il terreno. Si teorizza che quest’effetto sia dovuto all’elmo à-la-Bazuso, ma non si ha modo di dirlo con certezza.
    7. Nel mondo di Blame!, la massa delle armi è inversamente proporzionale al loro potere distruttivo. Ciò può essere esemplificato con facilità grazie alla seguente equazione: Pistola di Killy: Cannone alto due volte lui = Arma nucleare: Sparabolle di sapone[tooltip tip=”Dal che si ricava che Pistola di Killy (Cannone*Arma)/Sparabolle. Sarò anche un letterato, ma la mia matematica è impressionante, vero?”][4][/tooltip] 
    8. I vari capitoli del manga (definiti “logs”, “diari di bordo”) non sono identificati soltanto da numeri interi come avviene nella gran parte dei casi: sono ammessi anche i decimali. E io che pensavo di aver visto tutto col binario 9 e 3/4.
    9. Nel momento in cui l’esplosione di una testa spara gli occhi del malcapitato nell’orbita di un altro pianeta, capisci che Berserk ha influenzato ben più dell’equipaggiamento da scalatore.

    Blame!

    Blame! – Constatazioni sul protagonista:

    1. “Killy” a giudicare dalle apparenze[tooltip tip=”Pur tenendo a mente la seconda constatazione generale.”][5][/tooltip] non va inteso come nome femminile[tooltip tip=”Si pensi a “Sally”, con Scrubs come migliore riferimento esemplificativo per chiunque l’abbia visto.”][6][/tooltip], bensì come sorta di nome aggettivato che indica le propensioni dello smilzo giovine all’omicidio truculento tramite arma da fuoco.
    2. Killy non ama la condivisione. Osservarlo con la bava alla bocca mentre divora avidamente un Kitkat potrebbe guadagnarvi un assai loquace pugno in faccia.
    3. Killy sa leggere. In quanto tale, potrebbe venire a conoscenza dei contenuti di questo articolo. Non è detto gli piacerebbero.
    4. D’altra parte, il nostro non ha idea di cosa sia la Terra. L’autore dell’articolo tirerebbe un sospiro di sollievo… se avesse la certezza che la pistola del protagonista non possa fargli esplodere la testa da un altro lato dell’universo o, perché no, persino da un universo parallelo.

    Ok, è tutto. Per oggi penso di aver fornito abbastanza cazz… riferimenti precisi e costruttivi al testo. Davide, passo e chiudo.