Tag: Sesso ed erotismo

Sesso ed erotismo sono sempre stati spunto per una gran numero di opere artistiche, spesso osteggiate e censurate. Vi parliamo di alcune di queste.

  • Hardcore Hegel: il BDSM e la dialettica servo-padrone

    Hardcore Hegel: il BDSM e la dialettica servo-padrone

    Georg Wilhelm Friedrich Hegel è stato uno dei principali filosofi europei. Vissuto a cavallo della Rivoluzione e della Restaurazione, è riconosciuto come il principale esponente di quello che sui manuali liceali viene ancora chiamato Idealismo ed oggi è più propriamente conosciuto come filosofia classica tedesca, volta sia a conciliare tutte le grandi tradizioni di pensiero che l’avevano preceduta, a partire dal Razionalismo francese e dall’Empirismo inglese, sia a superare le questioni irrisolte della dialettica di Immanuel Kant, come il dualismo apparentemente insolubile tra il fenomeno (realtà-per-un-soggetto) e la cosa in sé. Hegel ha sviluppato fino alle estreme conseguenze l’idea di filosofia come indagine del reale attraverso lo strumento del razionale – che egli arriva a definire ontologicamente identici – conducendo così a compimento un prrocesso iniziato da Platone, e tutti i pensatori venuti dopo di lui hanno dovuto confrontarsi con la sua vasta ombra.

    Il pensiero di Hegel è enormemente variegato ed articolato, e merita maggior precisione ed approfondimento di quanto mi sarebbe possibile. Pertanto, contrariamente a quanto l’introduzione avrebbe potuto indurvi a credere, il presente articolo non tratterà di Hegel. Invece, ci dedicheremo ad osservare unicamente un singolo aspetto di questa filosofia, e le sue imprevedibili somiglianze con uno stile di vita che difficilmente ci verrebbe in mente di associare alla rispettabile immagine di un rigoroso accademico tedesco. Il pensiero di Hegel sarà lo strumento ed il tramite con cui illustreremo la subcultura BDSM.

    BDSM è una sigla attestata per la prima volta su Usenet nel 1991, e viene tradizionalmente intesa come l’unione degli acronimi B-D (Bondage & Discipline), D-S (Dominance & Submission) e S-M (Sadism & Masochism). È una fantasia sessuale che ha come suo fondamento una divisione dei ruoli tra i partecipanti: da un lato abbiamo un soggetto dominante, spesso chiamato anche “Master”, “Padrone” o “Dom” (abbreviazione di dominator, “dominatore”), che esercita il proprio controllo su un soggetto sottomesso, chiamato anche “Slave”, “Schiavo” o “Sub” (abbreviazione di submissive, “sottomesso”). I ruoli possono essere fissi all’interno di una relazione oppure alternarsi, e un praticante può relazionarsi ad altri membri della subcultura assumendo ruoli diversi a seconda dell’interlocutore.

    Jenny Saville, Odalisca, olio e carboncino su tela, 2012-14
    Jenny Saville, Odalisca, olio e carboncino su tela, 2012-14

    Il controllo esercitato dal dominante si esprime in numerosi modi, che possono variare dalla semplice imposizione di comandi, alla somministrazione di lievi percosse a carattere giocoso allo scopo di suscitare piacere attraverso il dolore, a costrizioni fisiche tramite strumenti più o meno sofisticati. La subcultura BDSM è attualmente uno dei sottogruppi più diffusi nella società occidentale, e sta progressivamente ricevendo un’attenzione maggiore e più accurata sia nel campo degli studi scientifici che in quello della rappresentazione mediatica. Nondimeno, il termine viene tradizionalmente inteso come una definizione alquanto generica per comprendere numerose pratiche, subculture, fantasie e identità, rendendo quindi la sigla BDSM quasi più un’etichetta con la quale scegliere di autoidentificarsi.

    Nell’ultima decade, il primo punto di contatto con il mondo del BDSM per la maggior parte delle persone estranee alla subcultura è stato attraverso Cinquanta sfumature di grigio, primo capitolo della trilogia letteraria e cinematografica di grande successo di E.L. James. Sfortunatamente, la raffigurazione lì presentata è tanto imprecisa e inaccurata quanto la sua prosa è mediocre e scadente, e questo ha fornito un’immagine della subcultura assolutamente falsata e inattendibile, scatenando la protesta dei suoi membri (lasciamo qui a titolo di esempio l’analisi dettagliata di una praticante).

    Il punto fondamentale, e colpevolmente ignorato, è che il principio cardine del BDSM, ancora più importante della ripartizione dei ruoli, è la conscia adesione alle regole del SSC (Safe, Sane & Consensual, “sicuro, sano e consensuale”), o più accuratamente del RACK (Risk Aware Consensual Kink, “gioco sessuale consensuale e consapevole del rischio”). I praticanti del BDSM hanno come imperativo e limite il benessere di tutti i partecipanti, i quali scelgono di essere coinvolti in piena consapevolezza e di propria spontanea volontà, senza coercizione o plagio, e possono in qualunque momento ottenere di fermarsi e recedere anche se avevano in precedenza accettato un ruolo subordinato.

    Jenny Saville, One out of two, olio su tela, 2016
    Jenny Saville, One out of two, carboncino e pastello su tela, 2016

    Contrariamente inoltre a quanto si potrebbe credere, l’appagamento sessuale non è il fine ultimo di questo gioco di ruolo, ma diventa un mezzo possibile, e non necessariamente l’unico, per raggiungere il piacere, che per altri praticanti si consegue proprio tramite la frustrazione e l’aspettativa di un soddisfacimento non raggiunto, o nel farne disporre all’arbitrio di un’altra persona. Accade quindi che il vero piacere si raggiunga nella mente piuttosto che nel corpo, ed è il frutto delle relazioni più che delle azioni.

    Questo determina, in maniera sotterranea e del tutto inavvertibile dallo spettatore casuale, un totale ribaltamento dei rapporti di forza tra i partecipanti, ed una curiosa inversione dei ruoli. Uno sguardo distratto potrebbe facilmente accontentarsi di un’identificazione superficiale e nominale e considerare il dominatore in posizione di forza e il sottomesso in posizione subordinata, con il primo che soddisfa i propri desideri e le proprie voglie ed il secondo che deve assecondare.

    Tuttavia ciò è profondamente scorretto e fraintende la vera dinamica di relazione, in cui è il sottomesso la forza motrice e l’arbitro. Non solo infatti, come illustrato in precedenza, la necessità di salvaguardare il benessere dei partecipanti conferisce al sottomesso la facoltà di bloccare in qualsiasi momento l’attività in corso, fornendogli quindi il controllo totale sull’andamento, ma scrutando in profondità si scopre come l’intera dinamica proceda dalla sua iniziativa. Il sottomesso infatti trae il proprio piacere dalla rinuncia spontanea che lui pone al proprio controllo, spogliandosi del proprio arbitrio e affidando ad altri la momentanea cura di sé. Per contro, il dominante esercita sì un proprio controllo, ma la sua azione deve essere indirizzata ad ottenere il piacere del partner sottomesso, il suo dominio serve per il desiderio del dominato e non del dominante, e quindi essenzialmente il padrone domina lo schiavo per assicurare il piacere di quest’ultimo.

    Jenny Saville, Senza titolo, 2014, olio su tela.
    Jenny Saville, Senza titolo, 2014, olio su tela.

    Arriviamo così dopo un lungo giro a chiudere il cerchio che abbiamo cominciato al principio di quest’articolo, tornando all’algida accademia tedesca che tanto ci pare distante da cuoio e manette. Bisogna fare infatti un notevole sforzo di fantasia per accostare il compassato Hegel con l’esuberanza del BDSM; a molti l’unico punto di contatto sembrerebbe l’idea di considerare masochista ascoltare volontariamente le pesanti elucubrazioni del filosofo. Al di là di facili ironie, scopriamo invece che, in maniera del tutto involontaria e inconsapevole – quale smacco per il filosofo dell’autocoscienza! – proprio Hegel ha suo malgrado ricostruito la dinamica che opera alla base del BDSM.

    Uno dei primi punti affrontati nell’elaborazione filosofica di Hegel è la cosiddetta “dialettica tra servo e padrone”: è una dei cardini e delle parti più conosciute de La fenomenologia dello spirito, l’opera con cui Hegel inquadra e pone le fondamenta di tutto il proprio pensiero. In essa si indagano i limiti della conoscenza, si pone il nodo cruciale per cui «il reale è razionale, il razionale è reale» e si costruisce la dialettica come imprescindibile strumento di conoscenza, crescita e sviluppo dinamico. Attraverso i tre momenti di tesi, antitesi e sintesi, variamente interpretabili come affermazione, negazione e superamento della negazione, oppure idea astratta, negazione e oggetto concreto e assoluto, la conoscenza e la realtà non hanno mai una natura statica, ma sviluppano un andamento dinamico.

    L’autocoscienza, secondo Hegel, si manifesta come desiderio ed appetito del soggetto, che afferma sé stesso consumando l’oggetto del desiderio, che ne viene così negato. L’unica cosa che possa quindi sopravvivere all’incontro con l’autocoscienza è un’altra autocoscienza, un oggetto capace di essere anche soggetto in sé. L’incontro tra le due autocoscienze non è indolore, perché ognuna si afferma come appetito consumatore ma viene vista dall’altra come semplice oggetto da consumare. Il loro scontro determina quindi una lotta per il riconoscimento, in cui entrambe riconoscono nell’altra per la prima volta un nuovo soggetto autonomo, una lotta «per la vita e per la morte» allo scopo di esercitare il predominio. La supremazia arride infine a chi dei due ha dimostrato di sapersi distanziare dal naturale attaccamento alla vita, e con questo coraggio di mettere la propria vita a repentaglio arriva dunque a dominare chi ha avuto invece paura e, piegato dal proprio istinto di sopravvivenza, si piega al più forte. Il vincitore viene così riconosciuto come soggetto, mentre lo sconfitto, in ragione di quella paura, non viene riconosciuto tale.

    Jenny Saville, Reflective Flesh study, carboncino e pastello su carta
    Jenny Saville, Reflective Flesh study (Red), carboncino e pastello su carta

    Si sviluppa così un rapporto fino ad allora inedito in cui chi ha saputo mettere in gioco la propria vita prevale come signore, e chi non ne è stato in grado è costretto al servizio. Il signore si mostra come l’autocoscienza più compiuta, riconosciuta per tale anche dal servo e capace di dominare la natura attraverso il servo ed il suo lavoro. Questi invece non solo è soggetto al volere del signore, ma è costretto ad attendere ai suoi bisogni manipolando la natura per il sostentamento. Tuttavia, abbiamo visto come la dialettica sia per sua necessità dinamica, e non possa mai accontentarsi di una data situazione. Il rapporto tra servo e padrone si trova così a invertirsi per il tramite del lavoro, che sconvolge l’ordine precedente. Il lavoro consente così al servo di oggettivare la propria coscienza e riconoscersi nell’oggetto lavorato, che diviene umanizzato in quanto plasmato dal lavoro dell’uomo. Il signore invece è separato dal lavoro, quindi non è in grado di riconoscersi in esso, e si trova a dipendere dal servo per il proprio sostentamento. Il rapporto di forza è rovesciato.

    Non bisogna compiere l’errore di intendere questa descrizione in maniera letterale, né tantomeno quale lettura della storia fattuale. Hegel descrive la sua Fenomenologia come una «storia romanzata dello spirito», vale a dire la ricostruzione logica del percorso che ha portato lo spirito ad autocomprendersi come tale. Non a caso i termini usati nell’originale tedesco sono Herrschaft e Knechtschaft, “signoria e servitù”, a rimarcare con la scelta del sostantivo astratto come non si voglia alludere a figure reali né storiche. Per il filosofo, signoria e servitù non sono relazioni umane ma piuttosto due differenti modi con cui si costruisce la comprensione del sé e dell’altro da sé. Allo stesso modo, le categorie di signore e servo non afferiscono a individui singoli e distinti, ma a soggetti collettivi intesi nella loro dimensione intellettuale e concettuale.

    Nondimeno, come sovente capita ai grandi, la potenza evocativa di questa descrizione, nella sua forza immaginifica e figurativa, è troppo grande per rimanere confinata a mero concetto e assume volentieri nella mente del lettore una valenza quasi concreta, rivestendosi della stessa immagine che ha intessuto. Ecco spiegate alcune letture antropologiche o storiche della dialettica, come ad esempio l’accostamento operato in campo marxista ai rapporti di produzione.

    Jenny Saville, Interwine, olio su tela, 2011-14.
    Jenny Saville, Intrecciarsi, olio su tela, 2011-14.

    Si parva licet, anche noi indegnamente cediamo al fascino immaginifico della dialettica tra signoria e servitù, e ci troviamo così ad accostare le relazioni BDSM alla metafora del padrone e del servo. Accade infatti che il rapporto teorizzato da Hegel come diversità tra gli stadi dell’autocoscienza assomigli curiosamente alla relazione tra i partecipanti; certo sono assai differenti il campo di applicazione – la relazione tra persone umane al posto della speculazione intellettuale – la consapevolezza che le parti hanno di sé – mentre i praticanti del BDSM si riconoscono come soggetti distinti e differenziati da ruoli diversi, nella dialettica hegeliana il servo non è mai riconosciuto come soggetto prima del rovesciamento, dopo il quale tocca al signore di essere espunto e superato – e l’obiettivo al cui conseguimento si tende – il piacere invece della conoscenza – ma una volta rimarcate queste differenze, e riconosciuta la natura metaforica del paragone, la meccanica che intercorre è sorprendentemente analoga.

    Nel momento infatti in cui due praticanti della subcultura si riconoscono per tali e instaurano un rapporto, uno dei due si ritrova ad esercitare il proprio controllo sull’altro, che si sottomette al suo volere. Tuttavia, tale controllo non è mai assoluto, ma sempre limitato dall’obiettivo di raggiungere il piacere del servo, che si trova così a determinare l’intera coppia. Non è il padrone che ottiene il proprio ruolo asservendo il servo, ma il padrone si trova a servire il sottomesso con lo strumento del proprio comando, e comanda non per conseguire il proprio piacere ma per garantire il piacere di chi ne ha ceduto l’arbitrio.

    In conclusione, non si può dire che il buon Hegel difettasse di autostima: è lui stesso a presentare la sua filosofia come punto culminante dell’evoluzione del pensiero occidentale. Ma, come scriveva il bardo di Stratford, ci sono più cose in cielo e in terra, caro Georg, di quante se ne sogni la tua filosofia: ed è così, che a distanza di più di un secolo, qualche burlone si è preso la licenza di rileggere la tua dialettica in rapporto a una subcultura erotica.

    Spero non ne avrai troppo a male.

     

    In copertina: Jenny Saville, Vis e Ramin, olio su tela, 2018


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  • Frida Castelli, l’arte dei dettagli sensuali

    Frida Castelli, l’arte dei dettagli sensuali

    Frida Castelli è una pittrice milanese di arte erotica. Molti a questo punto rimarranno straniti, altri scandalizzati, ma vi assicuro che tutto ciò con cui avrete a che fare sarà una percezione di pura bellezza e semplicità.

    I suoi quadri, carichi di sensualità, trasmettono infatti eleganza e mai volgarità, esprimendo la delicatezza intrisa nell’intimità di due persone che si amano.

    Le opere di Frida raccontano la sua storia d’amore, attraverso il disegno di volti emotivi e corpi sinuosi, in cui ognuno di noi può immedesimarsi. La scelta di utilizzare l’acquerello dona leggerezza all’immagine, creando nella mente un senso di benessere, riportandoci a quei momenti che ognuno di noi vive nel suo piccolo mondo, riservato e lontano da chiunque non sia la persona che sentiamo donarci completezza e sensazioni travolgenti e coinvolgenti, cariche di sentimento.

    I tratti dei disegni di Frida ripercorrono con grande semplicità il corpo femminile e maschile mentre si inseguono uno con l’altro in movimenti naturali. Alcune opere si soffermano su un particolare dettaglio, come ad esempio i fianchi che combaciano, le mani che si intrecciano, lo sfiorarsi della pelle nuda; altri mostrano sensazioni viscerali e fortemente fisiche che emergono dall’espressione del viso, finestra su cui l’altro può affacciarsi per comprenderci e scorgere la nostra anima.

    Frida Castelli

    Abbiamo poi opere che rivolgono l’attenzione sull’universo femminile e su tutte le emozioni che aleggiano intorno ad ogni donna: tenacia, coraggio, fragilità, volontà e desiderio di libertà.

    Alcuni più concreti, altri più onirici, ogni dipinto vuole essere un pensiero, un’immagine vivida della mente, forse inizialmente spaventosa ma che allo stesso tempo ci incuriosisce, innocente e schietta, libera da giudizio e liberatoria, priva di repressioni e propulsione verso una più profonda conoscenza di noi stessi e dell’altro. Colore e silenzio, non c’è rappresentazione migliore dell’amore passionale, ed è tutto ciò che i quadri di Frida Castelli contengono.

    Sulla sua pagina di Instagram Frida ci mostra, dal 4 aprile 2016, tutte le sue creazioni, partendo dal disegno preparatorio fino all’acquerello finale, a cui accompagna sempre parole d’autore nelle didascalie. Oggi è arrivata ad appassionare ben 462.000 follower. Possiamo infine trovare una sua galleria personale delle opere originali messe in vendita, proprio sul suo sito.

    Donna e artista dall’umile essenza, nelle interviste non esalta mai il suo talento, nonostante abbia dato vita a numerose pitture originali e coraggiose, donando la possibilità a tutti di ritrovarsi in esse, plasmando la propria interiorità.

    Vi propongo qui di seguito le opere che personalmente ho più sentito catturare mente e sensi, spero possiate anche voi trovare la vostra.

  • Un brutale seduttore: il sesso e l’orso nel Medioevo

    Un brutale seduttore: il sesso e l’orso nel Medioevo

    Storie di animali nel medioevo – VII

    Qual è l’animale più simile all’uomo?

    Le risposte a questa domanda sono cambiate nel corso dei secoli anche se in Europa, almeno in epoca storica, soltanto tre animali sono stati considerati come legati all’uomo da vincoli di somiglianza, prossimità o parentela: l’orso, il maiale e la scimmia.

    Per Aristotele e Plinio la più vicina all’uomo è la scimmia. Nel Medioevo però questa somiglianza viene rifiutata, soprattutto da un punto di vista teologico, perché si riteneva la scimmia una bestia diabolica, oltre che vile e brutta. Il caso del maiale è più ambiguo: la somiglianza tra questo e l’uomo era stata riconosciuta dalla medicina greca e poi confermata dalla medicina araba secoli dopo. Inoltre, dal momento che la Chiesa aveva proibito la dissezione del corpo umano nelle scuole di medicina, i giovani aspiranti medici non potevano far altro che esercitarsi sulle scrofe o sui verri. Tuttavia, anche se i medici ritenevano che il maiale fosse anatomicamente più simile all’uomo, non lo ammettevano apertamente, lasciando che i chierici sostenessero che fosse l’orso, il re della foresta che stavano combattendo da secoli.

    In effetti, a prima vista, nessun altro animale presenta un aspetto più nettamente antropomorfo. Anche se più massiccio, l’orso possiede la stessa statura dell’orso, può stare in piedi anche se per poco tempo e, inoltre, privato del pelo, il suo corpo è identico a quello dell’uomo. A ciò si aggiunge anche la dieta onnivora dell’orso e la varietà di colori del suo mantello, paragonabile alle diverse sfumature che possono avere le barbe e i capelli degli uomini: nero, bruno, fulvo, rosso, biondo, grigio.

    I bestiari medievali hanno sviluppato un’idea del tutto singolare, e oltretutto non riscontrabile in natura, ma solo in un passo dell’VIII libro della Storia Naturale di Plinio il Vecchio: l’idea secondo cui, a differenza degli altri quadrupedi, l’orso si accoppiasse con l’orsa more hominum, cioè guardandola in faccia.

    orso miniatura medievale
    Per la mentalità comune il fatto che gli orsi si accoppiassero come gli uomini era ritenuto un prodigio, una peculiarità che allontanava la fiera dal mondo animale e lo avvicinava a quello degli uomini. Per i chierici, però, questi amplessi avevano qualcosa di inquietante se non addirittura di mostruoso. Certe pratiche sembravano contrarie all’ordine voluto da Dio e non potevano che essere conseguenza di una natura viziosa e causa di gravissimi peccati, soprattutto la lussuria, che infatti sarebbe sempre stata associata all’orso nel sistema scolastico dei sette peccati capitali.

    Gli autori che si occuparono della questione presero di mira soprattutto l’orsa, la quale, per il piacere di copulare, partoriva i suoi cuccioli prima del tempo così da potersi concedere nuovamente all’orso. Ciò, sempre secondo questi autori, causava spesso molti danni ai cuccioli che nascevano informi e senza pelo se non addirittura morti. Pentita, l’orsa leccava i suoi cuccioli per dar loro la vita e li teneva al proprio fianco per diversi mesi per proteggerli dai predatori. Sebbene Sant’Ambrogio leggesse questo comportamento come un simbolo del battesimo per i cristiani, un simbolo del ravvedimento e della contrizione, l’immagine di cattiva madre licenziosa fu quella che si impose ed ebbe maggior credito nel corso degli ultimi secoli del Medioevo.

    L’orso maschio, dal canto suo, costituiva per molti autori non solo l’immagine della collera incontrollabile ma anche quella del desiderio brutale, un desiderio di possesso spesso rivolto alle donne, per cui nutriva una passione smodata, un’ossessione.

    Talvolta innamorato o seduttore, più spesso rapitore o violentatore, l’orso si impadroniva delle malcapitate, le portava nella sua caverna e intratteneva con loro un mostruoso commercio carnale che qualche volta dava origine a creature metà uomo e metà orso.

    La mitologia greca conosceva questi ratti di giovani fanciulle da parte di orsi, ma non ne parlava. La mitologia celtica risultava invece più esplicita, dal momento che spesso presentava storie di orsi violentatori e dei misfatti compiuti dai giovani mostri nati da quest’unione contro natura.

    orso miniatura medievale

    Malgrado il vigile filtro del cristianesimo, queste storie hanno lasciato tracce relativamente numerose sino ad epoca feudale, soprattutto nelle saghe e nelle epopee o nei romanzi cavallereschi.

    Un esempio molto interessante è un romanzo arturiano in versi composto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo: È questo il nome del giovane nobile che, pur non conoscendo il padre, giunge alla corte di re Artù per diventare uno dei cavalieri della Tavola Rotonda. L’eccessivo interesse dimostratogli dalla regina Ginevra suscita la gelosia di Artù che rifiuta di armarlo cavaliere finché non avrà compiuto qualche impresa.

    Un giorno, mentre si trova nella camera delle dame, in compagnia della regina, ecco che appare un orso enorme, un orso fuggito dal serraglio reale. A mani nude, il giovane Yder combatte contro la bestia: è una lotta violentissima, lunga e dall’esito incerto, dalla quale però il giovane riesce ad uscire vincitore.

    Questo episodio costituisce il centro del romanzo e contiene diversi motivi e temi tratti da tradizioni molto più antiche. La lotta di Yder contro la bestia rappresenta un rito di passaggio, l’impresa obbligata per diventare cavaliere. Ciò che però più ci interessa, in questo caso, è il comportamento dell’orso del re. Questo di fatti non fugge nella foresta una volta che è riuscito a scappare dalla propria gabbia ma preferisce inerpicarsi su una torre e raggiungere le donne della corte. In sostanza preferisce assecondare il suo desiderio carnale piuttosto che riconquistare la tanto agognata libertà.

    Nella letteratura cortese di quegli anni, e soprattutto nel ciclo bretone, si può riconoscere una trama sotterranea composta da continui riferimenti ad una mitologia più antica che aveva l’orso come protagonista e che venne poi soffocata quando il plantigrado venne sostituito come re delle bestie dal leone.

    Da quel momento l’orso perse sempre maggior terreno e da procace amante di fanciulle venne ridotto a misero e goffo accompagnatore di giullari e pagliacci, come nel Roman de Renart.


    Per approfondire:
    M. Pastoureau, L’orso. Storia di un re decaduto, Einaudi, Torino 2008, pp. 68 – 86.

  • Il conte di Rochester e il plaisir des dames

    Il conte di Rochester e il plaisir des dames

    Mesdames et messieurs, benvenuti al consueto appuntamento con L’Esprit de Finesse, la rassegna culturale dedicata alle opere che hanno fatto la storia del buon gusto su questo meraviglioso sasso bagnato sospeso nell’immensità dello spazio. Oggi, per la gioia dei nostri lettori, ci occuperemo di un testo in cui molti sogliono ravvisare una delle massime vette mai raggiunte dalla poesia inglese d’ogni tempo.

    Sulla figura del suo autore, John Wilmot secondo conte di Rochester, non sarà qui il caso di dilungarsi: rimando ad un futuro articolo ciò che, anche a volerci provare, non potrebbe comunque essere racchiuso in poche righe. Animo irrequieto, spregiudicato libertino e raffinatissimo poeta, Rochester sembrò racchiudere nell’angusto spazio di un solo cranio tutte le contraddizioni di un secolo. Per anni questa bizzarra figura d’aristocratico imperversò nella corte di re Carlo II d’Inghilterra, croce e delizia dei cortigiani e dei ministri che temevano la sua penna non meno che la sua spada. Poi, nel 1674, un singolare incidente mise in serio pericolo la posizione del nostro nobiluomo.

    Un giorno di febbraio il re chiese a Rochester di fargli pervenire una copia di uno dei suoi ultimi componimenti, una satira su certe donne della corte, e il poeta si mostrò ben lieto di accontentarlo. Il problema è che in quel momento – così come in ogni altro momento di ogni altro giorno dell’anno – Rochester era completamente ubriaco. Invece di porgere al re la satira richiesta, si cavò fuori dalla manica una poesia tutt’affatto diversa: trentatré deliziosi versi in rima baciata in cui, con garbo e ironia, si descriveva come ogni notte, nel chiuso del talamo reale, le amanti di re Carlo si affaticassero a risvegliarne la declinante virilità a suon di raspe a sei mani. Con garbo e ironia.

    Blaise Pascal
    Pascal approva il consueto appuntamento con L’Esprit de Finesse

    Nulla sappiamo del componimento che fu alla base del colossale qui pro quo, la satira sulle donne della corte. Tuttavia il professor David Vieth, che nel 1968 curò la prima edizione integrale delle opere poetiche del conte libertino, suggerì en passant nella sua introduzione al volume[tooltip tip=”– “The Complete Poems of John Wilmot, Earl of Rochester”, a cura di David M. Vieth, New Haven and London, Yale University Press, 1974 – p. xxvii”][1][/tooltip] che quella satira fosse da identificarsi con un’altra ben nota poesia di Rochester, l’opera di cui oggi, per rinfrancare il vostro spirito in modo onesto e costruttivo, vi presentiamo un corposo estratto corredato di commento[tooltip tip=”La traduzione dei versi di Rochester è nostra ed è strettamente di servizio: nessun tentativo è stato fatto per rendere in italiano la musicalità del testo originale, consci del fatto che qualsiasi sforzo in tal senso non avrebbe reso piena giustizia alla brillante poetica di John Wilmot.”][2][/tooltip].

    You ladies all of merry England
    Who have been to kiss the Duchess’s hand,
    Pray, did you lately observe in the show
    A noble Italian called Signior Dildo?

    This signior was one of Her Highness’s train,
    And helped to conduct her over the main;
    ut now she cries out, “To the Duke I will go!
    I have no more need for Signior Dildo.”

    Voi tutte, signore dell’allegra Inghilterra / Che siete state a baciare la mano della nuova Duchessa, / Ditemi, vi prego, vi è capitato di vedere / Un nobile italiano di nome signor Dildo? / Questo tale era nel corteo di Sua Altezza / Ed ebbe una gran parte nell’accompagnarla oltre il canale; / Ma ora ella dice: ‘Me ne vado dal Duca, / Non ho più bisogno del signor Dildo!’

    La poesia di Rochester prende le mosse da un avvenimento ben preciso: il matrimonio tra Giacomo duca di York, fratello di re Carlo, e la principessa italiana Maria d’Este che, dopo una prima cerimonia per procura officiata in Italia, venne celebrato in gran pompa il 21 Novembre 1673, allorché la nuova duchessa di York passò la Manica tirandosi dietro tutto un codazzo di paggi, damigelle e cavalieri. Rochester si sofferma su questi ultimi, raccontandoci le prodezze di un… un particolare nobiluomo che si era distinto per i servigi resi alla signora duchessa mentre ella si trovava ancora sul suolo italiano. Quale oltraggio, però, per il nostro eroe! Con mostruosa ingratitudine, Maria decide di sbarazzarsi di lui appena assicurata la propria posizione tra le braccia del duca. Il dramma si fa subito palpabile.

    At the Sign of the Cross in St. James’s Street,
    When next you go thither to make yourselves sweet
    By buying of powder, gloves, essence, or so,
    You may chance t’get a sight of Signior Dildo.

    You’ll take him at first for no person of note
    Because he appears in a plain leather coat,
    But when you his virtuous abilities know,
    You’ll fall down and worship Signior Dildo.

    All’insegna della Croce, a St. James’s Street, / Quando passate di lì per cercare di farvi belli / Comprando polveri, guanti, profumi e così via, / Potrebbe capitarvi sott’occhio il signor Dildo. / All’inizio potrebbe sembrarvi un uomo di poco conto / Perché si mostra vestito di un semplice mantello di cuoio, / Ma quando scoprirete le sue segrete abilità / Cadrete in ginocchio, e adorerete il signor Dildo.

    Conte di Rochester, Jon Wilmot

    Da bravo aristocratico, al cavaliere piace tenersi al passo con le ultime mode: spesso lo si può veder bazzicare il quartiere di St. James, il paradiso dello shopping nella Londra del ‘600. Se si è fortunati ci si può addirittura imbattere in lui sbirciando nelle vetrine delle botteghe. Queste due quartine ci rivelano anche la natura ammirevolmente modesta del buon italiano, che alla pacchiana ostentazione della propria ricchezza tramite abiti costosi preferisce una frugale cappa di cuoio, lasciando ai suoi meriti – e che meriti! – il compito di parlare per lui.

    My Lady Southesk, heavens prosper her for’t!
    First clothed him in satin, then brought him to Court;
    But his head in the circle he scarcely durst show,
    So modest a youth was Signior Dildo.

    The good Lady Suffolk, thinking no harm,
    Had got this poor stranger hid under her arm.
    Lady Betty by chance came the secret to know,
    And from her own mother stole Signior Dildo.

    Lady Southesk – che il cielo gliene renda merito! – / Prima lo vestì di raso, e poi lo portò con sé alla corte; / Ma lui osava a malapena farsi vedere nell’alta società / Tanto era modesto, il giovane signor Dildo! / La buona Lady Suffolk, con le migliori intenzioni, / Nascose il povero straniero sotto il proprio braccio. / Ma Lady Betty per caso scoprì quel segreto, / E alla sua stessa madre portò via il signor Dildo.

    Le due quartine seguenti, se non gettano ombra alcuna sulla reputazione del signor Dildo, lo vedono però invischiarsi nelle sordide trame della corte inglese. Vi viene coinvolto dalla contessa di Southesk, una nobildonna tanto avvenente quanto promiscua la cui lista d’amanti è una sorta di dizionario Zingarelli. Voci insistenti vorrebbero che il marito, il conte di Southesk, abbia volontariamente contratto la sifilide per il solo gusto di passargliela e infettare così tutta la sua copiosa teoria di cavalier serventi.

    Cosa ha a che fare con questa zoccola un essere di spiccata moralità come il buon signor Dildo? Ben poco, e infatti il pover’uomo cerca in tutti i modi di non farsi vedere in compagnia della sua protettrice, che però non si tira indietro davanti a nulla e si mostra comunque smaniosa di introdurlo tra le sue grazie[tooltip tip=”Non si voglia leggere in questa frase alcun doppio senso sessuale. Siete disgustosi.”][3][/tooltip].

    In breve tempo, tuttavia, le dame della corte cominciano a rendersi conto del valore del caro italiano e a contendersene i favori. Lady Elizabeth Howard, una delle damigelle al servizio della regina, non esita nemmeno a strapparlo dalle braccia della propria madre che – orrore degli orrori! – per goderne in modo esclusivo lo teneva addirittura nascosto tra le vesti[tooltip tip=”Tutte le informazioni sulle dame di corte menzionate nel componimento derivano dalla già citata edizione delle opere di Rochester a cura di David M. Vieth.”][4][/tooltip].

    Mihaly Zichy

    That pattern of virtue, Her Grace of Cleveland,
    Has swallowed more pricks than the ocean has sand;
    But by rubbing and scrubbing so large it does grow,
    It is fit for just nothing but Signior Dildo.

    The Countess o’ th’ Cockpit (Who knows not her name?
    She’s famous in story for a killing dame),
    When all her old lovers forsake her, I trow
    She’ll then be contented with Signior Dildo.

    La Duchessa di Cleveland, quel modello di virtù, / Ha ingoiato più minchie che granelli di sabbia il mare; / Ma sfrega e strofina, le si è fatta così larga / Che ora può riempirla solo il signor Dildo. / La contessa di Cockpit (E chi non la conosce? / La storia la celebra come una vera femme fatale), / Quando tutti i suoi amanti l’avranno abbandonata, io penso / Che potrà accontentarsi del signor Dildo.

    Qui vediamo chiaramente come il signor Dildo, che prende molto sul serio il proprio titolo di cavaliere, presti sempre volentieri e in modo del tutto disinteressato il proprio aiuto alle damigelle in difficoltà. La duchessa di Cleveland ha problemi con la sua vita amorosa?

    Ecco che il nobile italiano corre prontamente in suo soccorso, aiutandola come nessun altro ha potuto fare. La vezzosa Nell Gwyn, la favorita del re, detta ironicamente “Contessa di Cockpit[tooltip tip=”Il Cockpit era l’ala del palazzo reale di Whitehall che ospitava il teatro della corte.”][5][/tooltip]” perché amante del teatro e attrice ella stessa, viene abbandonata dai suoi cicisbei? Il signor Dildo offre pronto il suo braccio – ma che dico? Tutto il suo corpo per assisterla nella sua solitudine!

    St. Albans, with wrinkles and smiles in his face,
    Whose kindness to strangers becomes his high place,
    In his coach and six horses is gone to Borgo
    To take the fresh air with Signio Dildo.

    Tom Killigrew’s wife, north Holland’s fine flower,
    At the sight of this signior did fart and belch sour,
    And her Dutch breeding farther to show,
    Says, “Welcome to England, Mynheer Van Dildo!

    Il Conte di St. Albans, tutto rughe e sorrisi, / La cui cortesia verso gli stranieri si addice al suo titolo, / Nel suo tiro a sei cavalli è andato a Borgo / A cambiare aria con il signor Dildo. / La moglie di Tom Killigrew, il bel fiore dell’Olanda, / Al vedere quel signore scoreggiò e fece un gran rutto, / E per mostrare ancor più le sue origini olandesi / Esclamò: ‘Benvenuto in Inghilterra, Mynherr Van Dildo!’

    Ma basta parlare di donne: non bisogna certo pensare che la compagnia di un raffinato gentiluomo come il signor Dildo venga ricercata solo dal gentil sesso! Persino il conte di St. Albans, uno dei maggiori diplomatici del regno d’Inghilterra, è un fervido ammiratore di questo bravo giovane, e non esita a condurlo con sé nel proprio viaggio in Italia, tanto è desideroso di godere della sua familiarità.

    È più che evidente, d’altronde, che le virtù del signor Dildo siano tali da risplendere travalicando i confini nazionali: Charlotte de Hesse, la bella moglie olandese del drammaturgo Thomas Killigrew[tooltip tip=”Killigrew era, più precisamente, il responsabile della King’s Company, una delle maggiori compagnie teatrali nella Londra del tempo.”][6][/tooltip], lo accoglie in Inghilterra con un benvenuto tipico del suo paese. Il fatto che, a quei tempi, gli Olandesi passassero per bifolchi zotici agli occhi degli Inglesi non deve trarci in inganno, e non deve inficiare ai nostri occhi la sincerità del trasporto provato dalla signora Killigrew per il caro italiano.

    He civilly came to the Cockpit one night,
    And proffered his service to fair Madam Knight.
    Quoth she, “I intrigue with Captain Cazzo;
    Your nose in mine arse, good Signior Dildo!”

    Una notte, animato dalla cortesia, andò al Cockpit, / E offrì i suoi servigi alla bella signora Knight, / Ma lei disse: ‘Me la faccio con capitan Cazzo; / Baciatemi il culo, buon signor Dildo!’

    Ebbene sì, signori miei: alla corte inglese c’era anche chi osava sdegnare i favori del più servizievole dei nobiluomini. Mary Knight, una sciantosa da due soldi e – occasionalmente – un’amante del re, oppone un secco rifiuto alle profferte galanti del signor Dildo, preferendogli un oscuro ufficiale di ambigui meriti. Che smacco! Che oltraggio! È a partire da questo spiacevole episodio che le fortune del nostro uomo cominceranno, ahimè, a declinare inesorabilmente.

    Count Cazzo, who carries his nose very high,
    In passion he swore his rival should die;
    Then shut up himself to let the world know
    Flesh and blood could not bear it from Signior Dildo

    Il Conte Cazzo, sempre col naso all’insù, / Giurò in un eccesso di rabbia che il suo rivale doveva morire; / Quindi si ritirò dal mondo, per far sapere a tutti / Che la sua carne e il suo sangue non avrebbero tollerato il signor Dildo.

    Scure nubi si addensano sul futuro del signor Dildo. L’orgoglioso conte Cazzo si è recato a offesa il profluvio di grazie che le dame della corte hanno fatto piovere sul capo del suo rivale, e ora va meditando vendetta. La critica sta tuttora sudando sette camicie per cercare di scoprire chi si celi dietro il nome di questo irascibile cortigiano. Sarà forse imparentato con quel capitan Cazzo amante della schizzinosa Mary Knight? Forse non lo sapremo mai. Sta di fatto che la rapida ascesa sociale del signor Dildo gli ha fatto montare il sangue alla testa. Letteralmente.

    Conte di Rochester, John Wilmot.

    A rabble of pricks who were welcome before,
    Now finding the Porter denied ‘em the door,
    Maliciously waited his coming below
    And inhumanly fell on Signior Dildo.

    Nigh wearied out, the poor stranger did fly,
    And along the Pall Mall they followed full cry;
    The women, concerned, from every window
    Cried, “Oh! For heaven’s sake, save Signior Dildo!”

    Una masnada di cazzoni, prima benvenuti a corte, / Quando videro che il portiere negava loro l’ingresso, / Aspettarono pieni d’odio il suo arrivo / E si lanciarono all’attacco del signor Dildo. / Quasi stremato, il povero straniero si diede alla fuga, / E lungo la strada di Pall Mall quelli lo inseguirono con furia; / Le donne, preoccupate, da ogni finestra / Gridarono: ‘In nome del cielo, salvate il signor Dildo!’

    Oh, per l’amor del cielo, il signor Dildo! Salvate il signor Dildo! L’invidia verso il gentile italiano ha sobillato contro di lui un intero manipolo di canaglie armate fino ai denti. È dunque questa la fine? È questa la ricompensa che tocca alla virtù? Così viene ripagato un uomo che si è sempre eretto a difesa di donne e uomini soli, privi ormai d’ogni altra speranza? Così dovrà morire colui che con la sua infaticabile disponibilità ha fatto breccia nelle parti più intime… del cuore di tutti? No, miei signori. Non dubitate. Gli dèi proteggono l’innocenza, e i nemici del signor Dildo saranno forse meglio equipaggiati di lui, ma non possono competere con la sua destrezza.

    The good Lady Sandys burst into a laughter
    To see how the ballocks came wobbling after,
    And had not their weight retarded the foe,
    Indeed ‘t had gone hard with Signior Dildo.

    La buona Lady Sandys scoppiò in una gran risata / Vedendo come le canaglie ballonzolavano sui propri coglioni, / Ma se il loro peso non li avesse rallentati / Sarebbe stata dura per il signor Dildo![tooltip tip=” Lady Sandys era un’amica di Nell Gwyn, una delle più celebri amanti di Carlo II”][7][/tooltip]

    Grazie per essere stati con noi in questa nuova puntata de L’Esprit de Finesse, il faro del buon gusto in un internet fatto di sesso, porcherie e “qual è” scritti con l’apostrofo. Nella prossima puntata, su richiesta delle giovani educande del Collegio delle Fanciulle di San Piroconofobo al Monte, un’approfondita analisi poetico-stilistica di Fottiamci, anima mia, fottiamci prestodi Pietro Aretino. Non perdetevela.

     


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  • Le ombre di Ibn Dāniyāl

    Le ombre di Ibn Dāniyāl

    Nel 1261 una fiumana di poveri disgraziati si riversò in massa dalla città di Mosul al Cairo. L’inarrestabile avanzata verso la città delle armate dei Mongoli, capitanate dal nipotino di Gengis Khan, aveva già da un annetto fatto nascere nei suoi abitanti il sospetto che il destino avesse in serbo per loro qualcosa di assai poco simpatico, perciò tutti coloro che nella propria personalissima lista di cose da fare prima dei cinquant’anni non avevano contemplato l’essere sventrati da una scimitarra fecero su armi e bagagli e ripararono in Egitto. Signore del Cairo e dell’intera nazione era ai tempi il sultano Baybars della dinastia dei Mamelucchi.

    Personaggio complesso e contraddittorio, promotore delle scienze e della cultura, Baybars era anche un despota intenzionato a tenere ad ogni costo le terga ben poggiate sul trono. Per garantire stabilità alla corona cercava instancabilmente l’approvazione della frangia religiosa più estremista e conservatrice della città, quella Sunnita, mettendo il proprio potere al servizio delle sue castigate esigenze in campo morale.

    Questo spiegava come terrificanti perversioni quali l’alzare il gomito o il far bisboccia in compagnia di cinedi e mignotte – ma anche più semplicemente l’ascoltare musica lasciva o l’assistere a rappresentazioni sceniche – potessero procurare alla gente qualche grana con la giustizia[tooltip tip=”Per tutte le informazioni contenute in questo articolo, sia quelle su Ibn Dāniyāl che quelle riguardanti l’ambiente in cui visse e operò, sono debitore a quanto riportato nella prefazione alla traduzione inglese delle opere del poeta curata da Safi Mahfouz e Marvin Carlson, Theatre from Medieval Cairo: The Ibn Dāniyāl Trilogy, ed. Martin E. Segal Theatre Center Publications, New York, 2013.”][1][/tooltip].

    Fu in questo ambiente che uno dei rifugiati di Mosul, un vispo ragazzino di nome Muhammad Ibn Dāniyāl, si ritrovò a crescere. All’inizio non fu senza difficoltà che i suoi compatrioti dovettero adattarsi alla loro nuova città: il signore di Mosul aveva mostrato una ben diversa attitudine nei confronti di alcune delle più blande trasgressioni all’ortodossia religiosa. L’aria che si respirava al Cairo era sotto quest’aspetto decisamente più pesante, ma per fortuna anche in mezzo a tanta quaresima non mancavano luoghi in cui i divieti del sultano venivano aggirati senza troppi problemi.

    Uno di questi era il quartiere al-Husainiyah, dove in un impenetrabile dedalo di vicoli e botteghe trovavano ricetto tutti gli allegroni che nel resto della città non avevano vita facile: ubriaconi, puttanieri, pederasti, saltimbanchi e compagnia briscola. Non è sicuro che il giovane Ibn Dāniyāl abbia mai fatto parte di una di queste categorie, ma è sicuro che con tutte loro sia entrato in contatto nelle sue frequenti visite al quartiere.

    Frederick Arthur Brigdman, un gioco interessante, 1881
    Frederick Arthur Brigdman, un gioco interessante, 1881

    Al Cairo, il primo mestiere con cui Ibn Dāniyal tentò di portarsi a casa la pagnotta fu quello di oculista. Ci si dovette rendere conto ben presto, tuttavia, di come le sue abilità poetiche superassero di gran lunga le sue pur considerevoli competenze mediche. I versi che buttava giù tra una visita e l’altra erano dei veri piccoli capolavori, pieni di spirito e di una piccante irriverenza che non tardò a conquistargli un certo seguito presso gli intenditori; persino quelli che trovavano da ridire sul contenuto delle sue poesie – talvolta, invero, piuttosto spinto – non potevano comunque attaccarlo sul piano della forma, sempre raffinata ed elegante. Nei suoi carmi entrava di tutto, dalla medicina alla vita nei bassifondi del Cairo, e non venivano di quando in quando risparmiate frecciate satiriche allo stesso Baybars e alla sua intransigente politica interna. Fu proprio in virtù di questa sua estrema versatilità che, un giorno, un curioso personaggio avvicinò il giovane poeta con una proposta destinata a fare la sua fortuna.

    L’uomo si chiamava ‘Alī Ibn Mawlāhum e gestiva un teatrino delle ombre. Non era, bisogna dirlo, un biglietto da visita particolarmente promettente: le leggi del sultano bollavano attori e teatranti come individui perversi e immorali, senza contare il fatto che nell’Egitto del XIII secolo il teatro delle ombre stava alle arti sceniche come la pastasciutta col ketchup sta alla gastronomia. Le opere scritte per questo tipo di teatro erano quanto di più sciapo e triviale si potesse concepire, i loro autori erano scribacchini che cercavano di strappare risate al pubblico raschiando il fondo del barile della comicità.

    Di questa assai bassa forma d’intrattenimento ‘Alī aveva fatto il proprio mestiere, ma bisogna pensare che non ne fosse interamente soddisfatto. La lettura delle poesie di Ibn Dāniyāl era stata per lui una folgorazione, la prova di come anche le peggiori oscenità potessero essere portate in scena vestite d’una metrica perfetta e dei più ingegnosi artifici retorici[tooltip tip=”Ibn Dāniyāl era un grande poeta. Agli occhi di chi, come me, può leggere le sue opere solo in traduzione è inevitabile che gran parte delle arguzie, dei giochi di parole, della stessa musicalità dei suoi versi vada irrimediabilmente persa.

    gI traduttori e i commentatori della sua opera, tuttavia, insistono di continuo sull’altissima qualità poetica dei suoi lavori.”][2][/tooltip], e questa fu la ragione che lo spinse a commissionare al nostro abilissimo poeta-oculista tre opere da mettere in scena nel proprio teatrino. Quel che Ibn Dāniyāl scrisse per accontentarlo è tutto ciò che ci rimane del teatro delle ombre del medioevo islamico[tooltip tip=”I testi scritti per il teatro delle ombre rappresentavano una forma assai poco raffinata di letteratura di consumo, ed è probabile che nessuno giudicasse doveroso il tramandarli ai posteri. È dunque solo su alcune testimonianze indirette che si fondano i giudizi tendenzialmente negativi degli studiosi su questo genere letterario.”][3][/tooltip].

    Due sono le cose che colpiscono subito il moderno lettore delle opere di Ibn Dāniyāl. La prima è la loro organizzazione sul piano formale, totalmente diversa rispetto a quella cui siamo abituati. La loro trama procede per episodi, non sempre collegati tra loro in modo per noi del tutto logico, e l’interazione tra i personaggi avviene più attraverso un susseguirsi di monologhi che di dialoghi veri e propri. Frequentissima è l’inserzione di componimenti poetici (anche belli lunghini) che rallentano la trama in modo talvolta intollerabile.

    Carl Haag La danza dell'Almeh, 1870
    Carl Haag La danza dell’Almeh, 1870

    La seconda particolarità di queste opere, forse ancor più evidente della prima, è invece la loro pazzesca, assurda, grottesca volgarità. Ibn Dāniyāl era un uomo timorato di Dio. Tutte e tre le sue opere – Lo Spirito Ombra, Il meraviglioso predicatore e lo straniero, L’ammalato d’amore – si concludono con i protagonisti che rinnegano i loro passati errori e tornano in seno all’Islam con rinnovato ardore. Il problema è che la castità di questi finali è all’interno del testo ampiamente controbilanciata da una trama in cui tutto, tutto ciò che la mente di un uomo del secolo decimoterzo poteva concepire in materia di zozzerie ci viene sbattuto in faccia con imbarazzante franchezza. Facciamo qualche esempio.

    La prima opera, Lo Spirito Ombra, deriva il suo titolo dal nome del co-protagonista, un gobbo che dopo aver passato diversi anni al servizio di un eccentrico nobiluomo, il principe Coito, ha deciso di partirsene per Mosul. Quando, dopo qualche anno, risolve di far ritorno al Cairo il suo shock è immenso. Taverne, bordelli e case da gioco cadono in rovina, poiché a causa dei decreti del sultano Baybars nessuno può più osare mettervi piede. Il diavolo in persona – immagina Spirito Ombra in una lunghissima e lamentosa elegia – siede in mezzo alle macerie dei suoi antichi templi e piange sconsolato la sua perduta grandezza.

    Mentre il gobbo è immerso nelle sue elucubrazioni entra in scena il principe, il suo antico signore, il «portatore del lungo bastone», colui che può «rubare la sonnolenza al sonno», colui che ha «schiaffeggiato più facce di quanto un panettiere abbia mai fatto coi suoi impasti», colui che è «più rottinculo di quel buffone di Abū Nuwās[tooltip tip=”Celebre poeta arabo fiorito nell’VIII secolo, noto soprattutto per i suoi versi licenziosi, alcuni dei quali a tematica esplicitamente omoerotica.”][4][/tooltip], il poeta» ma è anche allo stesso tempo colui che ha «sverginato più ragazze di quanto una chiave abbia deflorato lucchetti[tooltip tip=”Le citazioni sono tratte da Ibn Dāniyāl, Op. cit., p.14. La traduzione italiana è mia, così come quella di tutte le citazioni successive.”][5][/tooltip]». Il principe Coito comincia quindi a squadernare le sue… ehm… imprese in un’interminabile filza di versi che fanno sembrare Le 120 giornate di Sodoma un bigino per educande.

    A quel punto Spirito Ombra, lieto di ritrovare in quel luogo di mestizia quel matto del suo padrone, si premura di informare il principe del fatto che un grande poeta, il panegirista di corte Mucchiodisterco, ha composto un poema in suo onore. Il poema viene recitato e il principe lo ascolta compiaciuto, ma Spirito Ombra si accorge subito che qualcosa non torna: disperando di ricevere una ricompensa per i suoi servigi, Mucchiodisterco ha infatti farcito i suoi versi di imbarazzanti doppi sensi che, mentre sembrano lodare il principe, mettono in realtà in serio dubbio la sua virilità. Il gobbo si lascia scappare una risatina, facendo insospettire il principe. Lo scambio di battute che ne deriva è qualcosa di memorabile.

    PRINCIPE COITO Cosa puoi dedurre da tutte queste metafore?
    SPIRITO OMBRA Che il grande Mucchiodisterco si è visto negare una ricompensa per la sua fatica, e pertanto la sua poesia si è riempita di amarezza e la sua retorica si è fatta spregevole e disgustosa.
    PRINCIPE COITO Mi pare evidente. Giuro che gli farò piovere sulla schiena il cielo e la terra. Poi gli strapperò un braccio e glielo infilerò nel culo.

    (The Ibn Dāniyāl Trilogy, ed. Martin E. Segal Theatre Center Publications, New York, 2013., p.27)

    Jean Leon Gerome incantatrice di serpenti, 1879
    Jean Leon Gerome incantatrice di serpenti, 1879

    È una battuta geniale. Alla prima parte della minaccia, epica e tonitruante, da vero miles gloriosus, fa seguito il cambio di registro più brusco della storia della letteratura, con un effetto comico irresistibile.

    Ancor più sboccata è forse la terza opera della trilogia, l’Ammalato d’amore. Il protagonista è stavolta un pederasta, Al-Mutayyam, che dopo aver intrecciato una relazione amorosa con un uomo di rara bruttezza decide di punto in bianco di piantarlo per il bellissimo Al-Yutayyim.

    Il bel giovane fa il prezioso, e la prima parte del testo teatrale è interamente occupata da una serie di sfide imposte da Al-Yutayyim al suo allupatissimo spasimante per potersi dimostrare degno delle sue grazie. Nel corso dell’ultima sfida, un combattimento fra tori, Al-Mutayyam ha la peggio: il suo toro viene ucciso da quello dell’imberbe fanciullo che a questo punto, stranamente, esce di scena per non ricomparirvi più.

    Ha ora inizio la seconda e ben più curiosa parte dell’opera, quella in cui il disperato Al-Mutayyam decide di consegnare ad un cuoco i resti mortali del suo toro in modo da poter offrire con essi un banchetto ai suoi amici, i frequentatori del bordello maschile più famoso della città. Costoro fanno la loro comparsa sulla scena, uscendo da dietro le quinte uno alla volta e presentandosi al pubblico. Qui, per il gran finale della sua trilogia, la fantasia di Ibn Dāniyāl si scatena.

    Ogni personaggio esce allo scoperto recitando un piccolo carme introduttivo, per poi dilungarsi con estrema dovizia di particolari nella descrizione della propria particolare perversione sessuale. Davanti agli increduli occhi del pubblico sfilano scambisti, coprofili, masochisti, in una processione che è un’enciclopedia di ogni pratica sessuale possibilmente teorizzabile da un uomo del medioevo.

    Frederick Arthur Brigdman, La regina dei briganti, 1882
    Frederick Arthur Brigdman, La regina dei briganti, 1882

    La cosa interessante è che, pur presentando questa gaia compagine come una melma umana completamente asservita al proprio peccato, Ibn Dāniyāl non dimentica mai neanche per un istante di stare scrivendo per un pubblico, quello del teatro delle ombre, che ha pagato per divertirsi. L’impegno che l’autore profonde nel caratterizzare queste figure dalla discutibile moralità si risolve in una serie di perifrasi originalissime, a tratti geniali, che mai e poi mai ci parrebbero uscite da una penna del XIII secolo. Questo, a titolo di esempio, è l’incipit del discorso pronunciato da ‘Omayr Al-Jallād, “il masturbatore”, nel presentarsi al pubblico.

    «Io sono il vostro servitore ‘Omayr Al-Jallād, l’uomo che ha messo incinta la sua mano, l’uomo dall’enorme uccello che può evocare con la fantasia immagini di bei ragazzi per poi scoparsele. Sono a tal punto un puttaniere che posso anche farmela con spettri e fantasmi. […]»

    (Ibn Dāniyāl, Op. cit., p.191)

    Si dica quel che si vuole, ma «l’uomo che ha messo incinta la sua mano»non è solo letteratura, è poesia.

    Strano tipo, il nostro Ibn Dāniyāl. Nel leggere le sue opere sarebbe fortissima la tentazione di vedere in lui una figura moderna, un uomo che in mezzo a una società bigotta e oscurantista ha trovato il coraggio di cantare a squarciagola le gioie del sesso, del vino, del proibito. Attenzione però, perché sarebbe un’idea del tutto fuorviante.

    Volete sapere come finisce, la storia dell’ammalato d’amore Al-Mutayyam? Via via che entrano in scena, gli ospiti del suo banchetto cadono ubriachi uno ad uno. Sul velo del teatrino di ‘Alī Ibn Mawlāhum le loro ombre giacciono a terra immobili, e solo Al-Mutayyam è rimasto sveglio per accogliere l’ultimo dei suoi ospiti. A bussare alla porta del bordello, per ultimo, viene l’angelo della morte. È una disperata invocazione quella che chiude l’opera, l’invocazione che un peccatore fa a Dio perché perdoni le sue colpe prima di portar via la sua anima. E Dio, benevolmente, accetta. I convitati si ridestano all’improvviso, ma se la danno a gambe terrorizzati: il passaggio del corteo funebre che accompagna al cimitero i resti mortali del povero ammalato d’amore è l’immagine sula quale si chiude finalmente il sipario.

    Ibn Dāniyāl non giustifica la condotta dei suoi personaggi. Non approva la loro lussuria, la loro ubriachezza, la loro promiscuità sessuale. Si astiene però dal condannarli. Per lui Spirito Ombra, il principe Coito, il pederasta e i loro degni compari non sono pezzi di carne già pronti per l’Inferno, bensì uomini. Uomini trasformati dai loro eccessi in figure caricaturali, è vero, ma non per questo meritevoli di anatemi e maledizioni.

    Le loro intemperanze non sono marchi d’infamia da nascondere ad ogni costo: di esse si può parlare, di esse si può ridere. In fondo – e questo è il messaggio di Ibn Dāniyāl – non siamo anche tutti noi le figure di carta di un grande teatrino delle ombre? Non viene commissionata anche a noi, al momento della nostra nascita, l’invenzione di una storia da portare in scena su un palcoscenico sontuosamente illuminato? Non dovrà un giorno anche questa trovare la sua fine, quando qualcuno soffierà sulle candele?

     


    In copertina: Jean-Léon Gérôme, L’Almeh, 1873

  • Shunga: l’arte giapponese dell’eros

    Shunga: l’arte giapponese dell’eros

    Molti conoscono le stampe giapponesi, gli Ukiyoe; forse non tutti conoscono quel determinato gruppo di stampe che si suole definire shunga, cioè delle silografie di argomento erotico, principalmente del periodo Edo (1603-1868)[tooltip tip=”Il periodo Edo prende il nome dalla vecchia denominazione di Tokyo, dove si era spostata la capitale, ed è caratterizzato da un periodo di forza della corte imperiale, che ha permesso alle arti e alla cultura di fiorire)”][1][/tooltip].

    Silografie bellissime, sono entrate a far parte della vita e della cultura materiale giapponese in maniera sorprendente. Le guardiamo, queste immagini, e c’è qualcosa che ci respinge e qualcosa che ci attrae; le pose esplicite, esplicitissime; i sessi enormi e turgidi, e quei visi chiari, puliti, espressivi: li guardiamo, e sentiamo che possiedono una forza che va oltre la scena rappresentata, una forza primigenia unita a linee sinuose, raffinate. Il sesso diviene arte, l’arte diviene sesso: c’è una determinante componente pornografica, e dentro di questa, vi è qualcosa di sublime che esonda dal semplice concetto di “nudo artistico”. L’origine della parola shunga può aiutarci: significa “pitture della primavera”, ma al tempo stesso la parola shun, “primavera” indica sia l’eros sia la tensione spirituale.

    Tensione spirituale nell’amore, anche nella sua più bassa sensualità. Le prostitute e i loro quartieri erano un topos ricorrente dell’Ukiyo-e proprio perché mostravano la bellezza di ciò che è fuggevole, della carne che subito invecchia, che subito svanisce. Eppure nell’atto sessuale, nell’assolutezza di quel momento, si giunge ad una sorta di sacralità, di unione con ciò che di più alto c’è nell’uomo. Platone, a dispetto del cosiddetto “amore platonico”, che nella vulgata sarebbe sinonimo di “amore ideale”, non sosteneva idee molto diverse.

    Anche se non un dio vero e proprio, Eros è per Platone un “grande demone”, che ha il potere di “tradurre e trasmettere agli dei le cose che giungono agli uomini, e agli uomini le cose che giungono agli dei[tooltip tip=”Platone, Simposio, a cura di Giorgio Colli, Milano, Adelphi, 2008, Introduzione”][2][/tooltip]”.

    Hokusai Shunga from the album Overlapping skirts 1820
    Hokusai Shunga from the album Overlapping skirts 1820

    Lo sfondo ideale da cui nasce lo shunga è dunque nobile, ed è questo uno dei segreti della sua raffinatezza; nondimeno lo shunga fa parte della quotidianità, e si diffonde  per un dato essenzialmente pratico: la capitale era Edo (cioè Tokyo) e questa città era abitata soprattutto da giovani proletari uomini. Non di rado venivano usate come materiale pornografico, tanto che su alcune sono rilevabili delle macchie. Si può immaginare l’entità del liquido che le ha provocate. Non solo: le stampe giapponesi, di qualsiasi genere, non erano intese come opere a sé stanti (com’è da noi in Europa) ma avevano il fine di illustrare dei libri. Sono rimaste celebri le silografie, non le opere letterarie. Ogni tanto però, per darci un’idea di com’erano, qualche editore illuminato le pubblica. Nel caso degli shunga questo era il tenore del discorso:

    L’UOMO: Non male, nevvero? Anch’io godo. Sto per esplodere. Sto per versarne una scodella intera!
    LA DONNA: Tu godi, e godo anch’io. Aaah! Vengo! Non è questo il momento di lasciarmi, ecco, stringimi più forte!

    (Utamaro, Il canto della voluttà, Milano, Abscondita, 2010, p. 28)

    Per chi è cresciuto in Europa il dialogo è del tutto destabilizzante, se non scandaloso. Tuttavia non dobbiamo considerare il testo un libro meramente pornografico.

    È sicuramente anche quello, ma c’è anche la volontà di tratteggiare un tranche de vie, la volontà di entrare nelle stanze segrete, scoprire quello che fanno tutti, ma poi per pudore non si rivela… il senso di disvelamento, di messa in risalto (si pensi ai sessi formato gigante di molte opere) dell’attività sessuale così com’è, senza commento. Che è qualcosa che ricorda anche il film di Kechiche La vita di Adele, per esempio.

    Fotogramma da L'impero dei sensi di Nagisa Oshima, 1976
    Fotogramma da L’impero dei sensi di Nagisa Oshima, 1976

    Anche i registi giapponesi hanno attinto a questi libretti per le loro opere: Ecco l’impero dei sensi di Nagisa Oshima, può essere affiancato agli shunga, soprattutto nell’idea di brutalità e forza che accompagna a tratti l’atto sessuale (portata all’estremo da Oshima): infatti da una sessualità giocosa e in fondo spensierata, gli shunga deviano spesse volte nel senso di una sessualità più complessa, a volte violenta.

    Particolari sono le premesse a questi libri, forse l’unica parte testuale davvero degna di nota, da un punto di vista letterario, come vediamo in questa, tratta dall’Uta Makura (1788), che presenta alcune stampe di Utamaro:

    Il libero corso del fiume Yoshino descrive il legame che unisce gli amanti, e quando scopre i suoi fianchi, il monte Tsukuba evoca la figura di un uomo e una donna che si danno reciprocamente piacere. Esponendo l’affascinante spettacolo dei convegni che si svolgono sul tappeto fiorito dietro il paravento delle brume primaverili, queste stampe dorate sveleranno il sapore delle voluttà cittadine. Rifacendosi l’occhio, il cuore scintillerà, e l’anima smaliziata scenderà a insediarsi alla fonte, sotto la cintura. Un agitare in aria di gambe come i roseti a perdita d’occhio di Naniwa, un ondeggiare le reni scuotendo lo scrigno delle gioie come se scendessero le pendici di Hakone. Ah! quanto più di un artista laborioso e melenso ci sa emozionare con rapido tratto di pennello il sagace pittore della lussuria! […]

    (Utamaro, Il canto della voluttà, Milano, Abscondita, 2010, p. 31)

    L’autore di queste righe si chiama, o meglio si fa chiamare, Honjo no Shitsubuka, (vale a dire “il dissoluto di Honjo”) secondo un gusto per la dissolutezza che da un lato ricorda i nostri (ben più tardi) poeti decadenti, e dall’altro ricorda proprio i libertini settecenteschi europei: infatti le stampe giapponesi nascono in un clima di graduale apertura del Giappone nei confronti dell’Europa.

    Katsushika Hokusai, Il sogno della moglie del pescatore, 1814
    Katsushika Hokusai, Il sogno della moglie del pescatore, 1814

    La pittura tradizionale giapponese, come abbiamo visto altrove, è infatti derivata dall’arte cinese, e consiste soprattutto nella produzione di opere monocrome a china, in gran parte paesaggi; gli shunga, come in generale gli ukiyo-e, sono un tipo di arte già influenzato dal contatto con l’Occidente. In origine l’ukiyo, il mondo fluttuante, era la traduzione del concetto buddista di impermanenza (anicca), che doveva essere rifiutato. Se tutto scorre, se tutto passa e se ne va, il saggio deve sapersi distaccare dal mondo, per pervenire ad un diverso stato di coscienza, cioè l’illuminazione, il satori. Invece l’indugiare sull’istante, sul momento, il lasciarsi incantare dall’impermanenza, che nei secoli precedenti sarebbe stato considerato inutile e anzi contrario alla pratica del saggio, è la cifra stilistica dell’ukiyo-e.

    Questo mostra come lo shunga sia un genere che di per sé tiene insieme l’alto e il basso: da un lato la corporeità, che vediamo in tutta la sua maestosità grottesca nella stampa di Utamaro che abbiamo scelto come copertina di questo articolo; dall’altro il subilme del piacere, la sensibilità poetica delle ciocche dei capelli, che richiamano la tradizione artistica giapponese. Da un lato un gioco artistico di virtuosismo, dall’altro una necessità pratica, sia per gli uomini, sia per le donne: già da secoli, infatti, non era raro, infatti, che alle ragazze in età da marito venissero regalati dei libretti erotici perché imparassero il sesso, e sapessero come comportarsi.

    Sensibilità poetica e routine insieme; pornografia e raffinatezza: uno sconfinamento, una fluidità che ricorda un po’ (con le dovute differenze) le forme ibride dell’arte odierna, come la pubblicità o la moda. Infatti spesso le stampe erano monocrome per puri motivi economici: eppure questa poca considerazione non ha impedito ad altissimi artisti, come Utamaro e Hokusai, di accostarsi al genere, come accadde, per esempio, nella Roma antica con i Carmina Priapea, delle poesie di carattere erotico generalmente basso e scurrile, dietro le quali probabilmente si celavano importanti autori (è stato fatto addirittura il nome di Virgilio).

    E quindi scopriamo, dietro ad una produzione estremamente diversa dalla nostra, una sorta di spirito mozartiano, di abilità nel tenere insieme alto e basso, quotidiano e sublime, volgarità e nobiltà. Un insieme che ha molto da insegnarci, e che ci mostra che in ogni cosa vi è poesia, se la sappiamo cercare.

     


    In copertina: Kitagawa Utamaro, stampa dal libro Il canto della voluttà. 1786

  • Viaggio senza fine: i mille volti del Satyricon

    Viaggio senza fine: i mille volti del Satyricon

    «Insieme a Gitone, riposi le nostre poche cose in una sacca e dopo aver rivolto una preghiera alle stelle salii sulla nave[tooltip tip=”Petronio, Satyricon, traduzione di Piero Chiara, Milano, Mondadori, 1969, p. 267″][1][/tooltip]».

    Encolpio, giovane di buona cultura, è in viaggio con i suoi amanti, il giovinetto Gitone e il più maturo Ascilto, senza una meta ben definita, sullo sfondo di una città della Magna Grecia dai tratti labirintici e piuttosto sommari. Siamo nel Satyricon di Petronio, o meglio, in ciò che ci è rimasto di quest’opera, e i suoi protagonisti sono coinvolti in una serie rocambolesca di eventi, episodi più o meno erotici, più o meno avventurosi.

    Il Satyricon è l’unica opera pervenutaci di Petronio, probabilmente uno dei consiglieri più intimi di Nerone, famoso per la sua raffinatezza e il buon gusto, al punto che lo storico Tacito lo definirà “elegantiae arbiter”, arbitro d’eleganza. Probabilmente in quanto non abbiamo una documentazione sicura che il Gaio Petronio della corte neroniana sia proprio il Petronio che scrisse il Satyricon; tuttavia alcuni elementi interni all’opera hanno consentito di collocare la sua stesura proprio durante l’epoca neroniana, tra il 54 e il 68 d.C.

    Il testo ci è giunto in frammenti: purtroppo non abbiamo idea di come fosse il progetto originario, in quanto oggi possiamo leggere soltanto quelli che erano i libri  XIV, XV e XVI, peraltro spezzettati e ulteriormente ridotti da diverse lacune. Nonostante ciò la quantità di materiale che ci è pervenuto è abbastanza ampia da farci intuire quanto grande e mastodontica dovesse essere l’opera, e abbastanza ampia da renderla una delle opere più affascinanti e magnetiche della letteratura latina.

    Anzi, proprio per il suo essere incompleto, il racconto ci appare come una sarabanda di avventure indiavolate, totalmente parossistiche e ai limiti dell’assurdo. All’inizio dell’opera il trio sfugge alle basse voglie della matrona Quartilla, finendo con il partecipare alla cena dell’opulento liberto Trimalcione e, dopo un turbolento viaggio in mare conclusosi con un naufragio, giungere a Crotone, una città dal grande e glorioso passato ormai ridotta ad un tetro covo di briganti e ladri di dote.

    Il dio Priapo, persecutore di Encolpio. Affresco, Casa dei Vettii, Pompei.
    Il dio Priapo, persecutore di Encolpio. Affresco, Casa dei Vettii, Pompei.

    Encolpio incontra tantissimi personaggi, di varia e molto spesso bassa umanità, soggetti che di volta in volta gli rubano la scena, creando dei quadri isolati e indipendenti tenuti insieme solo dalla narrazione in prima persona del protagonista.

    Per l’autore il nostro eroe diviene un novello Ulisse: è infatti un pellegrino errante, sbalzato in ogni dove, e costretto continuamente a fuggire; la sua costante ricerca di un lieto fine è sempre frustrata da circostanze avverse. Un Ulisse, però, ben particolare.

    Innanzitutto non fugge l’ira degli dei olimpici, ma più banalmente creditori, nemici, vecchie conoscenze e forse vecchi amanti. Infatti Encolpio e Gitone salgono come clandestini sulla nave che li porterà a Crotone e, per non farsi riconoscere, si radono e si tatuano come schiavi. Peccato, però, che la nave appartenga a Lica e Trifena, due personaggi che probabilemente hanno avuto un ruolo centrale nella parte del romanzo a noi perduta, e che non hanno buoni rapporti con i nostri amici. Questi hanno il presentimento di trovarsi davanti proprio a Encolpio e Gitone, ma non li riconoscono subito. Li riconosceranno solo attraverso un espediente:

    Trifena, già intimamente convinta che si trattasse di Gitone, accorse rapidamente. Anche Lica, al quale io ero più che noto, accorse. Non mi guardò né le mani né la faccia, ma subito abbassò gli occhi verso il mio affare e palpandolo con mano esperta, disse: “Salve Encolpio[tooltip tip=”Petronio, op. cit., p.287”][2][/tooltip]”.

    Il commento di Encolpio non si fa attendere: «E poi ci si meraviglia che alla balia di Ulisse dopo vent’anni sia bastata una cicatrice per identificare l’ospite![tooltip tip=”Petronio, op. cit., p. 287.”][3][/tooltip]». Ulisse viene dunque citato in uno dei momenti di maggiore tensione, ma nello stesso tempo ne risulta ridicolizzato, come del resto il povero Encolpio. E, insieme ad Ulisse, è ridicolizzato tutta la letteratura greca del passato: Encolpio, infatti, è un’anima mitomane, che si esalta e si immedesima negli eroi mitici, un po’ come farà, molto tempo più tardi, il Don Chisciotte di Cervantes.

    Affresco Pompei

    L’opera presenta quindi una duplice atmosfera: da un lato le avventure, il viaggio senza fine, le peripezie incessanti da romanzo picaresco. Dall’altro, il viaggio si veste di una carica simbolica inespressa e angosciante.

    I personaggi del Satyricon, infatti, viaggiano non solo senza alcuna meta ma anche con discontinuità. Il paesaggio nel quale si muovono è evanescente come le quinte di un teatro: i personaggi si incontrano per caso, fuggono perché assediati da problemi imminenti, vanno e vengono negli stessi luoghi, in circolo. Il viaggio quindi diviene simbolo della vita: una realtà imprevedibile e senza alcuna certezza, un crogiolo di volti e sensazioni che non concede pace ai suoi attori.

    Sintesi di questo fluire magmatico, di questa fuga da se stessi, è costituita proprio dalla cena di Trimalcione, dove tra le innumerevoli portate e i discorsi faceti si insinua la paura della morte. Il viaggio dei protagonisti, la loro vita, come i piatti che si susseguono sulla tavola del ricco liberto, è satura di inganni volti a nascondere la terribilità dell’incognito, dell’Ade, al quale è destinato pure Encolpio che non conosce il perché del suo viaggiare, sommerso dai suoi timori e dalle sue passioni.

    L’imprevedibilità del viaggio, la sua urgenza, consentono di portare con sé solo poche cose, il minimo per sopravvivere. Perseguitato, Encolpio fugge senza fine, scivola da una realtà rocambolesca all’altra, sempre spaventato eppure cupido delle novità che il suo viaggio gli presenta.

     

    Leggi anche: Il Satyricon: un labirinto dal doppio volto


    Per approfondire:

    Petronio, Satiricon, traduzione di Piero Chiara, introduzione di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1969.
    G. B. Conte, Letteratura latina – L’età imperiale, Milano, Le Monnier, 2012.
    Questo articolo è comparso sul numero 2/2015 della rivista DeSidera
  • Il blu è un colore caldo: Julie Maroh e Abdellatif Kechiche

    Il blu è un colore caldo: Julie Maroh e Abdellatif Kechiche

    Un focolare color cielo

    Inizio con lo scusarmi per il “salto di pubblicazione” che, vi sarete accorti[tooltip tip=”Oppure no… In tal caso, saltate questo paragrafo mentre la mia dignità autoriale corre in bagno a tagliarsi le vene.”][1][/tooltip], la rubrica ha subito due settimane fa, per motivi che vorrei definire “cause di forza maggiore”.

    Ora, per ributtarci nel pieno dell’azione, possiamo cominciare dalla questione del titolo lasciata sospesa l’ultima volta, poiché credo di aver trovato un compromesso che compromesso non è: d’ora in avanti, ciascun numero avrà un titolo tutto suo che esulerà dal semplice “Nome dell’opera”, e gli eventuali “titoli a mezza pagina” resteranno tali. Agli atti, più che di un compromesso assente, stiamo parlando di un capriccio arbitrario del vostro autore; un capriccio sul quale sono sicuro potrete sorvolare.

    Primo esempio di questa “verve onomastica” è quello che avete cliccato per leggere queste righe. Spero sia un link di vostro gradimento.

    Ciò detto, proseguiamo come da copione.

    Il blu è un colore caldo: quando la trasposizione filmica diventa… Sesso lesbico.

     

    Ritengo che molti di voi, a questo punto, siano completamente indifferenti al titolo, mentre il risultato della trasposizione filmica vi stia intrigando.

    Il pulce è un colore minaccioso
    Il pulce è un colore minaccioso.

    Scherzi  a  parte,  mettiamo  un  po’  d’ordine  nella  testa  di  chi  non  abbia familiarità con l’opera: la graphic novel Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, annata d’oro 2010, è la “fonte” della pellicola di Abdellatif Kechiche La vita di Adele, che nel 2013 si è aggiudicata la Palma d’oro di Cannes.

    Does it ring a bell now?[tooltip tip=”L’incapacità mia di rendere l’italiano Vi dice niente ora? in maniera meno personale mi ha spinto a usare l’equivalente inglese. Accetto suggerimenti. E animaletti di cartapesta.”][2][/tooltip]

    Per chi non lo sapesse, il film in questione, per quanto elogiato all’infinito dalla giuria, è stato oggetto di un numero non inferiore di critiche per il modo (in apparenza) tirannico in cui il regista ha voluto gestire la sua troupe. Ciò che, tuttavia, ha davvero sconvolto il mondo del cinema, è la mole inusitata  di  scene  di  sesso  esplicito  che hanno occupato una discreta fetta della pellicola  e coinvolto  le  due  protagoniste della vicenda, Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos; scene che, a dire dell’autrice della graphic novel, erano estranee alle sue vignette inchiostrate.

    Proprio il sesso è stato da molti indicato come il principale margine di differenza tra le pagine di Maroh e i fotogrammi di Kechiche. Tuttavia, se mi è concesso dire la mia (e qualcuno, a questo riguardo, ha avuto la cortesia di mettermi a disposizione una rubrica bisettimanale), è su un altro aspetto che si misurano le distanze tra l’opera del 2010 e la sua trasposizione del 2013.

    A differenziare “Il blu è un colore caldo” da “La vita di Adele” non è il tempo “a schermo” dedicato a due ragazze che si contorcono in posizioni sempre più complesse (il sesso e la nudità li aveva già tirati in ballo e raffigurati la giovane autrice francese, per quanto in via meno estrema), bensì due approcci diversissimi a una pregnante, toccante storia d’amore tra una coppia di persone.

    Julie Maroh il blu è un colore caldo

    Se il film di Kechiche indulge in simposi saffici e filosofici, nel rapporto tra arte e sessualità e nel dolore infinito delle relazioni infrante, il volume di Maroh è una storia che, per quanto profonda, ci si presenta nella sua immediatezza, in una sua ingenuità (prestatemi un’accezione positiva del termine) deliziosamente adolescenziale e infinitamente tenera, in tavole bianconere dove il blu del titolo, fedele al suo ruolo, svetta come una fiaccola, illuminando una storia i cui i personaggi sono più loquaci, rumorosi e simpatici delle figure discrete e silenti che appaiono e scompaiono nel film, che contemplano il mondo con gli occhi di chi sa di muoversi all’interno di una grande opera.

    Che dire, dunque, delle mie preferenze al riguardo?

    Confesso che il fumetto ha toccato corde più profonde di quelle raggiunte dal film,  ma  non  credo  ciò  debba  svalutare  la  pellicola.  Queste  due  opere, ruotanti attorno alla stessa vicenda, sono a mio parere da osservare e godere separatamente, affidate  a  un  giudizio  individuale.  In  ogni  caso, consiglio vivamente entrambe[tooltip tip=”Nel caso vogliate fare vostre entrambe le opere, tuttavia, comincio col prepararvi psicologicamente: la Adele del film nell’originale inchiostrato fa di nome Clémentine, Clem per gli amici. Giusto perché siate pronti.”][3][/tooltip].

    Concludo il numero odierno con una chicca che con quanto detto finora ha ben poco a che fare.

    Dovete sapere che, nel mio caso, la visione del film ha preceduto la lettura del fumetto: la prima ha avuto luogo nella penombra rassicurante di una sala di proiezione pavese destinata,  quella  sera,  a  pellicole “intellettuali”;  la  seconda  sotto  le  luci insistenti del Como-Pavia Trenord, una domenica soleggiata.

    seppia
    Il seppia è un colore erotico.

    È proprio sulla prima istanza che vorrei concentrarmi (e concentrarvi). Lasciate che classifichi,  in  maniera  rapida  ma neanche troppo approssimativa, le reazioni degli spettatori alle “scene hard” incriminate nella pellicola di Kechiche, avvalendomi a questo scopo del mio impeccabile (???!!!) francese.

    1) Le Moralist: prevalentemente over 60, impegnato/a ad argomentare l’oscenità delle vicende a schermo con la/il propria/o consorte col massimo tono di voce a sua disposizione; in assenza della/l partner, probabilmente, alcuni/e di loro sarebbero scalati/e nella categoria 2).

    2) Le Arrapeu: fascia d’età indefinita tra i 15 e i 50, i cui elementi hanno osservato con la massima attenzione l’avanzamento delle scene in corso senza proferire parola, ma limitandosi a riporre la giacca a vento sulle gambe, ovviamente per evitare di calpestarla accidentalmente.

    3) Le votre Auteur: in teoria ventenne, ma tacciabile di età indefinita, ha trascorso il tempo ridendo come in preda a un raptus isterico al pensiero che, al successivo cambio di inquadratura e al relativo cambio di posizione, le  due  amanti  sarebbero  apparse  fuori  dal  loro  appartamento, sedute gambe a penzoloni sul ramo di un albero, passandosi una sigaretta con pacata lentezza[tooltip tip=”Non chiedete. Davvero.”][4][/tooltip].

    4) Le Pierrot: età variabile, include tutti coloro che non rientrano nelle categorie sovra elencate.

    Davide, chiudo. Al prossimo giro!

  • Il Satyricon: un labirinto dal doppio volto

    Il Satyricon: un labirinto dal doppio volto

    Chi non conosce l’amore? Chi ignora le gioie di Venere?
    Chi non ama scaldarsi le membra in un tiepido letto?
    Il dotto Epicuro padre del vero lo insegna
    e afferma che questo è il solo fine di vivere[tooltip tip=”Petronio, Satyricon, traduzione di Piero Chiara, Milano, Mondadori, 1969, p. 367″][1][/tooltip].

    Encolpio, protagonista dell’unica opera pervenutaci del misterioso Petronio, maestro del buon gusto alla corte dell’imperatore Nerone, si è appena sfogato con il suo membro (sic) additandolo a causa di tutte le sue disgrazie. L’impotenza, l’incapacità di godere il fiore della giovinezza, inabissano Encolpio in una condizione drammatica: la vita non presenta più alcun piacere da cogliere, nessuna bellezza da godere.

    È un peccato che sia arrivato così poco del Satyricon: era probabilmente un romanzo picaresco, un labirinto di scene e di personaggi che possiamo leggere solo in parte, a frammenti. Ciò che ci è giunto, infatti, è costituito dai soli libri XIV, XV e XVI, che raccontano le avventure erotiche di questo Encolpio, con scene a sfondo sessuale (davvero molte e molto divertenti), che si susseguono in modo vorticoso: all’inzio la scena si apre con Encolpio che critica la retorica del suo tempo, nella scuola in cui segue le lezioni del suo maestro; subito dopo ci spostiamo in un mercato, in cui troviamo Ascilto, compagno di avventure e malefatte, che rischi a di essere violentato da un padre di famiglia; poi la scena si sposta ancora, e vediamo Encolpio amoreggiare in un lupanare con un tale Gitone, per venir sorpeso dall’amico Ascilto, gelosissimo. E così via.

    Anche a causa delle molte lacune, il Satyricon ci appare come una girandola, un fiume di discorsi, il più delle volte inutili, quasi da overlap comedy[tooltip tip=”Tipologia di commedia tipicamente hollywoodiana, nella quale l’effetto comico delle situazioni è ottenuto tramite  dialoghi sciolti e molto veloci, spesso non-sense.”][2][/tooltip]).  Encolpio e i suoi compari sono come pellegrini erranti in un universo soffocante e indefinito, dove la componente goliardica e lo sberleffo la fanno da padroni. Trascinati in una sarabanda di avventure ai limiti dell’assurdo e del parossistico, vittime e complici delle loro stesse disgrazie, cadono sempre negli stessi errori, in un buco nero che li trascina verso il basso e li inghiotte.

    Affreschi erotici di Pompei
    Affreschi erotici di Pompei.

    Se da una parte il Satyricon ci diverte, ci racconta tutta una serie di gioie della vita, la possibilità di viaggiare, o l’amore, l’altro volto, l’altra faccia, è riempire la vita con tutti questi fatti per soffocare l’angoscia che abbiamo dell’esistenza. Non è un caso che Seneca, negli stessi anni, parlasse del tempo, dell’importanza di viverlo in modo pieno, e di non finire come quelli che chiama “occupati”; come chi, cioè, riempie la propria vita di cose per fuggire la noia, il non-senso.

    Lo spazio labirintico del romanzo diviene simbolo dell’esistenza umana, di cui non si conosce l’obiettivo finale, il punto di attracco. Un caleidoscopio di personaggi e situazioni ci riempie le giornate, come quelle dei protagonisti, ma l’orizzonte è lontano, confuso nella nebbia. Riempiamo il vuoto con futili argomenti, con azioni che non portano su un nuovo sentiero, stabile e sicuro, di cui possiamo scorgere la fine.

    Il Satyricon possiede così due volti: per Petronio non bisogna sopprimere i nostri desideri (anche carnali), perché sono base fondante. fulcro delle nostre azioni: non è sempre la ragione a guidarci; anzi, il più delle volte è il cuore (o altre parti del corpo meno nobili) che impera. Se l’eros è tangibile nel romanzo, possiamo toccarlo e viverlo, così la morte è costantemente dietro le nostre spalle, ci pone un velo davanti gli occhi, una realtà non evidente ma sempre presente.

    Esempio principe di questa condizione, simbolo dell’opera petroniana, è l’episodio della Cena Trimalchionis, l’unica pervenutaci integra. Trimalcione (altro personaggio che sembra comparso dal nulla) è un liberto arricchitosi con i suoi traffici mercantili, chiacchiera con i suoi convitati, tra cui compaiono anche i nostri eroi, in un’ipocrita rincorsa alla meraviglia che sfocia nel ridicolo, in facezie e futilità.

    Affreschi erotici di Pompei
    Affreschi erotici di Pompei

    Allora, contrariamente a quanto dice il suo stesso autore, il Satyricon non è un libro leggero e candido, ma un romanzo nero, pessimista, colmo di critiche velate agli esseri umani, emblema della sua doppia esistenza.

    In questo il Satyricon è sì un classico della letteratura latina, ma anche un’opera incontrovertibilmente moderna. È un romanzo da leggere e rileggere, perché, anche a distanza di migliaia di anni, esprime la nostra vita. Nel Satyricon non c’è speranza nel futuro: tutto l’universo che esprime è senza obiettivo, e i suoi personaggi cercano di fare di tutto per dimenticarselo. Encolpio, a un certo punto, è il suo pene. Per Encolpio il suo pene è l’unica certezza, e alla fine perde pure quella.

    Tutto ciò è tragicamente simile alla nostra condizione. Anche noi riempiamo l’agenda di impegni, ci circondiamo di oggetti, eventi, piccole esperienze per non ricordare i grandi problemi di oggi, come, per esempio, il riscaldamento globale. Un problema così grande che ha tolto alle nuove generazioni la possibilità stessa di immaginare il futuro. Non è, come potrebbe sembrare, retorica: oggi sempre più giovani soffrono di problemi psicologici legati alle conseguenze dei cambiamenti climatici, che vanno sotto la definizione di eco-ansia. Come dice una frase famosa di Fredric Jameson, è più facile immaginare la fine del mondo, che non la fine di quel sistema sociale che lo sta minacciando.

    Allo stesso modo di Encolpio, ci facciamo scivolare addosso tutte le esperienze che facciamo, ma non ci diamo la possibilità di costruire una realtà differente. Sicuramente Petronio non voleva cambiare la propria realtà, probabilmente non voleva nemmeno alludere a questioni politiche e sociali nel suo romanzo, ma l’universo asfittico che crea ci riguarda molto da vicino.

     


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