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Figura contraddittoria e controversa, Pier Paolo Pasolini non ha mai smesso di affascinare, scandalizzare, far discutere. Ne parliamo in questi articoli.

  • Tra Le ceneri di Gramsci e Il pianto della scavatrice

    Tra Le ceneri di Gramsci e Il pianto della scavatrice

    Solo l’amare, solo il conoscere
    conta, non l’aver amato,
    non l’aver conosciuto[tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice, vv-1-3, in Le ceneri di Gramsci, 1957″][1][/tooltip].

    Piovono bombe sull’Ucraina, a due anni dalla catastrofica invasione russa, il conflitto è a un punto morto e le incognite sul futuro danno ragione, a chi ha sempre propeso per soluzioni diplomatiche e pacifiste fin dal lontano febbraio 2022. Il Medio Oriente è una polveriera incandescente, c’è in atto un genocidio ai danni della popolazione palestinese, sotto i nostri occhi indifferenti e acquiescenti.

    Ecco perché è necessario chiamare in aiuto la Poesia, quella Alta, quella che insegna e guida nel buio, nell’inferno della vita, come ci insegna il grande Dante.

    È tempo di riprendere a leggere versi che insegnano, che scolorano la nostra coscienza plastificata. A oltre cent’anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, 5 marzo 1922, mi piace ricordarlo con i versi meravigliosi, per quanto scarni e disincantati dei due poemetti: Il pianto della scavatrice e Le ceneri di Gramsci, composti nei primi anni ’50 del secolo scorso, furono pubblicati nel 1957 in un libro, intitolato, appunto, Le Ceneri di Gramsci, che arrivò ex equo con Penna e Mondadori al Premio Viareggio di quell’anno.

    Non è di maggio questa impura aria
    che il buio giardino straniero
    fa ancora più buio, o l’abbaglia

    con cieche schiarite… questo cielo
    di bave sopra gli attici giallini
    che in semicerchi immensi fanno velo

    alle curve del Tevere, ai turchini
    monti del Lazio […][tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, I, vv. 1-8, 1957″][2][/tooltip]

    Inizia così il poema Le Ceneri di Gramsci, abbracciando con uno sguardo rapido e malinconico tutta la città di Roma che il poeta canterà, impietoso amante, che ama crudamente, perché, come dice nell’incipit de Il Pianto della Scavatrice, che ho posto in apertura, il suo amore è conoscenza, è un divenire in costante rinnovamento.

    Rileggere Pasolini oggi, mondato dai pregiudizi e pettegolezzi sulla sua omosessualità e pedofilia, è reinterpretare i suoi versi e farli propri nella costatazione della degenerazione di uno stile di vita imposto, che ha spazzato via usi e costumi migliori della nostra nazione, di cui ora vediamo la fine senza prefigurarci un futuro.

    Rileggere Pasolini, per trovare il conforto di un fratello che ha condiviso prima di noi questa cupa angoscia di essere stritolati da un sistema che non ha a cuore la crescita morale, culturale ed economica del popolo, ma solo il profitto, il consumo.

    Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
    era ancora vita, in quel maggio italiano
    che alla vita aggiungeva almeno ardore,

    quanto meno sventato e impuramente sano
    dei nostri padri- non padre, ma umile
    fratello [tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, I, vv.16-21, 1957″][3][/tooltip]

    Il poeta intesse con Gramsci un colloquio muto, ripercorrendo i momenti più importanti della vita dello statista/filosofo che non identifica con un padre ma con un fratello.

    Questi versi di straordinaria fattura, ricchi di figure retoriche e paradossalmente semplici, umili per gli umili del mondo con questa terzina dantesca che dal medioevo balza nel Novecento, per vestire i pensieri di questo poeta, che forse meglio di altri ha parlato della realtà che vedeva intorno a sé.

    Gramsci nella sua tomba scarna rappresenta l’Italia intera dei grandi ideali, della fede politica pagata a caro prezzo.

    Quel giovane pieno di entusiasmo e di coraggio che affronterà la furia fascista e che morirà in carcere, dimenticato dai suoi stessi compagni di lotta, perché scomodo pensatore, è in tutto il poema l’esempio, il punto di luce cui tende lo sguardo e il cuore, ma al tempo stesso si fa più stridente l’ossimoro del vivere quotidiano del poeta prima e di noi poi che leggiamo nei tempi a seguire.

    Noi che per ideale abbiamo il nulla e per quel nulla ci battiamo: quanto abbiamo da imparare dalla lezione di Gramsci? Quanto ci riconosciamo in quel Pasolini che all’inizio della quarta strofa tuona:

    Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
    con te e contro te; con te nel cuore,
    in luce, contro te nelle buie viscere, [tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, IV, vv. 1-3, 1957″][4][/tooltip]

    La contraddizione del poeta è diversa da quella nostra, nella quale viviamo, con la quale facciamo i conti, ogni volta che ci troviamo a costatare come generazionalmente siamo stati piegati e corrotti, da un pensiero consumista, nel quale siamo vittime e carnefici.

    Domenico Notarangelo, Pasolini a Matera, 1964
    Domenico Notarangelo, Pasolini a Matera, 1964

    Nell’era dell’analfabetismo di ritorno, dell’informazione compulsiva che non informa ma confonde, è fondamentale fermarsi a pensare, usando questi versi, scritti con lucidità, ma soprattutto privi di costruzioni fallaci e plastiche, tipiche dei nostri giorni.

    Al pari del poeta non possiamo che sentirci inadatti e inadeguati, ma tenendo per mano lui prima e Gramsci poi, come fratelli, ci possiamo incamminare sulla via della conoscenza, che è un modo diverso di vivere e di nutrire il nostro “cuore elegiaco”.

    Stupenda e misera città,
    che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci
    gli uomini imparano bambini,

    le piccole cose in cui la grandezza
    della vita in pace si scopre, [tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice, I, vv. 31-35, in Le ceneri di Gramsci,1957″][5][/tooltip]

    Il pianto della scavatrice è un poema d’amore; l’amore profondo di Pasolini per il popolo, per l’Italia, per la città di Roma, per la vita.

    La vita ha mille facce, mille contraddizioni, si ama morendo di disperazione, per quel male che la vita attanaglia.

    Roma si offre al poeta: beduina, caotica, crudele e misera eppure umana nella grandezza della povertà, che è semplicità di gesti, di parole, di vita. Semplicità che il poeta già vede corrotta dall’avanzare della modernità, che sa non essere crescita culturale ma solo evanescente sensazione di ricchezza, fatta di consumo e di egoismo spietato e mascherato, che muta la percezione di sé nel popolo, snaturandolo della sua parte migliore.

    attratto da una vita proletaria
    a te anteriore, è per me religione

    la sua allegria, non la millenaria
    sua lotta: la sua natura, non la sua
    coscienza; è la forza originaria

    dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
    a darle l’ebbrezza della nostalgia
    e una luce poetica; [tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, IV, vv. 8-15, 1957″][5][/tooltip]

    Pasolini

    Con umiltà il poeta confessa a Gramsci che il suo amore per il popolo non è in senso politico, di coscienza di classe ma per quell’intrinseca primitività, che si fa poesia nei suoi atti più semplici e impuri.

    Pier Paolo ama la Roma dei dimenticati, della miseria, della crudeltà degli ultimi, il cui spirito puro non ha patria, perché è nell’umiltà che l’umanità si esalta. È la Roma del dopoguerra, in cui è arrivato nel 1950, dopo essere fuggito da Casarsa, dove era stato coinvolto in uno scandalo, che lo vedrà cacciato dal partito comunista e bandito da tutte le scuole italiane, in quanto era già insegnante.

    Ama questa città, di cui si sentirà subito figlio, nonostante i primi siano anni durissimi di miseria e fatica per lui e sua madre. Anni in cui insegna a Ciampino in una scuola media, in cui stringe amicizie con letterati, artisti di ogni genere. Roma in quel periodo è una fucina di artisti di ogni genere dai poeti ai cineasti, facendo sbocciare il talento virtuoso e multiforme di Pier Paolo.

    Povero come un gatto del Colosseo,
    vivevo in una borgata tutta calce
    e polverone, lontano dalla città

    e dalla campagna, stretto ogni giorno
    in un autobus rantolante:
    e ogni andata, ogni ritorno

    era un calvario di sudore e ansie
    […]

    Ero al centro del mondo, in quel mondo
    di borgate tristi, beduine
    di gialle praterie sfregate

    da un vento sempre senza pace,
    [tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice, II, vv. 1-7; 33-36, in Le ceneri di Gramsci,1957″][6][/tooltip]

    Entra nel vivo della sua vita quotidiana Pier Paolo, quando parla della borgata in cui vive: Rebibbia, descrivendo il viaggio in autobus per raggiungere la scuola di Ciampino. È la vita di tutti che nel poeta diventa lirica, si veste di odori, suoni, colori, dove finanche il rantolio dell’autobus è poesia.

    Quell’identificare il centro del mondo con la miseria disadorna e triste delle borgate, dove un vento senza pace alza nuvole di polvere su quei volti scarni, incattiviti eppure profondamente dolci, strazianti, che saranno i volti dei suoi protagonisti e attori dei suoi film migliori.

    Mi chiederai tu, morto disadorno,
    d’abbandonare questa disperata
    passione di essere nel mondo?
    [tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice V, vv. 72-74, in Le ceneri di Gramsci, 1957″][7][/tooltip]

    La ricotta Pier Paolo Pasolini

    Alla fine della quinta strofa delle Ceneri, Pasolini pone, prima di salutare il maestro sardo, questa domanda, davanti a quella tomba austera, che ha come unica velleità, «Uno straccetto rosso, come quello / arrotolato al collo dei partigiani…», a testimoniare la feroce moralità di Gramsci, irraggiungibile per il poeta e ancor di più per noi, che di quella passione del mondo abbiamo fatto l’essenza di un’assente moralità e che nella frantumazione di qualunque ideologia spianiamo la strada alla ferocia delle dittature.

    A gridare è, straziata
    da mesi e anni di mattutini
    sudori – accompagnata

    dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
    la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco
    sterro sconvolto, o nel breve confine

    dell’orizzonte novecentesco,
    tutto il quartiere… È la città,
    sprofondata in un chiarore di festa,

    – è il mondo. Piange ciò che ha
    fine e ricomincia. [tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice VI, vv. 31-42, in Le ceneri di Gramsci, 1957″][8][/tooltip]

    Lo strazio della scavatrice è per il declino di un mondo antico che sarà spazzato via come le casupole della campagna romana, come i prati e gli orizzonti ormai segnati da linee grigie che poco spazio lasciano alla fantasia, al colore, alla vita.

    Gli oggetti e il sesso sono strumenti di comunicazione di sentimenti ed emozioni che il poeta adopera per renderci chiara la nostra corruzione, la nostra contraddizione di vivere.

    Purtroppo o forse sarà giusto così, la chiave di lettura dei versi pasoliniani, la sua lotta contro la corruzione morale e interiore, è la sua diversità sessuale e la sua passione per gli adolescenti. Tutti gli autori che hanno scritto pagine sublimi di critica di Pasolini, partono da questo assunto, per questo l’ho tralasciato e ho voluto parlare del mio silenzioso colloquio con questo autore amatissimo, che mi apre la mente, mi spiega il presente e il recente passato, che mi appartiene.

    Me ne vado, ti lascio nella sera
    che, benché triste, così dolce scende
    per noi viventi, […]

    …Ma io, con il cuore cosciente
    di chi soltanto nella storia ha vita,
    potrò mai più con pura passione operare,

    se so che la nostra storia è finita?[tooltip tip=”Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, VI, vv. 1-3; 73-76, 1957″][10][/tooltip]

    Vi lascio con questo interrogativo che il poeta si pone e ci pone, che suona ancora più inquietante in questo periodo, dove la storia ci sta presentando i conti di questi ultimi settant’anni di scelleratezze ecologiche, politiche e culturali.

     


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  • Vivere desiderando: Pasolini e la forma della città

    Vivere desiderando: Pasolini e la forma della città

    C’era una volta Pier Paolo Pasolini. E Pasolini era una gran scocciatura. Voleva essere tutto, fare tutto, dire e parlare e abbracciare ogni cosa. E fra le cose che voleva abbracciare c’era anche la forma della città. Per Pasolini, anche questa era una cosa di cui uno scrittore doveva assolutamente occuparsi: la città non è solo una questione ingegneristica, ma anche estetica.

    Certamente non è stato il primo. L’estetica delle città è sempre stata un’arma politica fortissima, e non è un caso che l’imperatore Augusto si vantasse di aver trovato alla sua nascita una Roma costruita di mattoni, e averla lasciata da anziano di marmo. Inoltre, è con Vitruvio che nasce quello che poi sarà il modello di città che si imporrà nella teoria architettonica, sopravvivendo addirittura fino ad oggi: l’idea, cioè, che alle forme del paesaggio naturale debbano sostituirsi quelle della geometria e della simmetria umana. Tutti noi abbiamo presente quel magnifico quadro che è La città ideale, o le prospettive dei pittori quattrocenteschi e cinquecenteschi: in tutti c’è un fortissimo afflato estetico. La città, infatti, doveva essere bella, oltre che funzionale. La razionalità, per gli umanisti, passava necessariamente per l’estetica: ciò che è bello è anche razionale, ciò che è razionale è anche bello.

    Pasolini, però, era una gran rottura. Voleva fare tutto, e lo faceva a sprazzi, ad accenni, in modo dispersivo e a volte insufficiente. Eppure in quelle poche parole che ha dedicato all’urbanistica si è spinto oltre rispetto a molti altri. Ha buttato un amo che non abbiamo né colto, né capito nella sua portata.

    Se infatti ben prima di Pasolini c’è stato un innegabile sviluppo della teoria architettonica, come è ovvio, è anche vero che il bello in architettura era stato affrontato sempre dal punto di vista vitruviano-umanistico: la natura doveva piegarsi a un’idea preconcetta, ideale e dunque utopica. Questo approccio estetico-razionale è stato dominante anche e soprattutto durante il ventennio fascista: è durante il fascismo che città come Milano vedono una completa riconfigurazione della propria pianta; così come si vedono sorgere intere città, come Sabaudia o Littoria.

    Questa prima fase di trasformazione ebbe due effetti: da un lato produsse degli sconvolgimenti estetici e dei veri e propri danni storici al patrimonio artistico e paesaggistico italiano: per esempio una città di modeste dimensioni e che oggi consideriamo di modesto pregio artistico come Pavia, poteva invece vantarsi di essere una delle città meglio conservate della Lombardia, e invece grandi porzioni del centro storico furono rase al suolo e ricostruite durante il Ventennio[tooltip tip=”Si potrebbe parlare anche della distruzione di uno dei duomi più antichi d’Italia, ma il fattaccio avvenne già a fine Ottocento”][1][/tooltip].

    D’altro canto, nonostante lo stile goffo e risibile, l’intervento architettonico fascista si è rapidamente integrato all’interno del panorama italiano. E qui arriva la riflessione di Pasolini, che può sembrarne un’apologetica, ma che in realtà vorrebbe essere una condanna di ciò che verrà dopo. Per Pasolini, infatti, Sabaudia sarebbe solo superficialmente architettura fascista, mentre la sua essenza deriva dalla realtà sottostante, da quel popolo che il fascismo ha governato tirannicamente, ma non è riuscito a scalfire.

    Ciò che invece si è verificato nel dopoguerra, invece, è più pervasivo e più inquietante. E, purtroppo, anche dannatamente poco studiato. È infatti solo negli ultimi vent’anni che ci siamo affrancati dalla narrazione dominante degli anni del boom economico come anni di grande felicità, grande fermento e grande gioia del popolo italiano che finalmente scopriva un’epoca di abbondanza. Ecco, se c’è un solo motivo per cui merita ricordare Pier Paolo Pasolini è che a questa grande narrazione ha cercato di mettere costantemente, per tutta la sua vita, il bastone tra le ruote.

    Probabilmente Pasolini sbagliava, nel suo discorso, a contrapporre così nettamente la «banda di criminali al potere» rappresentata dal fascismo, e il capitalismo del dopoguerra, ma un forte elemento di differenza c’è: all’ordine di matrice vitruviana, fortememente geometrico e razionalistico, si è sostituito uno sviluppo anarcoide della città, basato non più su un’unica visione politica centrale, ma sulla mediazione degli interessi dei grandi gruppi industriali, delle imprese edili e delle istituzioni, spesso senza nemmeno un piano regolatore.

    Con il boom economico, infatti, è prevalsa un’idea di territorio come puro spazio vuoto da riempire: non essendoci più una visione politica centralizzata, veniva meno qualsiasi riflessione sul territorio che non fosse l’utilità immediata. Questo ha significato un’urbanizzazione selvaggia e deregolamentata, con un consumo di suolo spaventoso, che continua ad aumentare. Per dare un’idea, dagli anni ’50 Roma aumenta di 500.000 abitanti ogni dieci anni, che equivale più o meno a una città come Viterbo all’anno. Nel complesso, in Italia, il consumo di suolo è quadruplicato negli ultimi cinquant’anni: ciò che non è riuscito alla dittatura, è stato possibile nell’Italia democratica.

    Complice l’influenza del funzionalismo e del modernismo, che hanno avuto un profondo impatto sull’architettura del Novecento, il tema della bellezza viene completamente messo da parte in favore dell’utilità pratica delle opere pubbliche: si chiedevano autostrade che potessero collegare velocemente il paese; si chiedevano nuovi ponti, grattacieli, nuove case, nuove industrie e fabbriche: la bellezza, e soprattutto la bellezza del paesaggio non erano considerati valori, né criteri minimamente interessanti per un’opera architettonica.

    Ne è un esempio il fatto che le riflessioni pasoliniane vengono spesso accusate di essere una riflessione snobistica, o nel migliore dei casi, un sogno romantico da flaneur: lo sguardo di Pasolini sul mondo sarebbe dunque uno sguardo esotico, inutilmente estetizzante, da borghese che si scandalizza di fronte a una sola casa che deturpa il paesaggio. Queste critiche possono avere qualcosa di vero, in sé, ma sono figlie proprio di un’epoca in cui non vi è spazio per l’occhio, e obliterano due questioni: innanzitutto che l’urbanizzazione è un dato di fatto, e porta con sé un innegabile costo ecologico, e, secondariamente, che il rapporto degli esseri umani con il mondo è anche un rapporto estetico, che lo si voglia o meno.

    Basta fare una gita fuori porta nella pianura padana per vedere quanto le architetture siano casuali, assurde, a volte repellenti: il tessuto urbano appare spesso del tutto irrazionale, “esploso”, con enormi parti di territorio del tutto inaccessibili a piedi, con una rete autostradale in continua espansione, fabbriche vuote, logistiche, centri commerciali che si alternano all’agricoltura intensiva. Se si sorvola il nord Italia in aereo, poi, è evidente la differenza con i paesaggi vicini come la Francia, la Svizzera o l’Austria: il paesaggio appare come un’unica e ininterrotta distesa di abitazioni.

    Pier Paolo Pasolini, la forma della città: veduta del nord Italia dall'alto

    Anche da una semplice analisi empirica come questa è evidente che il capitalismo ha inciso sul paesaggio come e più di una dittatura politica: come il fascismo mirava a modificare il paesaggio in modo permanente per poter “fascistizzare” la società e renderla più coesa, così fa la civiltà dei consumi, in modo addirittura più pervasivo in quanto si basa sui desideri della popolazione, che diventano poi simboli identitari: negli anni cinquanta e sessanta questi desideri erano la modernità, la velocità, la facilità di spostamento, così come la possibilità di avere una casa al mare o in montagna per la media borghesia, e ovviamente una grande quantità di prodotti e comodità: l’idea del benessere come accumulo di beni.

    Oggi i nostri desideri non sono più gli stessi, ma sono sostanzialmente equivalenti. Solo, si sono tinti di glamour: se una città come Milano riecheggiava di clangori, di formicolante produttività e di un’estetica da acciaieria che non lasciava spazio, né speranza, ai sogni, oggi Milano vive una contraddizione profondissima: nella sua pianificazione profonda, nella dislocazione dei servizi primari, vive la stessa identica ideologia degli anni sessanta: nessuno spazio per l’occhio. Nella pianificazione del centro, adibito a vetrina per le classi più agiate e per i turisti, invece l’estetica è tutto, ed è un’estetica non lontana, in fondo, da quella fascista: è l’estetica della rappresentanza, dell’ostentazione di un bello che viene dall’alto, e a cui la città si deve adeguare.

    Ecco che il pensiero vitruviano, uscito dalla porta, rientra dalla finestra, e si unisce a una visione espansiva e predatoria dello sviluppo urbanistico, producendo una tensione tra centro e periferia. È un fenomeno che vediamo in tutte le città d’Italia, ma possiamo citare, come esempio particolare, la milanesizzazione di Torino, che storicamente ha sempre avuto un rapporto inverso tra centro e periferia rispetto alle altre città: il centro era popolare, mentre erano le periferie a essere ricche. Oggi, a Torino, anche il centro viene reclamato per il turismo, per gli eventi, esattamente come avviene a Milano, e i vecchi quartieri, come San Salvario o Vanchiglia, vengono riconfigurati come quartieri di svago per chi soggiorna temporaneamente in città, con la conseguente espulsione di tutto ciò che viene considerato “degrado” (cioè, in fondo, i poveri): è il famoso fenomeno della gentrificazione.

    Il risultato dunque è un ibrido in cui a farne le spese è proprio il paesaggio, che ne esce irrimediabilmente violato: da un lato viene espropriato ai fini della produzione, della distribuzione o dell’espansione residenziale; dall’altro è truccato ad arte per apparire, luccicare. Da un lato la città come magazzino, dall’altro come parco divertimenti.

    Mayastar, Maria, 2012 (credits: Mayastar)
    Mayastar, Maria, 2012 (credits: Mayastar)

    E così, dobbiamo riconoscere che quello che sembrava un pregiudizio romantico, un discorso passatista e antimoderno, era invece un campanello d’allarme che è stato completamente ignorato. Non solo Pasolini è stato il primo a denunciare gli effetti dell’urbanizzazione selvaggia, ma è stato il primo a rendersi conto che un paesaggio non è formato solo da monumenti, cioè da costruzioni singole, antiche o moderne, particolarmente belle o particolarmente importanti, ma che il paesaggio è soprattutto relazione di elementi anonimi.

    Il paesaggio non è somma di parti, ma interconnessione di corpi: sono le strade anonime, le piccole chiese diroccate, le anonime pompe di benzina a determinarne l’essenza. L’essenza non è infatti un fattore individuale, qualcosa che “sta dentro” le cose, bensì qualcosa che si situa al di fuori di esse, nella relazione con altre cose. Può sembrare anche questa una considerazione in fondo romantica, ma, alla fine, se i centri cittadini si sono tinti di glamour, se una certa estetica è diventata dominante, questo è avvenuto perché l’estetica non è affatto qualcosa di superficiale e accessorio, bensì ha un ruolo determinante nella nostra vita.

    Ciò che Pasolini in tutta la sua esistenza, in tutta la sua opera, ha sempre dichiarato con forza è che gli esseri umani si muovono nello spazio desiderando. E questo desiderio oggi si esprime nelle sue forme più banali e scontate: nell’acquisto e nel possesso. Ma il desiderio, in origine, ha a che fare con un rapporto sensoriale ed erotico con ciò che ci circonda, un rapporto che viviamo inconsciamente, un rapporto che da bambini è evidentissimo e che poi impariamo per tutta la vita ad arginare, a controllare, a canalizzare, ma che rimane, e influisce sulle nostre scelte. Da bambini tutto è vivo: sono vivi i giocattoli, sono vivi i luoghi, sono vivi persino i pensieri: noi parliamo da bambini alle cose proprio perché le erotizziamo, le rendiamo partecipi del nostro desiderio; da adulti troviamo altri canali e altri modi per esprimere questa tensione erotica, ma la necessità è la medesima.

    City Life Milano
    Il contorsionismo edile dei palazzi di City Life, uno dei nuovi quartieri di Milano.

    Abbiamo un rapporto fisico con il mondo, ed è questo rapporto a farci chiamare “casa” il luogo dove abitiamo. L’inglese in questo è più preciso dell’italiano, distinguendo tra “house” e “home”: il primo termine indica la casa in senso fisico, materiale, che è ciò che ci si aspetta debba occuparsi l’architettura; il secondo invece indica il rapporto sentimentale che abbiamo con la casa, e sembra essere stato molto meno indagato, e ancor meno realizzato. Nonostante infatti vi siano alcuni  studi che tematizzano la questione, il rapporto con la propria città è qualcosa di poco indagato a livello scientifico. Ed è forse per quello che allora bisogna farlo da scrittori, con gli strumenti di chi racconta storie ed esprime emozioni.

    Diceva Michela Murgia che ogni geografia è una geografia sentimentale: è legata ai ricordi che abbiamo, alle persone che abbiamo incontrato, ma anche a ciò che vediamo. A come sono fatti i palazzi, i cartelli, a come sono fatte le strisce pedonali o i semafori. A seconda di come vengono disegnati, ci danno delle sensazioni diverse: una città tedesca non sarebbe la stessa senza le sue insegne in caratteri gotici, così come la metropolitana di New York non sarebbe la stessa senza i caratteri in Helvetica, o la metropolitana di Londra senza il suo Gill Sans. E stiamo parlando solo della segnaletica.

    Alla fine, una città è come una persona, con il suo modo di fare, i suoi tic, la sua maniera di toccarsi i capelli o di accarezzarsi una guancia; il modo con cui ti parla, o con cui ti guarda. Sono i dettagli che fanno l’attrazione per una persona, così come per una città. E quando questi dettagli cambiano, anche il nostro rapporto con le persone e con le cose cambia, si modifica, perdiamo quella magia. Ci accorgiamo che non amiamo più come prima, che quella persona è diventata come tante altre. E così sono le città e i paesaggi.

    È per questo che, alla fine, nonostante Pasolini fosse un gran rompiscatole, in fondo aveva ragione. Il rapporto con la città è un rapporto estetico, un rapporto con ciò che abbiamo di più profondo e viscerale, ed è per questo che tutto ciò che ha a che fare con il paesaggio è una responsabilità collettiva: perché fa parte del nostro intimo, è intimamente connesso ai nostri ricordi, a ciò che abbiamo vissuto e a ciò che abbiamo desiderato.

     


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  • Pasolini Matera: Notarangelo racconta

    Pasolini Matera: Notarangelo racconta

    Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, uno dei più grandi autori del Novecento, che più di ogni altro, da grande pedagogo qual era, ha denunciato in tutte le sue opere il becero sistema consumista/capitalista, che mostrava già tutte le contraddizioni, evidenti oggi in tutta la loro drammaticità.

    Sono stati ristampati in quest’occasione gran parte dei suoi testi e numerosi sono i saggi, scritti da autori vari, e i libri di ricordi di amici e conoscenti del grande maestro.

    Purtroppo nel mercato dell’editoria c’è un po’ di tutto, per questo ci tengo a segnalare ai lettori del nostro Blog la riedizione del libro di Domenico Notarangelo, Pasolini Matera, edizioni Giannatelli.

    Il libro uscì nel 2013 con la preziosa prefazione di Padre Virgilio Fantuzzi, grandissimo studioso di cinema, che fu amico di Pasolini e dell’autore di questo libro. Già malato, Notarangelo volle racchiudere in un libro la sua esperienza straordinaria e quel libro è arrivato sino a noi, sua inestimabile eredità.

    Notarangelo Pasolini Matera

    Domenico Notarangelo nasce a Sammichele di Bari nel 1930 e fino alla fine della guerra studia in seminario, da cui sarà allontanato per le sue simpatie verso l’ideale comunista. Nel 1950 si trasferisce a Matera, che diventerà la sua città d’adozione. A Matera trova le condizioni per dare corpo ai suoi molteplici interessi: politici, sociali, culturali. Fotografo e giornalista è stato, per moltissimi anni, corrispondente per il quotidiano l’Unità della Basilicata, contribuendo a divulgare cultura e bellezze di quella terra.

    Quando nel 1964 Pasolini arrivò a Matera per le riprese del Vangelo, Notarangelo fu inizialmente incaricato di proteggere il maestro, e dopo che i due si conobbero, il regista lo incaricò di trovare fra i materani i volti del popolo, quelli degli scribi e dei farisei per il film, e infine fu coinvolto a recitare nella parte del centurione romano.

    Durante tutto quel mese di luglio, Domenico, con una macchinetta fotografica nascosta, ha raccontato la nascita e lo sviluppo di una grande opera d’arte, inseguendo il particolare di uno sguardo, di una veste, di un paesaggio che il bianco e nero nella sua infinità di grigi esalta e rende poetico.

    La narrazione nel libro, che ricostruisce quei giorni, quei personaggi e i set del film, è fatta di episodi curiosi e di emozione collettiva che solo l’arte vera, che emana da un grande maestro, sa trasmettere.

    Domenico Notarangelo, Pasolini a Matera, 1964
    Domenico Notarangelo, Pasolini a Matera, 1964

    Notarangelo ha raccolto in vita migliaia di testimonianze sulla civiltà contadina della Basilicata che ha rappresentato nelle sue fotografie e nei suoi libri, divulgando nel resto d’Italia la conoscenza di una realtà ai più ignota e ora quasi del tutto scomparsa. I suoi figli Mario, Toni e Peppe, che hanno ereditato l’immenso archivio del padre e lo hanno mantenuto pubblico per il dovere della memoria e della cultura, quest’anno hanno fortemente voluto la riedizione di questo libro, Pasolini Matera.

    Ora però voglio presentarvi una delle prefatrici dell’edizione 2022 del libro, Marina Sonzini, che da anni si occupa di divulgare l’opera di Pasolini con iniziative culturali fuori dagli schemi e sempre molto interessanti.

    In omaggio al maestro, Marina ha realizzato una mostra, inaugurata a Roma proprio il 5 marzo 2022 nella Chiesa Rettoria di Sant’Andrea al Celio, nella quale erano presenti le fotografie di Notarangelo scattate durante le riprese del film, assieme alle opere di Danilo Mauro Malatesta, David Parenti e Francesco Tonarini. La mostra, dal titolo Silentium: oltre il Vangelo secondo Matteo,  è stata successivamente ospitata a Matera ed è ancora in giro per l’Italia, ma lascio la parola a Marina alla quale chiedo:

    Marina Sonzini
    Marina Sonzini

    Quando nasce la tua passione per l’opera di Pier Paolo Pasolini, che ti ha portato a promuovere iniziative culturali serie e fuori dai soliti canali di massa?

    Quando Pasolini fu ammazzato, io ero una ragazzina. Ricordo solo i telegiornali dell’epoca e i commenti (quasi sempre sprezzanti) nelle famiglie. Ho fatto studi classici, ma Pasolini non era un autore che si studiava a scuola. L’ho quindi conosciuto veramente quando sono venuta ad abitare a Roma. Qui ho imparato che ogni cosa parla di lui e lui ha parlato di ogni cosa. Ed entrando nel suo smisurato corpus di opere, ho capito quanto il suo pensiero fosse avanti sui tempi e quanto sia oggi più che mai necessario. Negli anni ho conosciuto decine di persone che a vario titolo fanno parte del suo mondo: amici (ma purtroppo anche i parassiti), scrittori, registi, artisti, musicisti, attori.

    Le strade dove ha vissuto, lavorato, osservato, scavato e infine dove è stato trucidato.

    Le mie iniziative culturali? Roma, non serve che lo dica io, è un eventificio legato a doppia mandata con la politica. Gli eventi ufficiali servono in buona parte a spartire gli enormi finanziamenti che finiscono sempre alle stesse persone, le quali producono sempre gli stessi messaggi.

    Io non ho mai preso un centesimo di contributi pubblici. I miei eventi sono sempre stati gratuiti e lo scopo per me sono la conoscenza, la cultura e l’arte, affinché possano arrivare a chiunque voglia accostarsene, possibilmente scevre da secondi fini, propagandistici o anche solo economici.

    Per il centenario, io ho voluto raccontare cosa resta di vivo di Pasolini. E l’ho fatto.

    Pasolini sul set di Matera, foto di Domenico Notarangelo
    Domenico Notarangelo, Pasolini sul set del Vangelo secondo Matteo, 1964

    Entriamo nel vivo del libro Pasolini Matera, bellissimo, scritto in italiano e in inglese, pronto pertanto per essere distribuito all’estero. Puoi raccontare come hai conosciuto i figli di Notarangelo e com’è nata l’idea della prefazione e forse anche della mostra?

    A Roma, il 5 marzo (centenario della nascita), non c’erano mostre ufficiali. Sono iniziate a metà aprile e quelle più grandi apriranno tra metà ottobre e metà novembre. Questo per me era inconcepibile. Quindi insieme al grande fotografo Danilo Mauro Malatesta, che già aveva le sue opere di soggetto sacro esposte nell’Oratorio di Santa Silvia a Sant’Andrea al Celio, abbiamo deciso di farla noi una mostra. E trovandoci in un luogo sacro, non poteva che essere una mostra che raccontava Pasolini partendo dal Vangelo secondo Matteo. Abbiamo raccolto le locandine originali, trovato la cinepresa Arriflex che Pasolini usò per girare il film, messo assieme le opere d’arte di David Parenti (che dipinge Pasolini da 30 anni), i disegni di Francesco Tonarini e una ricchissima bibliografia. Poi ho chiamato Matera.

    E Matera ha risposto, con generoso entusiasmo. Giuseppe Palumbo con il meraviglioso libro Pasolini 1964, e i figli di Domenico Notarangelo con le celeberrime foto scattate dal loro papà, ma spiegandomi che il libro che quelle foto raccoglieva, ultimo lascito di Mimì, era da tempo esaurito. Così ho chiamato le splendide sorelle Giannatelli, eroiche editrici materane, e lo abbiamo ristampato in tempo per la mostra, aggiungendovi una mia prefazione, che vuole umilmente tributare il mio ringraziamento alla memoria di Mimì Notarangelo e all’epoca (eravamo a febbraio), promettergli solennemente che avrei realizzato il suo sogno: riportare a Matera il Vangelo. L’ho fatto. La promessa l’ho mantenuta.

    Locandina Silentium Pasolini
    Fotografia della locandina della mostra Silentium: oltre il Vangelo secondo Matteo

    Ora parliamo della mostra, racconta ai lettori, Silentium: oltre il Vangelo secondo Matteo, questo splendido omaggio al grande Pasolini, questa figlia prestigiosa che è ancora in giro per l’Italia.

    La mostra è un modo per raccontare Pasolini partendo dal suo film più “anomalo”, quello rivoluzionario pur essendo totalmente aderente alle Scritture. Sono contraria a raccontare Pasolini sempre e solo col borghese voyerismo verso le sue inclinazioni sessuali e le immagini devastanti del suo cadavere. Per me Pasolini è quello che si interroga sulla società, sulla politica, sulla cultura, sulla Storia e sul senso del sacro. Ma anche sulla lingua della poesia, della letteratura e del cinema. E questo ho fatto. Il Cristo sociale di Pasolini sintetizza tutto questo. Mi ha permesso di raccontare ciò che di Pasolini è ancora tremendamente necessario. Ciò che non abbiamo capito. Tra le immagini del suo Gesù, che nella vita era uno studente che lottava contro la dittatura di Franco in Spagna, nella mostra ho appeso la foto di Enrico Mattei in Basilicata.

    Il disegno che apriva la mostra era incorniciato con uno “straccetto rosso”, quello che nelle Ceneri di Gramsci Pasolini ricorda al collo dei partigiani. L’opera più importante della mostra era una Pietà rovesciata, dove un Gesù risorto (come quello del film di Pasolini) prende tra le braccia sua madre (nel film come sapete è mamma Susanna a interpretare la Madonna ai piedi della croce) e con lei l’umanità. A Matera abbiamo esposto la Pietà di Odessa, la tela che dopo la mostra Silentium di Roma, Malatesta ha portato in Ucraina e assieme al Vescovo di Odessa ha steso dinnanzi alle barricate nel giorno di Pasqua; a Matera abbiamo ricostruito il percorso del Vangelo all’interno degli Ipogei Motta, uno spazio immenso e di una bellezza arcaica ed evocativa che si dipana sotto il centro storico della città; abbiamo ospitato grandissimi registi, scrittori, studiosi. Sono state 6 settimane intense e indimenticabili.

    Francesco Tonarini, Quien Sabe
    Francesco Tonarini, Quien Sabe (particolare)

    Poi una parte della mostra è andata ad Alba Adriatica, ospite del Comune e di Giancarlo Bucci che ha realizzato oltre 300 disegni dedicati a Pasolini, mentre gran parte delle opere di David Parenti, dopo una grande mostra ad Argenta (FE), sono ora esposte nel Museo Diocesano di Oristano.

    Prossima tappa l’1 e 2 Novembre all’Idroscalo di Ostia, dove alla Galleria Ess&rre al Porto Turistico esporremo i disegni di Francesco Tonarini e il 6 novembre a Torrimpietra (Fiumicino), dove Maria De Luca e il suo Spazio Artistico Traccedarte proporranno uno spettacolo con un vero gigante del teatro italiano e dove ancora una volta esporremo una parte delle opere della mostra.

    Da parte mia, posso solo ringraziare i miei compagni di viaggio, gli artisti, i figli di Mimì e soprattutto i segni che lungo la strada mi hanno dato la forza di continuare a sostenere questo sforzo ciclopico. Da sola, ma profondamente orgogliosa di averlo fatto per Pier Paolo, per non dimenticare.

     

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    In copertina: Domenico Notarangelo, Pier Paolo Pasolini ed Enrique Irazoqui sul set del Vangelo secondo Matteo, Matera, 1964.

  • La ricotta ai tempi del coronavirus

    La ricotta ai tempi del coronavirus

    «…C’è chi nasce co ‘na vocazione e chi co n’altra. Io sarò nato con la vocazione de morimme de fame» dice Stracci e Cristo risponde: «Sei un morto de fame e voti pe’ chi te fa morì de fame…»

    La Ricotta è un cortometraggio di Pier Paolo Pasolini, che fa parte del film a episodi Ro.Go.Pa.G., Ovvero, laviamoci il cervello, il cui titolo comprende le iniziali dei registi: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti, una chicca per gli amanti del gran cinema.

    L’idea di parlare di questa meraviglia del poeta/regista friulano, l’ho avuta mentre si discuteva con la redazione sull’immagine di copertina del sito. Il viso di Orson Welles mi ha riportato al personaggio che interpreta nel cortometraggio, che altro non è, che l’alter ego del regista stesso, che si scopre palesemente quando recita potenti versi tratti dal poema La Realtà, presente nel libro Poesia in forma di Rosa, che Pasolini aveva pubblicato proprio in quel periodo.


    Io sono una forza del Passato.
    Solo nella tradizione è il mio amore.
    Vengo dai ruderi, dalle chiese,
    dalle pale d’altare, dai borghi
    abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
    dove sono vissuti i fratelli.

    È alla faccia di Orson e alla sua voce maschia, autoritaria e autorevole che Pasolini consegna la sua denuncia per quella devastazione chiamata modernità, consumismo, rifiuto della storia, della memoria. La meschinità di una società falsa, che tace e nega scandalizzata davanti alla provocazione, senza peraltro capire o interrogarsi.

    La denuncia contro la borghesia benpensante e il giornalismo televisivo, teso a rubare la notizia sorprendente, a servirsi dei mediocri, come il giornalista, interpretato da Vittorio La Paglia, che nella gestualità del corpo e nella voce piatta e melliflua che incalza di domande idiote il regista, che lo guarda torvo, ridicolizzandolo, denudando la codardia, alla quale oggi siamo abituati, tanto da non farci caso. Il ridicolo, che oggigiorno si fa serio insegnamento di vita, ha invaso tutti gli ambienti della società, perché il veicolo rapido della televisione ha dato corpo a fantasie malsane, che hanno distrutto ogni genere di valore: politico, religioso e sociale.

    Mario Dondero, Elisa Dondero
    Mario Dondero, Elisa Dondero, Orson Welles sul set di La Ricotta

    Giornalista:“Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”
    Regista: “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”
    Giornalista: “Che cosa ne pensa della società italiana?”
    Regista: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”
    Giornalista: “Che cosa ne pensa della morte?”
    Regista: “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.”

    Che verità assoluta, pagata a caro prezzo, ancora valida a tutt’oggi e questo è quello che più mi duole.

    Ogni parola ha uno spessore infinito nel quale si esaltano i valori fondanti della poetica pasoliniana. In quell’intimo, profondo, arcaico cattolicesimo, si esprime l’amore e la disperazione per quel popolo analfabeta e il disprezzo per l’ignoranza della borghesia.

    Se pensiamo che questi concetti per noi consolidati, ma non meno negati, questo grande Maestro e vate dei nostri giorni, li ha sbattuti in faccia a un’Italia ottenebrata dal boom economico.

    Solo chi aveva orecchie per intendere, intese, come disse lo stesso poeta regista in un’intervista, citando il vangelo, cui spesso s’ispirava il suo messaggio, e in quel lontano 2 novembre del 1975, tutto gli fecero pagare; visto che il vilipendio, i processi e la lapidazione mediatica non erano riusciti a zittirlo.

    La Chiesa del tempo, ancora rigida nei suoi schemi di falso moralismo, condannò quel Cristo, uomo rozzo del popolo che esprime con la saggezza di un povero cristo del popolo, il motivo per cui i poveracci non riusciranno mai a riscattarsi, armando la mano del loro aguzzino.

    «Sei un morto de fame e voti pe’ chi te fa morì de fame…»

    Non succede ancora oggi, che teoricamente siamo tutti alfabetizzati, muniti di cellulari, super informati e digitalizzati?

    La critica alla corsa alla modernità di Pasolini non va intesa come contraria al progresso dell’umanità, alle scoperte scientifiche e tecnologiche, che avrebbe sottinteso una conoscenza e una coscienza storica in movimento, ma verso il consumismo, di cui oggi assistiamo, per “privilegio di anagrafe“, come avrebbe detto il Poeta, al suo declino, di cui ci spaventa l’ignoto destino, ci stiamo trasformando da società dei consumi, a società dei rifiuti.

    Paradossalmente il protagonista Stracci, così diverso dai nuovi morti di fame di oggi, eppure così simile, è simbolicamente tornato al centro del discorso proprio perché Rifiuto della società, improduttivo e perciò scarto, come del resto lo sono gli anziani delle RSA, morti a centinaia durante la prima ondata di questo virus.

    Una società che ha corso affamata e febbricitante verso il soddisfacimento del desiderio di possesso, al pari del nostro Stracci e della sua fame, soddisfatta fino a scoppiare di cibo o meglio di avanzi, muore lentamente, affogata dalla sua stessa ingordigia.

    Ingordigia che ha messo ai posti di comando, soprattutto in Italia, non i più meritevoli e capaci ma i più rapaci e incapaci, piegati a un potere economico occulto che ha divorato la parte migliore del nostro Bel Paese.

    La ricotta Pier Paolo Pasolini

    Oggi osserviamo avviliti, arrabbiati e con scarse speranze a questo sgretolarsi di un sistema perverso e malato, senza peraltro avere soluzioni, così come il personaggio di Stracci, ideato da Pasolini, per sublimare l’umiltà e l’umanità del sottoproletariato, di cui diventa un Messia, che muore senza resurrezione. Non lasciando quindi un messaggio di speranza, una dottrina nuova, solo un’immagine che nel tempo sbiadisce tra il bianco e il nero.

    La storia e la memoria che si tentano di negare, di dimenticare, per correre su motociclette fumose, assordati da una musica, che nella sua spensieratezza rispecchia la tragedia di una società amorale e priva di valori.

    Pasolini è attento a ogni particolare. Le inquadrature devono comporre un poema e tutto è simbolico e si arricchisce nel tempo di nuovi significati, senza peraltro stravolgere il significante originale.

    La questione ambientale nei primi anni Sessanta del secolo scorso era un problema che si ponevano in pochi, eppure il nostro autore, maestro profetico, la percepisce e la denuncia con le immagini di ambientazione del film, che ha per tema la vita e la passione di Cristo.

    Le scene sono girate nella periferia Sud di Roma, aggredita dall’avanzata del cemento, che nel cortometraggio è rappresentato dalla fila di palazzi bianchi dell’Ina Case, che si vedono all’orizzonte, su un prato dall’erba scolorita, dove solo i rifiuti sono una nota di colore e non i fiori.

    Orson Welles La ricotta

    Oggi quei prati non esistono più, così come il sottoproletariato che ha amato il nostro autore, perché è avvenuta la mutazione antropologica, operata dalla televisione prima e dai social poi, che ha stravolto e creato falsi miti e false aspettative, che hanno imbrattato di sterco i valori e l’umiltà, che hanno fatto grande l’umanità.

    Quel sottoproletario non esiste più, al suo posto un precario, un disoccupato, un extracomunitario, una piccola partita Iva.

    Cambiano i costumi, a volte cambia il colore della pelle, ma di certo gli Stracci e gli Accattoni, privi di purezza e d’umiltà, si sono centuplicati, peggio del virus.

    Questa pandemia ha chiuso tutto il nostro immaginario borghese fatto di aperitivi, ristoranti, vacanze, da cui dipende la sussistenza economica di migliaia di persone e dell’intero sistema economico nazionale.

    Osserviamo le reazioni da quando si è diffuso il panico da “contagio“. Durante il lockdown, ma anche in seguito, tutti si sono sbracciati in riflessioni di ogni genere, da quelle filosofiche a quelle religiose. Questo virus invisibile, che ha avuto la forza di fermare il campionato di calcio e tutte le manifestazioni sportive e artistiche, che ha chiuso negozi, scuole, fabbriche è risultato più potente di qualsiasi altra minaccia ecologica paventata finora. L’invincibile uomo occidentale, il Rambo armato fino ai denti, al virus fa ridere a crepapelle.

    L’alimentazione vuota del cibo spazzatura, ingozzato nelle mense aziendali sempre di corsa, per tornare a produrre, ha prodotto corpi malati, sorretti dal silicone, con denti di titanio. Corpi flaccidi come quello di Stracci su croci d’insaziabile consumismo, accatastati alla meglio e usati a scopi elettorali in ogni paese del mondo, che devono morire per farsi notare, come dice alla fine del film Orson Welles, il regista, costatata la morte di Stracci:

    «Morire … era l’unico modo per farci vedere che anche lui esiste».

     

    Leggi tutti i nostri articoli su Pier Paolo Pasolini


    Per approfondire:
    La Ricotta – dispensa del Prof. Michele Castiello, docente di cinematografia, per la Rassegna sul cinema di Pasolini a.s.2018/19
    Pier Paolo Pasolini, La ricotta – Sinossi e commenti, Centro studi Pasolini Casarsa

  • Ricordando Pasolini: conversazione con Patrizia Gradito

    Ricordando Pasolini: conversazione con Patrizia Gradito

    Un’anima in me, che non era solo mia,
    una piccola anima in quel mondo sconfinato,
    cresceva, nutrita dall’allegria
    di chi amava, anche se non riamato.
    (Pier Paolo Pasolini, Il pianto del salice, poema in Le ceneri di Gramsci)

    Il giorno 26 ottobre alle ore 17,00 a Ciampino, in Via Principessa Pignatelli n. 21, sarà affissa una targa permanente, per ricordare l’esperienza didattica di Pasolini che, negli anni 1951-1954, insegnò nella scuola parificata “Francesco Petrarca”, un villino a due piani con la vigna intorno, sostituito poi con un palazzo.

    Quei magnifici e difficili anni del nostro amato poeta, giunto da poco da Casarsa della Delizia, appena trentenne, saranno all’origine delle liriche e dei poemi presenti ne Le Ceneri di Gramsci, pubblicate nel 1957, conseguendo un eccezionale successo di pubblico in Italia e all’estero.

    Le strade calcinate e polverose, ora sono state asfaltate, ma Roma rimane una città eternamente ricca di “borgate tristi, beduine, // di gialle praterie sfregate // da un vento senza pace[tooltip tip=”Le ceneri di Gramsci”][1][/tooltip],“ dove tutto è possibile nel bene e nel male.

    Una città che è nata come punto d’incontro, di potere, eterna e multietnica, ricca di contraddizioni, così come di cialtroni e incapaci governanti e di sudditi indisciplinati. Una metropoli ormai dove le diverse culture, dialetti, etnie, non l’arricchiscono, eppure è nella sua diversa e cruda bellezza la sua unicità, che tanto amò Pier Paolo Pasolini, ma Roma ha mai amato Pasolini?

    Oggi non si fa altro che nominarlo, perché qualcuno rispolvera i suoi scritti e si accorge di quanto fosse avanti con il suo pensiero, di quanto avesse capito e spiegato l’evoluzione distorta della società italiana. Il consumismo stritolante, privo di morale, cui si è asservito ciascuno di noi, figli del Ridicolo Decennio, gli anni Sessanta, di cui ora paghiamo le conseguenze disastrose, sono stati i temi fondamentali del messaggio del nostro autore, una voce fuori dal coro, stritolata dalla macchina del silenzio, quel lontano 2 novembre del 1975.

    Nicola Viceconti e Patrizia Gradito
    Nicola Viceconti e Patrizia Gradito

    Patrizia Gradito e Nicola Viceconti, scrittori e intellettuali, cresciuti a Ciampino, hanno ritenuto doveroso ricordare Pasolini, continuando l’opera di valorizzazione di quest’autore già iniziata con l’Archivio Pier Paolo Pasolini, a cura di Enzo Lavagnini, che è in stretto contatto con il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa delle Delizie (PN) e il Centro Studi PPP di Bologna che ha dato il patrocinio all’iniziativa che veniamo presentando.

    Nicola Viceconti è noto ai lettori del nostro blog come raffinato scrittore e poeta civile. Prolifico autore, che a breve intervisteremo a proposito dei suoi ultimi lavori e attività letterarie.

    Vorrei parlare con Patrizia Gradito, la sua compagna di vita, appassionata di letteratura, lettrice vorace, scrittrice, che per mestiere è coordinatrice del centro documentazione di un ente pubblico di ricerca scientifica. Raccontaci in breve la tua storia e cosa ti lega da sempre a Pasolini e alla scuola dei coniugi Bolotta.

    Sono nata a Roma, ho studiato allo IULM di Milano e tranne brevi periodi di permanenza all’estero ho da sempre vissuto a Ciampino. Sono traduttrice e lavoro nell’ambito scientifico biomedico ma la letteratura, il cinema e le arti sono la mia passione. Collaboro con Nicola Viceconti a un progetto letterario da lui ideato, “Novelas por la identidad”, richiamandosi al “Teatro por la identidad”delle Abuelas de Plaza de Mayo. Temi centrali della nostra attività e produzione sono l’identità, i diritti umani, la memoria. Noi riteniamo che, chi scrive, abbia una responsabilità, oggi: la narrazione può toccare l’animo umano attraverso un approccio empatico e indurre a riflessioni profonde. Può insegnare a discernere, accompagnare a creare consapevolezza e a sviluppare un preciso dovere morale… per scongiurare l’indifferenza.

    Benissimo Patrizia, ora torniamo all’evento del 26, nella locandina dell’evento ci sono diverse personalità, come i suoi ex allievi Giulio Romani e Laura Bonifaci e appassionati e studiosi di Pasolini, come Enzo Lavagnini, Responsabile dell’Archivio Pier Paolo Pasolini di Ciampino e Roman Reyes, Presidente della EuroMed University di Madrid e l’attrice Adonella Monaco, che reciterà alcuni dei suoi versi.

    Quale è stato l’impatto della notizia della commemorazione del 26 ottobre con la gente di Ciampino?

    Pier Paolo Pasolini

    Si tratta di un’iniziativa privata di respiro pubblico con una forte valenza simbolica. Nicola Viceconti ed io ce ne siamo fatti promotori interpretando la volontà di molti ciampinesi. Dal punto di vista sociologico, infatti, la commemorazione del vissuto pasoliniano nella scuola media dei coniugi Bolotta, costituisce un fattore identitario importante, è un’opportunità di aggregazione e di ricostruzione della memoria.

    È sorprendente notare come la collettività si sia animata e come abbia via via espresso un forte consenso all’iniziativa, ora in tanti stanno cercando di dare persino un contributo fattivo.

    Il punto di partenza è stato il condominio di V. P. Pignatelli, n. 21 che, a luglio di quest’anno ha autorizzato il progetto all’unanimità. Alcune signore si sono offerte incaricandosi dell’accoglienza con la preparazione di dolci fatti in casa per un brindisi.

    La notizia dell’evento è stata diffusa anche attraverso i social con il titolo “Mi alzo alle 7 vado a Ciampino”, una frase che Pasolini aveva rivolto all’amico e critico letterario Spagnoletti nel 1952. L’eco di questa notizia è giunta ai più importanti Centri Studi e Archivi dedicati a Pier Paolo Pasolini in Italia, che non hanno esitato a concedere il proprio patrocinio morale, dando una valenza nazionale all’iniziativa. La stessa partecipazione del professor Reyes a Roma in questi giorni in occasione di un convegno internazionale sull’influenza della cultura spagnola di Pasolini, di cui è relatore, accende i riflettori su Ciampino.

    Secondo te, quanto è cambiata Ciampino, a parte i palazzi e le strade, da quei lontani anni in cui vi insegnava Pasolini?

    Quando arrivò Pasolini, negli anni ’50, Ciampino era costituita da poche casette sparse nella campagna romana, popolata per lo più da vigneti. Sorta intorno all’aeroporto, l’unico di Roma fino al 1961 e legato a figure come Umberto Nobile e imprese come il decollo del dirigibile verso il Polo Nord. Era dominata da due costruzioni: la Distilleria, inaugurata nel 1938 e accanto alla Chiesa del Sacro Cuore di Gesù, il collegio femminile al centro della cittadina.

    Inagibile a causa dei bombardamenti subiti nel ’43, fu occupato da famiglie di sfollati; c’erano spazi aperti dove i ragazzi si intrattenevano a giocare a pallone. Qui il professore e i suoi alunni organizzavano le partite ed è qui che Pasolini è venuto in contatto con quella umanità dolente che consoliderà l’ispirazione per il romanzo “Ragazzi di vita”, pubblicato nel ’55, proprio un anno dopo aver lasciato l’insegnamento.

    Pier Paolo Pasolini

    I ragazzi amavano i giochi di cortile, i più grandi allestivano sale da ballo nei garage, nelle cantine. Negli anni Sessanta, i ragazzi di Pasolini come Pietrantonio, Giulio Romani, Vincenzo Cerami e mio padre si incontravano per ballare i rock, i twist e i lenti. Due dei “studenti di Pasolini” saranno presenti al momento dell’affissione. C’era poi la stazione ferroviaria che collegava la cittadina a Roma e a Frascati. Il treno è stato da sempre il mezzo utilizzato da molti ciampinesi.

    Le trasformazioni di Ciampino sono quelle che hanno coinvolto anche la capitale. Ai tempi di Pasolini era un riflesso dell’Italia provinciale, contadina, operosa, a ridosso dei castelli romani, è diventato Comune autonomo nel 1974. I rapporti erano tipici dei piccoli agglomerati urbani. Ci si conosceva un po’ tutti. A seguito dell’esplosione demografica e di una certa cementificazione a tratti aggressiva, dagli anni Settanta in poi, la morfologia di Ciampino è mutata, fino a confondersi in una periferia romana. Ciampino ha visto, negli anni passati, la realizzazione di eventi culturali di grande levatura, come il Ciampino Jazz Festival, gli appuntamenti letterari o altre iniziative teatrali. Poi è subentrato un periodo di stasi da cui speriamo di uscire presto, chissà proprio a partire da iniziative come questa!

    Patrizia cara, ora parlaci della poesia, scritta da Nicola e vincitrice di un prestigioso premio, che verrà letta il 26 ottobre, devo approfondire la conoscenza del poeta, finora conosco lo scrittore, ma immagino che l’impegno civile e morale sia il filo conduttore della sua poetica.

    “Pensare era la mia ricchezza e il mio privilegio, più della metà dei miei versi sono stati pensati e scritti in treno” racconta Pasolini in Un paese di temporali e primule di Nico Naldini, suo cugino. Pasolini era solito andare in bicicletta in Friuli per raggiungere la scuola, per arrivare a Ciampino invece, era costretto a prendere più mezzi, l’ultimo il treno, dove ogni giorno si concentrava sulla lezione che lo attendeva, sui suoi scritti, sulle sue poesie.

    Con “Il treno di Pierpaolo”, Nicola Viceconti ha ottenuto una menzione di merito alla XXXV Edizione del “Premio letterario Città di Cava de’ Tirreni” (SA) – sezione poesia, ed è stata l’occasione per raccontare dell’esperienza di Pier Paolo Pasolini a Roma e a Ciampino, della sua abilità di insegnante, del rapporto con i giovani e del suo profondo legame con Vincenzo Cerami. Erano gli anni di gestazione delle opere che gli sono valse la notorietà a livello internazionale.

    Nicola Viceconti
    Nicola Viceconti

    Nel tributo al grande intellettuale del Novecento, Viceconti fa parlare il giovane uomo con le sue responsabilità e i suoi ideali, le sue ombre e le sue utopie, i suoi valori, spogliato di quello che sarà poi. Anche il nome nel titolo scritto affettuosamente in modo scorretto, tutto unito, lo avvicina a noi. La voce in prima persona tocca nel profondo e cuce le distanze temporali. La visione che ci restituisce in questi versi, ci svela i punti di contatto e l’eredità della poetica civile e militante pasoliniana: la concezione delle nuove generazioni come autentica potenzialità di rinnovamento.

    (…) Penso ai loro sguardi,
    vispi e liberi come questa campagna
    fatta di case sparse e cavalli al trotto
    che non smetto di ammirare.
    Qualcosa cresce in me
    nella scuola di Ciampino (..)

    La poesia fa parte di “Torneranno i Cavalli al galoppo. Versi di amore e di lotta”, una raccolta policroma che spazia su molteplici temi: da quelli civili a quelli memoriali, da quelli metafisici a quelli attinenti alla dimensione terrena, ricamati insieme dalla consapevolezza del mistero dell’esistere. Poesie di resistenza contro ogni omologazione culturale, contro ogni appiattimento, che confidano nella possibilità di rivoluzionare questo nostro mondo dilaniato dalle ingiustizie sociali con una proattività militante. Sembra raccogliere l’eredità del Maestro friulano Viceconti, con i suoi componimenti che rappresentano un anelito all’essenza, che cantano la ricerca della bellezza platonica, intesa come la congiunzione del bello con il vero e il giusto, quale principio fondante dell’esistenza: “È un canto la poesia che amo/un grido ribelle al cielo (da “La poesia che amo”). Con quest’opera Viceconti celebra la meraviglia di esistere, il Thauma della metafisica aristotelica, la capacità di lasciarsi sorprendere per scoprire il gusto di conoscere, di emozionarsi.

    Viceconti ama citare un verso del grande poeta spagnolo Gabriel Celaya per sintetizzare la forza dirompente e visionaria della poesia comparandola a “un’arma caricata di futuro”. I versi che aprono la raccolta “Parole da scrivere” condensano questa sua attitudine: “altra rivoluzione nascerà da queste parole fresche / (…) parole mai indifferenti alla fantasia/al sangue dei giusti e alla verità dei popoli / (…) varchi sui confini / (…) parole di lotta e di amore / per dire che io esisto e sono vivo / poi nulla più”.

    Grazie per il tuo prezioso contributo Patrizia, ci hai regalato una lettura critica dell’opera poetica dell’amico Viceconti davvero interessante. Non rimane che darci appuntamento il 26 ottobre alle 17 in via Principessa Pignatelli n. 21 a Ciampino.

  • L’Abiura è compiuta

    L’Abiura è compiuta

    Tuonava così Pier Paolo Pasolini nell’articolo del 9 dicembre 1973 dal titolo «Sfida ai dirigenti della televisione», che su Scritti Corsari si intitola Acculturazione e acculturazione, cominciando fin dal titolo a pungolare il lettore sulle dissonanze di significato di uno stesso termine.

    Sono passati molti anni e noi siamo “i giovanissimi“ cresciuti in quegli anni, in cui più violentemente si è perpetrata la distruzione di quel tessuto sociale e umano, tipicamente italiano, fatto di diversità e ricchezze, di cultura popolare. Siamo quelli cresciuti con lo stereotipo del benessere e della felicità creato da Carosello. Noi, quelli che credevamo di cambiare il mondo, mentre era il mondo che cambiava noi, inconsapevoli consumatori già consumati. Oggi di tutto questo non possiamo che prendere atto, con lucida freddezza, senza nichilismi inutili, cercando insieme una via d’uscita da questo pantano morale e culturale, che ci imbratta e ci avvilisce.

    Il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, […] ha imposto […] i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del suo consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

    Il modello verso cui la massa è indirizzata è costruito in funzione del consumo, e alla pubblicità è asservito e utilizzato allo scopo ogni valore morale, religioso o politico.

    Pier Paolo Pasolini

    Sono questi i segnali che Pasolini avverte, quale raffinato pensatore, della pericolosità della “televisione”, cui ai giorni nostri si è aggiunto internet e le sue storture, e dice:

    Non in quanto mezzo tecnico, ma in quanto strumento di potere e potere essa stessa.

    È attraverso la televisione che le masse sottoproletarie degli anni settanta acquisiscono comportamenti borghesi, per camuffare le loro origini, dando vita a uno sconcertante capovolgimento di ruoli sociali, nel quale, come dice Pasolini:

    i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sotto proletarizzati. … Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.

    Eccoci ai giorni nostri, signore e signori. Le gazzarre che vediamo ignobilmente scoppiare in Parlamento da parecchi anni or sono, dimostrano quanto detto da Pasolini: menti rattrappite, cresciute in una società votata al consumo, che ha trovato la sua fortuna nella continua distruzione di qualsiasi valore morale, religioso o politico, vanificandone il senso.

    Ora, preso atto, che siamo vittime di un fascismo più subdolo e distruttivo; preso atto che la nostra cultura è scalfita indelebilmente, fatta a pezzi e decisamente imbruttita, sempre per chiamare in causa l’amico Pier Paolo, mi interrogo sul modo per riappropriarci di quelle conoscenze negateci e che continuiamo a negare.

    I giovani sono sempre più in affanno e fondamentalmente depressi, perché gli abbiamo coltivato sogni di cartone e adesso non hanno sufficienti muscoli per questa atroce guerra, come del resto non l’avemmo noi.

    Il consumismo come un serpente stritola le sue prede, ingoiandole tutte intere.

    L’informazione, asservita all’economia di mercato, “all’efficienza a tutti i costi“, come dice Goliarda Sapienza, gioca un ruolo principale, costruendo a tavolino l’immaginario della massa, per condizionare le sue scelte e i suoi comportamenti.

    Al pari dei partigiani che fuggirono alla furia nazifascista, scalando montagne impervie, incontrando la morte; noi, abbracciati alle nostre penne, ai nostri pennelli, ai tasti, alle corde, ai fiati, abbiamo l’obbligo di combattere, non come “ gli ultimi umanisti “ di Pasolini ma come i Nuovi Umanisti. Voci della coscienza che con la loro presenza s’oppongono con ogni mezzo alla distruzione della memoria.

    Siccome è agosto e fa molto caldo, ho pensato di chiedere un parere agli amici: Nicola Viceconti, Valerio Valentini e Fabio Iuliano, scrittori che ho il piacere di conoscere e che sono certa sapranno arricchire questa rilettura degli scritti di Pasolini.

    Nicola di mestiere è un sociologo e uno studioso di scienze delle comunicazioni. I suoi libri hanno il grande pregio di diffondere i più alti valori morali del nostro Novecento, scritti nella memoria con il sangue di uomini e donne, ai quali siamo e saremo sempre debitori, l’ultimo in ordine di pubblicazione è Vieni via, edito dalla casa editrice Ensemble, che abbiamo presentato sul nostro blog a dicembre 2017.

    Nicola Viceconti
    Nicola Viceconti

    Nicola, la tua esperienza di sociologo e di scrittore ti sta portando a conoscere sempre meglio quei brandelli di tessuto umano e sociale della nostra, e non solo nostra, Nazione e i tuoi libri sono ricchi di memoria; storie vere che la tua penna ci ha fatto vivere in prima persona. Pasolini negli ultimi anni della sua vita non ha fatto altro che denunciare questa amoralità crescente, volutamente è stato isolato e forse ucciso. Qual è l’eredità di quegli anni ?

    Gli anni 60-70 erano gli anni del credo ideologico, del coraggio di sperare in un mondo migliore. Erano gli anni della rivoluzione, intesa in ogni sua sfaccettatura, per contrastare una società sempre più spersonalizzata in un momento di cambio dei costumi e degli usi degli italiani. Pasolini è stato un precursore capace di intuire i rischi di una società onnivora e oppressiva, attraverso il potere dei media e l’abbaglio del consumismo. Il suo invito rivolto ai giovani di essere sempre se stessi, sintetizzato nella frase famosa “ti dicono di non spendere e tu splendi”, era un’esortazione a riflettere di luce propria attraverso le idee.

    Lui stesso leggeva ai suoi studenti poesie di autori classici e internazionali che incitavano a sviluppare il pensiero critico. Ecco, forse per me è proprio questa l’eredità di quegli anni: la capacità di non omologarsi al sistema, di non aderire ai modelli imposti dall’alto e a coltivare una militanza che si concretizza oggi attraverso una narrativa e una poesia “comprometida”.

    La mia formazione da sociologo ha influito molto sulla visione del mondo e sul senso della produzione letteraria, che è sempre più permeata da un’attenzione alle storie di vita di alcuni personaggi paradigmatici di drammi e aspetti sociali di respiro universale. Rispetto a questa chiave di lettura sono state per me fondamentali alcune riflessioni sulla teoria critica della societa portate avanti da Marcuse, esponente della Scuola di Francoforte.

    Tu, come me, sei nato nella seconda metà del Novecento: quale della multiforme tradizione letteraria di questo secolo ti ha più influenzato?

    Tra gli autori che mi hanno ispirato maggiormente non posso non citare Julio Cortazar, scrittore argentino naturalizzato francese, per la sua capacità di rappresentare, attraverso un mondo fantastico, le debolezze della società moderna. Da lui ho mutuato l’attitudine allo scavo psicologico dei protagonisti che creo nei mie romanzi e il sapore lirico – tipicamente  francese –  della poesia. Un altro autore che necessariamente mi sento di nominare è lo scrittore urugiayano Eduardo Galeano per il suo impegno civile e sociale.

    Valerio Valentini
    Valerio Valentini

    Valerio Valentini, classe 1982, che proprio in questi giorni sta presentando il suo libro di racconti brevi dal titolo Parlare non è un rimedio, pubblicati da D editore di Emanuele Pilia, è per la casa editrice il curatore della collana Strade Maestre, nella quale si è riproposto proprio di recuperare testi ormai dimenticati della buona letteratura del Novecento, per questo ho pensato di sottoporle alcune brevi domande:

    Valerio, Pasolini è decisamente pessimista sul futuro, non senza giusta ragione. Nei tuoi racconti, scatti istantanee di vita vissuta in una cittadina di provincia, nei quali il rapporto dialogico tra individui sembra dimostrare tutta la sua inutilità.

    Raccontaci in breve quanto della multiforme tradizione letteraria del Novecento ti ha più influenzato.

    Senza ombra di dubbio Pasolini, sebbene io sia dell’82, segna in modo indelebile, non solo la mia scrittura, ma soprattutto il modo di rapportarmi alle storie che parlano delle gente. Sono nato e cresciuto a Monteverde, Via di Donna Olimpia per la precisione, la famosa via dei ragazzi di vita di Pasolini. Questo ha segnato sia la mia scrittura che il modo di vedere quello che mi circondava, quello che assorbivo e quello che vivevo.

    Come dico nella quarta di copertina, ci hanno abituato fin da piccoli a colte letture di imprese straordinarie, per quanto mi riguarda, inizio a leggere tardissimo, da quel momento in poi non seguo una logica di letture prestabilita, o almeno quella che in passato stabiliva la scuola, comincio a divorare (letteralmente parlando) tutto quello che mi capita, delle volte seguendo dei filoni narrativi, delle altre spaziando sul periodo storico che più mi affascinava.

    Negli anni “adulti” ho affinato questo mio modo di approcciarmi alla lettura, sono diventato più selettivo, cercando, in quello che leggevo, un tema che rappresentasse qualcosa di unico, un tema che raccontasse una grande storia, di quelle che cambiano le vite delle persone, sia di quelle che, quella storia l’avevano vissuta, sia di quelle che avevano orientato intorno a essa, si, di quelli come me che l’avevano solamente letta imparando qualcosa, incuriosendosi.

    Penso che la letteratura del ‘900 (o almeno fino a una buona parte) sia stata la massima espressione di questo, uno studio, una continua ricerca di grandi emi, di storie (vissute) da raccontare, facendolo in modo dotto, ricercato. Oggi, penso, che questa cura dei dettagli, questa ricerca, si sia persa da qualche parte in attesa di ritrovare la via, i libri in circolazione, troppo spesso, mancano di sostanza, si da la colpa alla mancanza di storie da raccontare, ma, personalmente, penso che manchino i narratori. Quelli che con le parole ci sapevano fare davvero.

    Se noi cinquanta/sessantenni siamo cresciuti su modelli precostituiti, che hanno inquinato qualsiasi valore morale, culturale, religioso e politico, rendendoci, non tutti per fortuna, quei detriti umani senza memoria e senza cultura. Tu, che sei nato nel 1982, all’epoca del pieno sviluppo della televisione commerciale, come pensi di poter uscire da questa palude di ovvietà, di depressione culturale e morale?

    Dico sempre che, la mia generazione, siamo figli della televisione, quella commerciale, e anche spazzatura, per certi punti di vista, l’abbiamo assorbita, anche non volendo, anche vivendo in un contesto che non prevedeva l’abuso di televisione. La televisione commerciale, con i suoi programmi innovativi, i suoi quiz (la maggior parte prevedeva “l’uso” di concorrenti che venivano scelti tra la gente, il linguaggio più “popolare” accessibile a tutti apportava una novità significativa, rispetto alla televisione (RAI) che veniva vista come più “intellettuale” e legata a valori di un’Italia che era cambiata, la televisione commerciale ha tolto quei volti (visti dal popolo come borghesi) e li ha sostituiti con volti “colorati”, più “alla mano”, secondo me, finti, con il conseguente abbattimento della curiosità (si vede tutto, si capisce tutto perché spiegato con lunghi e inutili monologhi o discorsi portati alla banalità).

    Secondo il mio modesto parere ci dovremmo riaffacciare alla bellezza, circondarci di cose stimolanti, andarle a cercare mettendo alla base di tutto la civiltà, per quanto riguarda i mezzi, e in questo caso la televisione, dovrebbe esserci un ritorno alla curiosità e alla divulgazione, anche se, ad oggi, un ritorno a quella curiosità, con programmi intellettualmente più stimolanti e un linguaggio diverso verrebbe visto come un allontanarsi da quello che vuole la “gente comune”. Diciamo che si dovrebbe seguire l’esempio degli Angela (prima Piero e poi, soprattutto, Alberto) studiosi che hanno capito, con un linguaggio colto e interessante ma moderno e accattivante come arrivare nella testa di, non dico tutti, ma molti.

    Non potevo non sentire il parere di Fabio Iuliano: blogger, insegnante, scrittore e musicista che ho conosciuto grazie all’editore Mirko Zanona, classe 1978, che a novembre dello scorso anno ha presentato il suo secondo libro, edito per Aurora Edizioni, Lithium 48, recensito sul blog.

    Fabio Iuliano
    Fabio Iuliano

    Caro Fabio, non potevi mancare tu, che con il tuo ultimo libro hai posto con forza l’accento sull’occhio digitale che tutto osserva e che manipola menti e coscienze.

    Oltre all’insegnamento ti occupi da sempre di giornalismo; non a caso il protagonista del libro è un blogger. Rileggendo oggi Pasolini, vivendo in una città scrigno qual è L’Aquila, quanto ancora è rimasto di quella semplicità, diversità di usanze e culture,che ha fatto della nostra Terra la più bella e la più ricca d’Arte di ogni genere?

    Quello che è successo all’Aquila negli ultimi anni può dire molto sulla nostra epoca e sulla nostra gente: da una parte il terremoto e il doveroso / necessario / efficace intervento della Protezione civile sotto la guida dell’allora governo Berlusconi.

    Dall’altra parte lo storytelling talvolta forzato dell’entourage del Cavaliere che ci voleva felici e grati sempre e comunque, qualsiasi scelta fosse imposta dall’alto sul nostro territorio. Le voci di dissenso venivano isolate o ridicolizzate e l’ufficio stampa della Protezione civile si trasformava a volte in una vera e propria macchina da propaganda.

    Eppure, almeno nei primi mesi del post-sisma, gli aquilani seppero trovare quel carattere e quella forza per reagire, sulla spinta di alcuni movimenti “grassroots”. Ecco che le carriole, spinte dai cittadini in centro storico con l’intento di rimuovere macerie per dare il via al lento processo della ricostruzione, divennero per un po’, icona di un Paese che non si arrende alla corruzione o alla burocrazia.

    Per alcuni mesi i cittadini varcarono in massa i confini della zona rossa del centro storico devastato dal sisma del 2009 e marciare per riprendere un passato da strappare al cemento. Purtroppo, questa consapevolezza è durata troppo poco e dopo sono subentrate divisioni e strumentalizzazioni. Ma in quei mesi tirammo un po’ tutti fuori il carattere e l’ostinazione pura, semplice ed essenziale della gente di montagna.

    Visti gli sviluppi della politica e della condizione economica generale, nella quale le masse annaspano in cerca di colpevoli veri o presunti,animati da un clima da Far West, retaggio di anni e anni di televisione spazzatura consumista, populista e violenta, come pensi di poter uscire da questa palude?

    Bisogna anzitutto capire che questo clima da Far West è incentivato dai moderni algoritmi, capaci di assecondare le nostre inclinazioni in un modo sorprendente: sul web e sui social si vendono idee politiche così come si vendono paia di scarpe. In altre parole, se io mi mostro vicino a una tendenza, l’algoritmo che sceglie quello che devo visualizzare sul mio smartphone non farà altro che consigliarmi prodotti e argomenti vicini alle mie inclinazioni. Così facendo, Google, Facebook, Twitter e Youtube stanno creando fazioni che contribuiscono a polarizzare il pubblico mettendo uno contro l’altro.

    Questi meccanismi “creano distopia” per avere dei clic in più. C’è, inoltre, una parte di politica che contribuisce a soffiare sul fuoco, alimentando lo scontro con post e articoli (anche fake news) provocatori o giocando con l’amigdala dei soggetti più inclini a paure quasi sempre ingiustificate. Ecco che l’intolleranza viene incentivata, così come l’ipocondria, il complottismo e il rifiuto di quanto propone la scienza ufficiale.

    La televisione ha fatto e continua a fare abbastanza danni, specie nelle fasce di età più anziane. Quale rimedio? Bisogna parlare con la gente, bisogna parlare a scuola, spingere i ragazzi a pensare con la propria testa, a non dare mai nulla per scontato. Magari con l’aiuto dei libri. Bisogna anche disincentivare lo scontro a tutti i costi, perché la politica populista va avanti a slogan da stadio: o sei con noi o sei con loro. Io è da tempo che mi sto impegnando a cercare di divulgare buone notizie su progetti di integrazione, anziché gettarmi nella mischia di chi dice no all’immigrazione a prescindere.

    Qual è la corrente letteraria del Novecento, che pensi abbia più influenzato la tua poetica?

    La distopia per i contenuti e la poesia beat per il ritmo.

    Ringrazio gli amici per le interessanti risposte, che sicuramente aprono nuovi dibattiti, ai quali invito tutta la redazione del blog a dare seguito, vista soprattutto la loro giovane età e la complessa realtà storica nella quale viviamo.

  • Gino Pitaro, Benzine e gli occhi di Pasolini

    Gino Pitaro, Benzine e gli occhi di Pasolini

    Gli occhi di Pasolini ti guardano dalla copertina lucida; e c’è, effettivamente, Pasolini, nel libro, più o meno nascosto dietro lo sguardo del narratore. È un librino sottile, questo di Gino Pitaro, si legge in poche ore, e sembra leggero. In realtà è una materia enorme, difficile da gestire, che scivola via da tutte le parti. È il blob del post-post-moderno (che qualcuno chiama iper); il blob di una generazione, la generazione-zerocalcare, per intenderci (siamo sempre a Roma, tra l’altro), quella insomma che a trent’anni (e oltre) è ancora in alto mare, o meglio in un call-center, o a fare da “reggipalle” al prof di turno; quella che vive un tanto per giorno, a immaginare qualcosa d’altro sempre, in ogni caso; è quella generazione che avrebbe dovuto lasciare qualcosa dopo di sé, ai ragazzi che sono venuti dopo, e che invece tende a confondersi, a lambire la generazione dei ventenni, e dei quindicenni forse, di oggi.

    È una materia complicata, tutta avvolta su se stessa; le insidie sono molte: il banale, il giovanilistico; mantenere la barra a dritta è un imperativo non solo per non finire, in libreria, a fianco di Jack Frusciante e dei personaggi della Mastrocola, ma soprattutto per non sprecare quello che è nei fatti un ottimo soggetto, ovvero il periodo storico che stiamo vivendo. Pitaro si sottrae a questo compito, si smarca dal narrare di petto la contemporaneità; dall’esprimere “lo spirito del tempo” (categoria che ha fatto il suo corso, eppure sempre affascina l’ambizione degli scrittori): vuole consegnarci un prodotto, che non pretende di divenire opera.

    Al contrario egli indietreggia, volutamente, ripiega sull’infinitamente piccolo, sull’individuale. La realtà va guardata con quegli occhi, bisogna immergersi nella realtà, se si vogliono trarre delle conclusioni. Ma anche da questa immersione Pitaro si svincola; ci racconta dialoghi, luoghi, amicizie applicando una sorta di funzionalismo adattato alla letteratura: osservazione sì, partecipata magari, ma sempre degli atti esterni, sempre di ciò che si può vedere. Introspezione psicologica? Poca. Personaggi memorabili? Forse no. Ma Pitaro è pasoliniano, e si smarca da questi concetti; il suo occhio osserva e registra volutamente la superficie, perché solo questa può essere registrata.

    Gino Pitaro

    Cosa rimane allora? Pezzi di parole, di avvenimenti, pezzi di vita, quasi aneddoti. La realtà stessa scivola nell’episodio, e l’autore può raccontare solo quello. Volendo, il romanzo potrebbe essere ambientato oggi come nel 2008, come nel 2010, o forse ancora prima. E se questo da un lato assomiglia a una scelta pressapochista, dall’altro è una spia di come i personaggi di Pitaro intendono la contemporaneità: un eterno presente. Presente che si sovverte a tre quarti del libro (niente spoiler, è un patto di sangue), mettendo in discussione tutta la descrizione precedente.

    Pitaro sa tenere in mano una penna (il che, oggi, non è scontato), ma forse il suo stile dovrebbe essere affinato; forse si sarebbe dovuto sottolineare stilisticamente questo passaggio cruciale del libro. E in genere lo stile di Gino Pitaro appare molto naturale, non frutto di una scelta, di un processo. Anch’esso sta in superficie, come tutto il mondo che narra. Benzine, dunque, contrariamente al suo titolo, è forse più un romanzo dell’assenza, della stasi.

    Pitaro segue Pasolini, anche nel dimostrare il suo amore per Roma, o nel mostrare il suo amore per gli ultimi, e finisce per ereditarne i problemi, come questo sguardo esterno sulle cose, sul mondo, che in Pasolini però si faceva critico (al margine del giudizio), mentre in Benzine il giudizio viene sospeso (molto bene) ma rimane soltanto una registrazione delle cose: il lettore non sempre riesce a sentire ciò che viene narrato, raramente il suo respiro si coordina a quello dello scrittore. Siamo pur sempre di fronte ad un prodotto.

    Un buon prodotto, però, che rimane in mente dopo giorni; un prodotto in cui ci si può identificare, anche. Bello sarebbe svegliarsi un giorno e scoprire che questo autore ha rimesso mano alle sue carte, ha aguzzato quel suo sguardo, ne ha fatto uno stile, una parola che esprime, cioè che spreme l’essenza di ciò che ha di fronte. Potrebbe essere, un giorno.

     


    Gino Pitaro nasce a Vibo Valentia il 7 luglio 1970 e vive a Roma. Nel suo percorso svolge varie attività. tra cui quella del redattore, articolista e documentarista indipendente. E’ autore di I giorni dei giovani leoni (Arduino Sacco Editore, 2011) e di Babelfish, racconti dall’Era dell’Acquario (Ensemble, 2013), raccolta di racconti che ha vinto numerosi premi letterari. Il suo ultimo romanzo è Benzine (Ensemble, 2015)