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Una città si presenta con le vesti degli individui che la popolano, ma anche gli individui assumono gli abiti della città in cui vivono: un video reportage a puntate sull’arte che resiste nelle periferie di Milano.

  • Brigata Brighella: i cantastorie contemporanei

    Brigata Brighella: i cantastorie contemporanei

    «La parola chiave è “comunità”: perché il Dopolavoro Stadera non è una compagnia, ma è una comunità teatrale. E il nostro primo obiettivo all’interno del lavoro delle Brigate è creare comunità in questi quartieri, dove la crisi sanitaria ma soprattutto economica è stata e sarà molto pesante. Portiamo un po’ questo antidoto per l’anima», spiega Luigi mentre lo intervisto insieme agli altri ragazzi della Brigata Brighella. Li intervistiamo sul prato, durante il Festival delle Abilità che hanno organizzato loro stessi, un festival chiamato a distruggere confini e barriere, esteriori come interiori. Li ascoltiamo attenti mentre ci rispondono indossando delle mascherine trasparenti, pensate così per permettere alle persone sorde la lettura del labiale.

    «Ci è stato detto più volte che, gente che abitava insieme da anni nello stesso palazzo di periferia, prima non conosceva neanche il nome del vicino, e per la prima volta si è ritrovata ad assistere a uno spettacolo fianco a fianco con le altre persone del quartiere, magari a interagire, a essere tirati in mezzo. E questo è molto importante…non saremo noi a cancellare i problemi delle periferie con le nostre fiabe, ma sicuramente riusciamo a creare degli incontri».

    La Brigata Brighella è una comunità teatrale. Nasce negli ultimi giorni di “lockdown” dall’associazione teatrale Dopolavoro Stadera e dalle Brigate Volontarie per l’Emergenza sostenute da Emergency, per affiancare alla distribuzione alimentare nei cortili gli spettacoli teatrali, allo scopo di donare ai quartieri cibo per l’anima (di attori e bambini), oltre che per il corpo. Nasce dall’esigenza di tornare a fare teatro in un momento in cui i teatri erano ancora chiusi e la socialità limitata, dalla necessità di fare qualcosa di utile in un momento di crisi sanitaria, economica, umana. Come svela già il nome prescelto:

    «Brigata Brighella perché volevamo un nome gioioso, che portasse un antidoto di allegria all’interno della distribuzione alimentare che non è un momento felice in tutto e per tutto, perché quando c’è, vuol dire che c’è un’esigenza di pacchi alimentari. E perché è la maschera lombarda per eccellenza e noi siamo molti attaccati al territorio. E poi qualcheduno che fa il brighella è anche qualcheduno che fa delle monellerie e ci siamo riconosciuti subito: appena lo pronunci fa venire un sorriso», interviene Vlad.

    Brigata Brighella

    Le incursioni della Brighella avvengono tendenzialmente nei cortili delle case popolari, quasi sempre tra i quartieri periferici di Milano, precedute dalla distribuzione dei pacchi alimentari da parte delle Brigate di zona: a cui segue quella di fiabe, e talvolta quella dolciaria «a volte diamo ai bambini anche dei dolci un po’ come una befana sparsa tutto l’anno, visto l’anno particolare», continua scherzoso.

    Quando pensiamo alla figura del cantastorie il pensiero scivola tra i fasti di una cittadella medievale, con i suoi musici di corte e ambulanti. I suoi progenitori sono il giullare, artista di strada che cantava le chansons dei Trovatori (poeti provenzali del 12° e 13° secolo) ma anche componimenti propri; e il menestrello, giullare residente in pianta stabile nelle corti dei nobili (dal latino “minister”, “servitore”). Poco pensiamo alle nostre metropoli, che nel varco di una differenza incolmabile sembrano tracciare un immaginario assolutamente altro.

    Finché non ci imbattiamo in artisti come quelli della Brigata Brighella, la cui semplicità – che quasi disarma – rievoca scenari poetici lontani e vicini, e li unisce in un’arte, quella del teatro che, lunare, è di un’essenzialità necessaria. Una tuta blu, un paio di microfoni. Niente palchi o costumi costosi, in un annullamento delle differenze tra attori e spettatori, che calati nella scena contribuiscono a plasmarla. Fili vengono intanto riannodati, distanze vengono accorciate: come quelle tra centro e periferia.

    «Noi come Dopolavoro Stadera siamo nati nel centro sociale Zam, e il primo laboratorio che abbiamo fatto era proprio sul tema della periferia. La periferia come luogo in cui accadono cose straordinarie, che magari non accadrebbero al centro. La periferia come spazio da vivere insieme, come quartiere in cui incontrarsi, cosa che magari al centro non succede più. Ora di nuovo in periferia, a Corvetto, stiamo aprendo un altro laboratorio e lì si parlerà di distanze: in quanti modi posso essere distante? Perché? A distanza ci sono il cielo, le stelle, il mare. Siamo profondamente connessi con la periferia», evocativo, Tommaso.

    Brigata Brighella

    Cose straordinarie come le Fiabe d’Emergenza, come le hanno ribattezzate i brighelli. Le fiabe si ispirano alla raccolta di Calvino soltanto come moto propulsore per scrivere fiabe contemporanee originali, in una comprensione autentica di cosa significa prendere a prestito un modello: «Vlad, che è il nostro drammaturgo e regista di riferimento, ci ha dato questa indicazione: tieni ciò che ti risuona di più e usala per raccontare qualcosa che ti sta a cuore. Per esempio, la fiaba che mi ha assegnato, “il mondo dei gatti”, è del tutto diversa dalla mia, ma in entrambe c’è questo mondo sotterraneo di gatti operosi», racconta divertita Alice.

    Che prosegue: «l’idea è stata quella di usarlo come espediente per esprimere un’urgenza, un messaggio che ci premeva di condividere con i bambini, con gli adulti, e idealmente con il mondo intero. I temi riguardano la città che noi viviamo, l’ecologia, l’ integrazione… tutti temi cari al Dopolavoro Stadera».

    Per non creare assembramenti i ragazzi della Brighella hanno seguito un consiglio scenico di Paolo Rossi, che entusiasta del progetto ha deciso nel frattempo di seguirli e affiancarli nelle prove di recitazione: la formula è quella di due figure, di cui una è il narratore della fiaba, e l’altro è “l’imbonitore” – una sorta di presentatore che fa da anello di congiunzione tra il narratore e il pubblico. Così a incantare sul palco improvvisato c’è il primo cantastorie con un microfono a filo con l’asta, fermo, mentre il secondo cantore contemporaneo si aggira tra il pubblico con cui spesso interagisce (dando per esempio il microfono ai bambini).

    «E poi essendo la struttura generale dei nostri spettacoli improntata sul “Teatro all’Improvviso”, spesso le fiabe hanno subito delle modifiche man mano che venivano inscenate a contatto con il pubblico, con i bambini o gli abitanti delle case popolari…in base alle urgenze che sentivamo venire da loro. Adesso, a volte, ci capita di riguardare il copione scritto all’inizio e notiamo quante cose sono cambiate, ma è giusto così; le fiabe plasmate nel rapporto con il pubblico acquistano uno spirito di verità», aggiunge Sathya.

    E Sathya apre così un’altra fenditura, uno squarcio temporale che ci riporta alle origini del teatro sociale, con tutta la sua carica eversiva. Nel Secondo Dopoguerra infatti Mario Apollonio rinuncia alla direzione del Piccolo Teatro di Milano, contrapponendosi a una concezione del teatro elitaria. Intanto in giro per il mondo germoglia il cosiddetto “teatro d’avanguardia” che nella mutevolezza delle diverse forme ha come fulcro l’opposizione a ogni forma performativa repressiva e ideologizzata, e la proposta di un teatro che fosse vero e proprio atto sociale.

    Brigata Brighella 4

    Nel 1968 a rappresentare questo nuovo humus esce anche il manifesto “Per un Teatro Povero”, raccolta di scritti di Jerzy Grotowski. Grotowski, regista teatrale polacco, nei suoi saggi ripensa radicalmente la messa in scena e il ruolo dell’attore. Rigetta infatti la divisione netta tra scena e pubblico nello spazio teatrale ed evidenzia come sia necessario un processo di sfrondamento del superfluo anche per la scenografia e i costumi.

    È così che gli attori da lui diretti si presentano in scena coperti da lenzuoli o vestiti di juta. Ma questa apparente povertà è in realtà assai ricca di spirito: è la presenza scenica in se stessa il motore del gesto artistico. Il nocciolo duro dell’azione risiede in quel dialogo magico che si instaura tra gli attori, che sono alla ricerca di una resa essenziale e per questo autentica degli impulsi umani in tutta la loro contraddittorietà, e il pubblico chiamato a rispondere riflettendo le emozioni messe in campo.

    Il teatro per Grotowski è qualcosa “che si fa” tra l’attore e lo spettatore, un gioco rituale che sfrutta la tensione. E la comunità è sia punto di partenza che di arrivo del lavoro teatrale, che mira ad avere una funzione pedagogica sia per l’animo di chi recita che per quello di chi assiste alla rappresentazione. Il teatro è in questa concezione un’arte della vita, che nelle sue differenti stratificazioni si occupa di curare, formare, scuotere.

    E così la Brigata Brighella, nata da poco, venuta dopo i gruppi sorti anche in Italia e animati da giovani che si proponevano di lavorare nelle strade, nelle periferie, nelle situazioni di margine sociale. Eppure contemporanea a quei gruppi, a quei giovani, negli stessi occhi dipinti di sogno.

    Brigata Brighella 5

    Oggi la Brighella sta raggiungendo anche altri luoghi e città, grazie alla collaborazione e alla rete creatasi con le altre associazioni, come il Centro Giovani di Ponte Lambro, lo Spazio Baluardo di Quarto Oggiaro, Radio Aut a Pavia. «Siamo stati anche a Vercelli, per esempio. Vercelli è la città dove sono nata io, dove oggi i centri sociali sono poco frequentati. Perché come sta succedendo in molte città un classismo spiccato non sta risolvendo i problemi, li sta solo spingendo sempre più verso l’esterno, isolando le persone. Sarebbe invece bello riuscire a portare anche altrove questo modello», interviene Alice.

    E mentre lasciamo la Brigata Brighella anche noi ci facciamo trasportare in un’atmosfera sognante dai loro racconti, come quello di Irene: «A proposito di comunità e ricordi un giorno eravamo in un cortile di zona Quattro e alla fine delle nostre fiabe abbiamo dato un microfono a una bambina. Lei si è messa a cantare una canzone davanti a tutto il cortile, con noi che ballavamo, gli altri bambini che ballavano e cantavano…e io mi sono ritrovata con i peli delle braccia ritti dall’emozione. Ho pensato: questa è la comunità che voglio contribuire a creare».


    Autrice: Valentina Nicole Savino
    Regia e riprese: Davide Cipolat, Luca Rigon
    Interviste: Valentina Nicole Savino, 
    Montaggio: Letizia Tropiano
    Grafiche: Claudia Antini

    Fonti:

    Ogni settimana, nel teatro-cortile, va in scena la Brigata Brighella, MilanoSud, 25 giugno 2020
    A Vercelli risate a domicilio con le “fiabe di emergenza” della Brigata Brighella, La Stampa, 22 luglio 2020
    Brigata Brighella: Fiabe d’emergenza, Planbee.bz
    Domani il 5° Charity Tour stavolta con la Brigata Brighella: quante sorprese per i bambini, Tg Vercelli, 23 luglio 2020
    La Brigata Brighella reinventa il teatro solidale nei cortili delle case dove l’emergenza continua, Aula 41, 11 giugno 2020
    Charity Tour: aiuti alimentari e le storie della “Brigata Brighella”, infoVercelli24, 21 luglio 2020
    Milano, il comico Paolo Rossi allena gli attori volontari che portano una risata dopo il coronavirus, La Repubblica,
    Lo strano incontro fra i Brighella e Paolo Rossi: «Ora faccio parte dell’allegra brigata», MiTomorrow, 11 Giugno 2020
    La risata come bene di prima necessità: la Brigata Brighella porta il teatro nei quartieri popolari di Milano, The Walk of Fame, 7 giugno 2020
    Pagina Facebook della Brigata Brighella

    cantastorie:
    Enciclopedia Treccani, Cantastorie
    Angelo Clemente, Cuntastorie e Cantastorie, Agrigentum
    Massimo J Monaco, Cantastorie? Ma che storia è questa e poi chi era costui?

    Teatro povero/teatro sociale:
    Jerzky Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, 1970
    Eleonora Costantini, Per un teatro povero, G. Grotowski sintesi, Academia.edu
    Il teatro povero di Grotowski, Albertomassazza’s Blog, 9 novembre 2013
    La piccola rivoluzione del teatro sociale, Ateatro, 21 marzo 2017
    Vittoria Perico, Le origini del teatro sociale, Tesionline

  • L’Associazione Furfari e le sue radici Hip Hop: fiori di periferia

    L’Associazione Furfari e le sue radici Hip Hop: fiori di periferia

    Questa la dedico ai ragazzi del quartiere,
    A chi è cresciuto in mezzo a tutto ciò che non vorreste mai vedere,
    Fra l’esercito, i caramba, la locale e le pantere,
    Coi padri coi tatuaggi e le storie di galere.

    “Romanzo Popolare”, Lorenzo Furfari in arte Rollo

    L’Associazione Furfari nasce nel 2012 in memoria di Lorenzo Furfari, giovane rapper venuto a mancare precocemente. Fondata dai suoi genitori per portarne avanti le idee e i sogni, ha subito aggregato attorno a sé gli amici di Lorenzo, come tanti altri ragazzi legati dalla passione per l’Hip Hop e il Rap. «L’Associazione Lorenzo Furfari per la promozione della cultura musicale giovanile, nasce per tenere vivo l’ideale di Lorenzo, giovane rapper milanese scomparso di recente, di dare voce ai sogni, ai bisogni, ma anche ai disagi dei giovani attraverso l’espressione musicale», leggiamo sul suo sito.

    Ha cercato quindi casa, e l’ha trovata all’ArciCorvetto; ricavandosi uno spazio all’interno del campo sportivo dove i ragazzi arrivano per giocare a Basket. E lì nel 2013, grazie all’impegno costante dei ragazzi, è nato anche il Rap B Studio (B era uno dei due nomi da rapper di Lorenzo): studio di registrazione vero e proprio, che i ragazzi hanno dotato di tutta la strumentazione necessaria per far musica.

    Intanto, con il tempo, le pareti esterne si sono abbellite di graffiti e quelle interne delle voci dei ragazzini che hanno iniziato a frequentarlo regolarmente. Così è nato uno spazio altro, un’isola dove reinventare le regole del gioco. Tra quelle strade vicino al Mercato Comunale, da anni crocevia di etnie, speranze e vissuti differenti.

    Associazione Furfari Rap Ivan Tresoldi

    A gestire lo spazio sono Simone Gila, amico di Lorenzo e co-fondatore dell’associazione, e Atish Meetoo, ragazzo appassionato di musica e Rap che ha scovato il posto grazie a Internet. Ci raccontano che registrare al Rap B Studio costa poco, pochissimo: la prima registrazione è gratuita, poi costa 5 euro all’ora per i minorenni e 10 euro l’ora per i maggiorenni. Prezzi in linea con la filosofia dell’associazione, assieme al luogo prescelto: «l’idea quando è nata l’associazione era quella di aprire lo studio di registrazione in una zona di periferia per far in modo che questo progetto si sposasse meglio alla causa: c’è il ragazzino di 14 anni che magari non ha soldi e non ha stimoli nel suo quartiere; noi gli offriamo l’opportunità di venire a registrare con poco», spiega Simone.

    Intento che ci rimanda a una storia insieme lontana e vicina, a una leggenda che profuma sensualmente di verità. La sera del 13 luglio del 1977, infatti, New York rimane al buio: un blackout colpisce tutta la città. Migliaia di persone si riversano nei negozi e nei centri commerciali, e tra queste ci sono diversi aspiranti Dj. Iniziano a rubare nei negozi di musica elettronica mixer, giradischi, casse, cuffie, microfoni. Attrezzature di cui avevano bisogno, ma che non potevano permettersi abituati a una vita di ristrettezze.

    Prima di allora avevano soltanto osservato, studiato, e ripetuto mentalmente le mosse: ora potevano anche agire, e far nascere un genere che significa letteralmente questo. Nello slang newyorkese di quegli anni, infatti, “Hip Hop” significa conoscere per agire, da “to hip” = to know e “to hop” = to do. Come testimonia il Dj Grandmaster Caz, uno dei pionieri dell’Hip Hop, che afferma: «si potevano vedere le differenze tra prima il blackout e dopo».

    È soltanto una traccia, certo: ma un filo sottile lega le periferie del Bronx a quelle parigine, italiane, e a ogni vissuto di marginalità, piccolo o grande che sia. Basta illuminare un rovo e poi un altro: le storie degli inizi sono molteplici e ramificate, ci si insinua frammezzo un passo alla volta.

    «Iniziare a registrare oggi è più semplice per i ragazzi: basta una chiavetta usb con un “bit” e il ragazzo può registrare quello che ha scritto. Lo indirizziamo così in un percorso di insegnamento.», continua Simone.

    Un’altra ramificazione che ha contribuito a far nascere il movimento Hip Hop è segnata dalla data 11 agosto 1973. Una ragazzina che abita nel Bronx (uno dei cinque distretti amministrativi di New York, famoso per la sua storia di povertà e microcriminalità) organizza una festa in casa e fa esibire suo fratello, Clive Campbell – in arte Dj Kool Herc – in veste di Dj. Dj Kool ha con sé un rudimentale soundsystem formato da due giradischi, un doppio amplificatore con due canali per chitarra (usato come mixer) e degli altoparlanti. A un certo punto fa qualcosa di fino ad allora inusitato: mette sui piatti due copie dello stesso disco dal quale ha selezionato un “break” di batteria di una certa durata, e quando un disco raggiunge la fine del break, Herc fa partire l’altro dall’inizio dello stesso giro. Grazie a questa nuova tecnica è in grado di mettere in loop le sezioni più ritmiche dei dischi, facendo scatenare nel ballo il suo pubblico: tra cui due amici Dj presenti alla serata, Afrika Bambaataa e Grandmaster Flash, che ammirati osservano la scena.

    È così che l’anno dopo, nel 1974 si dispiega il sentiero principale. I tre infatti, insieme ad altri amici musicisti, riescono a far rimbombare man mano l’eco di un movimento nascente, che risuona attingendo dalla linfa vitale di quei quartieri poveri e degradati. Una linfa nascosta nella parte più giovane della popolazione, pronta a pulsare insieme a quel nuovo sound. Nasce così il movimento Hip Hop, diviso in quattro discipline: il B- boying o Breakdance, legata al ballo, il Writing, legata alla pittura e all’arte calligrafica, il Djing e il Mcing (o Rap), legate alla produzione musicale (a cui si aggiungeranno nel tempo la Beatbox e lo Street-wear). Uno spettro intero, completo; una visione del mondo compendiata in quei segni apparentemente sporchi, in quei remixaggi che fondono culture differenti. Una purezza feroce e cruda che nasce dalla fusione, dall’incontro.

    Dall’incontro di tutte le altre storie individuali, sgorgate da un sottosuolo di ferite fisiche e psicologiche. Negli anni ‘70 il Bronx è infatti zona di vera e propria guerriglia, che fa crescere i ragazzini del quartiere come fiori insani, costretti a scegliere tra il diniego delle loro radici avvelenate, e l’annichilimento negli scontri armati tra gang contrapposte. Fino a che non si delinea la possibilità di reinventare, di contornare una nuova linea d’orizzonte. E’ così che quei ragazzini, scostando il terriccio secco e intorpidito che guasta la loro linfa vitale, riescono a tramutare le gang in crew e gli scontri armati in gare da ballo tra B – boys e battle di freestyle in cui gli MC (Master of Ceremonies) si sfidano a colpi di rime. Nascono così anche i “block party”, vere e proprie feste e competizioni insieme.

    L’Hip Hop nasce da una tregua, da una sospensione densa di ricominciamenti. E dall’incontro con la differenza: «l’hip hop è da considerarsi come una consapevole cultura internazionale che fornisce a ogni razza, tribù, religione e popolo una base per la comunicazione delle loro migliori idee e dei loro migliori valori», si legge nella “Hip Hop Declaration of Peace” presentata dall’associazione Zulu Nation (fondata dallo stesso Afrika Bambaataa) all’ONU.

    Progressivamente questo genere riesce a uscire dal Bronx per raggiungere Manhattan prima, e le altre grandi città americane – soprattutto Los Angeles – , poi. Quindi sconfina: la sua influenza è fortissima in Francia (dove la cultura Hip Hop si diffonde soprattutto grazie a programmi TV come “Hip-Hop” sul canale TF1, nato nel 1984), che diventa la seconda patria del movimento. In Italia il primo contatto con il movimento risale agli anni ‘80, grazie al primo tour mondiale di Afrika Bambaataa, a brani come Buffalo Gals di Malcom Mclaren e a film di culto come “Wild Style” e “Beat Street”.

    E presto viene raccolto da centinaia di breakers e writers che si riuniscono nelle piazze delle città sfidandosi a colpi di ballo e bombolette, e in punti strategici come il “muretto” in Corsia dei Servi a Milano, la Galleria Colonna a Roma, i Marmi del Teatro Regio a Torino. E arriva, oggi, fino alla sala di registrazione dell’Associazione Furfari a Corvetto.

    «Il Rap e la Trap sono espressione della periferia. Non rappresentano per forza la strada nel suo aspetto più crudo ma la periferia è comunque vissuta come emarginazione. Molti ragazzi che vengono a registrare da Corvetto, Quarto Oggiaro, Romolo, Bonola, Loreto hanno rappresentato questa voce della periferia. E la musica può essere un grosso strumento di emancipazione: prima di tutto è un mezzo per conoscere tanti ragazzi che vivono la tua stessa situazione e hanno bisogno di esprimere qualcosa. In secondo luogo è motivo di aggregazione sociale e di emancipazione personale per il ragazzo che vuole registrare, che vive la musica come una possibilità», ascoltiamo attenti Simone.

    Associazione Furfari

    Generazioni diverse, fratture spazio-temporali lontane, eppure un humus comune. E un legame stretto, strettissimo, con i luoghi: «Lorenzo Furfari, Rollo nell’hip hop, era un giovane rapper profondamente legato alla sua città e al suo quartiere, la zona otto di Milano, periferia urbana dalle molte anime e dalle molte contraddizioni, così come esprime nella sua ultima canzone ‘Romanzo Popolare’», leggiamo ancora sul sito. Legame materializzatosi anche tra le pareti dell’associazione:

    «La mia soddisfazione maggiore è stata vedere che alcuni ragazzi si sono avvicinati allo studio di registrazione quando avevano 14 anni – ragazzi anche che vengono da situazioni difficili – e grazie all’associazione hanno trovato una voce di sfogo prima, venendo a registrare e cantare; e poi un vero e proprio luogo di ritrovo e cultura. Più di un ragazzo in questi anni è venuto a dirmi che per lui questo studio era una seconda casa, o anche semplicemente un luogo in cui cazzeggiare ma in maniera sana: divertendosi, scrivendo, conoscendo nuovi amici. Molti ragazzi si sono legati al luogo e a ciò che rappresenta», conclude.

    “To rap” nell’etimologia significa “parlare, raccontare”, ma anche “colpire qualcosa d’improvviso” e compendia bene le due facce del movimento: in grado di suturare e rigenerare; ma anche di scuotere, risvegliare. Grazie all’immediatezza dell’oralità e alle sue ritmiche e metriche che lo rendono (malgrado la critica del Bel Paese sia ancora esigua a riguardo) un vero e proprio genere letterario oltre che musicale.

    E noi, colpiti, lasciamo i ragazzi dell’Associazione Furfari mentre rappano davanti a noi le loro note, muovendo a ritmo la testa.


    Autrice: Valentina Nicole Savino
    Regia e riprese: Davide Cipolat
    Interviste: Valentina Nicole Savino, Barbara Venneri
    Montaggio: Gabriele Tropiano
    Grafiche: Claudia Antini

    Fonti:
    La storia dell’hip hop è cominciata così, Il Post, 11 agosto 2017
    Rap & Hip-Hop. Sappiamo davvero il significato di questi termini?, Nam
    La nascita del rap e dell’hip hop: dalle origini ai giorni nostri, The Jambo, 7 luglio 2018
    La storia dell’hip-hop, musica, cultura e società, School of Art
    La storia dell’hip hop italiano, Simone Beretta, Hip Hop Production, 25 aprile 2018
    La geografia letteraria del rap in Italia, Mariaelena Tucci, Pagina della Fondazione Di Vagno,  17 ottobre 2018
    Il rap italiano: tra immigrazione, periferie e regionalismi, Maria Carola Leone, Quotidian Post, 27 febbraio 2018
    ‘Dio è scritto sui muri’: i giovani delle periferie di Milano si raccontano, Valerio Millefoglie. Rolling Stone, 25 marzo 2017
    Laura Piredda, Rap e periferia, rivendicazione sociale in Francia. Docity.
    Associazione Lorenzo Furfari, biografia di Lorenzo Furfari
    Associazione Lorenzo Furfari, Chi siamo

  • Finestre Aperte. Cascinet: per una filosofia della cura

    Finestre Aperte. Cascinet: per una filosofia della cura

    Nel 2012 alcuni ragazzi e ragazze si imbattono in una cascina dall’aria un po’ rustica, insinuata – come a voler occultare il proprio segreto – in uno dei rari spazi verdi a Milano: nel quartiere Cavriano, tra Ortica e Forlanini. Incuriositi dal loro rinvenimento, indagano la natura del luogo; ed è così che conoscono alcuni anziani contadini che fino al 2010 avevano in loco un’azienda agricola che vendeva ai mercati di via Lombroso i propri prodotti. Tra di loro c’è anche Mario, ottuagenario: l’ultimo abitante della cascina, che si ostina a viverci nonostante la cascina non abbia il riscaldamento. I contadini raccontano loro che il posto, essendo proprietà del Comune di Milano, è destinato a venire dismesso a causa della sua veneranda età.

    I ragazzi iniziano a guardarsi meglio attorno, a misurare con i loro passi la storia che hanno appena ascoltato, e pensano: pensano che in fondo è un peccato. E mossi internamente da un interesse inarrestabile, nelle settimane successive iniziano a frequentare la cascina e a portare il proprio contributo, facendo germogliare le prime feste e attività e aiutando a rigenerare gli orti. Intanto le loro riflessioni si addensano sempre più, fino a che non convergono fitte in una decisione: costituiranno un’associazione prendendosi in carico il posto. Ed è così che, dopo una manifestazione di interesse presentata al Comune di Milano, nasce Cascinet APS, a fare da collante a ciò che resta, come la casa di Mario che lui non sarà più costretto a lasciare, e ciò che ha da venire, come le attività artistiche e culturali a cui daranno vita i ragazzi e le ragazze.

    Oggi l’associazione infatti, oltre ad aver restituito alla cascina le sue funzionalità agricole (ne è nata infatti l’Impresa Sociale Agricola, i cui terreni comprendono anche 8 ettari all’interno del parco della Vettabbia, in zona Corvetto) conta dai 350 ai 400 nuovi soci all’anno e ha realizzato in pieno quelle che erano le speranze espresse nel manifesto redatto nel gennaio 2013.

    Così infatti leggiamo:

    «Oltre ad essere mossi da una visione, siamo motivati anche da un bisogno: tornare a decidere riguardo la nostra città. Non limitarci ad essere consumatori ed elettori, ma produttori e cittadini attivi in grado di trasformare concretamente una porzione di realtà. [..] Cascinet analizza bisogni, problematiche, punti di forza e di debolezza della realtà che incontra e agisce in modo inclusivo, attraverso l’agricoltura, l’arte, la cucina e l’ospitalità per realizzare un modello di vita economico/sociale sostenibile».

    Cascinet
    Cascinet

    Mossa dall’intento ambizioso di restituire alla cittadinanza un modello virtuoso in grado di unire ecosostenibilità, memoria storica (la cascina Sant’Ambrogio ha infatti alle spalle una storia antichissima di rinascite e trasformazioni, il cui inizio si fa risalire all’insediamento delle monache del Monastero di Santa Radegonda, intorno al 1100), arte e cultura, Cascinet ha saputo dare vita a una vera e propria filosofia della cura, di cui possiamo ritrovare immediatamente le tracce in alcuni estratti del Patto Etico condiviso anche sul sito dell’associazione.

    «CasciNet è promotrice di una CULTURA intesa come espressione autentica, armonica e integrale di tutte le dimensioni dell’umano. Un ambiente quindi dove vengono espressi e riconnessi i differenti ambiti necessari alla vita: nutrire, riposare, lavorare, coltivare, celebrare la bellezza, socializzare, inventare, meditare e pensare. Generare cultura per noi significa riconnettere in modo sinergico persone, pratiche, patrimoni storico-ambientali ed esercizi di innovazione sognante».

    E ha saputo estendere questa filosofia a tutti gli abitanti della cascina, proponendo attività trasversali in grado di raccogliere e unire persone di differenti etnie, classi sociali, età: le attività spaziano da quelle propriamente agricole, alle serate di musica elettronica animate in estate dai giocolieri, all’Asilo nel bosco riservato ai più piccoli, alle cene sociali del venerdì sera, alle attività spirituali incentrate sullo yoga e la preghiera, ad altro ancora; come in una rappresentazione dinamica della realtà in grado di tenere conto della multidimensionalità dell’umano con le sue relazioni.

    Legami sprigionati da Cascinet e avvicinati, evidenziati nei loro fili luminescenti, anche grazie alla nostra intervista a Pietro Porro e Nicolò Gazzola, due tra i soci più attivi. Pietro e Nicolò ci guidano all’interno della cascina: la prima tappa è la Food Forest, una foresta “commestibile”, e all’interno c’è di tutto, dai vegetali agli alberi da frutto, a delle vere e proprie piante da foresta, a una vasta varietà di insetti e piccoli animaletti che alimentano l’ecosistema.

    Cascinet
    Pietro Porro

    «La Food Forest si sviluppa attraverso un concetto di mimesi, cerchiamo infatti di riprodurre i meccanismi che avvengono nel bosco, nell’ecosistema madre, per coltivare ortaggi, fiori, frutti, e fibre, ci sono perciò grande diversità e soprattutto una fitta stratificazione; vedete il gelso con sotto i girasoli, con sotto i pomodori, le patate, le fave, in presenza di un pero, delle cipolle, della ruta, del timo, della lavanda… tutto questo in piccoli spazi densamente coltivati», ci spiega Pietro.

    Questa funzionalità è espressa dal concetto di permacultura: sviluppato da Bill Mollison e David Holmgren negli anni Settanta, quest’idea sintetica indica lo sviluppo di tecniche volte a favorire una coltivazione etica e rinnovabile dei terreni, priva dell’uso di diserbanti chimici, dotata di un sistema di riutilizzo dei materiali, e in grado di autosussistere e svilupparsi grazie al suo stesso ecosistema interno. Ed è così che, come ci spiegano i ragazzi stessi, confluiscono verso uno stesso scopo i piccoli lombrichi volti a creare l’humus, il cippato (materiale residuo che viene in città normalmente buttato dopo la potatura degli alberi, che introdotto invece in cascina diviene risorsa multifunzionale atta ad aumentare la fertilità del suolo e a migliorare l’efficienza idrica), il letame animale e il compost (miscela ottenuta con un processo di fermentazione di rifiuti organici).

    «L’idea è – mano a mano che l’ecosistema si evolve – quella di arrivare a una manutenzione sempre più lieve, sempre più bassa e calcolata, e di lasciare sempre più spazio alla natura, da cui abbiamo solo copiato», chiude Pietro, mentre ci svela che la cascina sta persino progettando un sistema sperimentale ribattezzato “termocompost”, che sarà in grado di scaldare parzialmente la cascina con il calore naturale del cippato.

    La seconda tappa sono le arnie del progetto “Apinet”, apiario condiviso nato nel 2016 e arrivato oggi a ospitare una decina di famiglie di api dalle cinque iniziali, che produce 80 kg di miele all’anno. Troviamo qui i ragazzi con le tute protettive alle prese con tante piccole api intelligenti: «non vi spaventate, vedrete degli astronauti», scherza Nicolò. Ci fa assaggiare il miele e ci mostra le arnie artigianali che sono tutte diverse, costruite con tecniche e materiali differenti: da quella africana a quella ricavata da due tronchi d’albero sovrapposti a quella innestata in un bugno, tronco cavo all’interno; diversi di conseguenza al loro interno anche i sistemi di aerazione.

    Cascinet api
    Uno dei collaboratori del progetto Apinet

    Arriviamo all’area di “Terra Chiama Milano”: sono gli orti condivisi della cascina, un progetto di orti sinergici dove gli appezzamenti di terra sono gestiti in maniera indipendente dai soci CasciNet e cittadini di Milano, e dove ognuno può dar spazio alle proprie creazioni. Come chi ha ricreato per sé una zona di benessere e relax, attorniata da tronchi dipinti e un forno tandoori tipico indiano, di terra cruda (nell’ambito del progetto europeo Ruz, si svolge tra gli altri a Cascinet il laboratorio di lavorazione di terra cruda).

    Infine accostiamo la “zona Healing”, area utilizzata durante i festival per ricreare delle piccole oasi di pace – per esempio montando tende adibite a trattamenti e massaggi – e dove si sta apprestando il progetto di una piscina fitodepurata, ma che funge soprattutto da punto di incontro spirituale (anche se non unico) della cascina: «ogni tanto arriva qui anche uno sciamano – pare sia l’ultimo discendente delle tribù degli indiani d’America – e viene svolto regolarmente il rito del Temazcal sotto quella capanna sudatoria, dove vengono scaldati questi sassi con l’acqua e si intonano dei canti, delle litanie… si fanno questi riti che durano serate intere». Finisce pian piano così il nostro tour all’interno della cascina, ma non la meraviglia che si riposa incastonata nei nostri occhi ancora per un po’.

    Dalle cene sociali del venerdì (dove ognuno può mangiare con una piccola donazione libera), ai concerti, all’Asilo nel bosco dove l’associazione “Naturiamo” fa giocare i bambini all’aperto all’insegna di una pedagogia all’avanguardia, al progetto “Gruppo Absidiani”, che gestisce l’abside risalente al 1200, e lo fa rinascere quotidianamente grazie alle pratiche di meditazione, al progetto Consolida, che ospita una madre Rom e i suoi tre bambini, tutto infatti a Cascinet sembra parlare con una stessa voce corale.

    Quella voce che si rispecchia nelle parole di Luigina Mortari, quando individua le quattro posture etiche che qualificano la “cura”: la responsabilità, attivata da empatia e compassione; la generosità, che colloca i gesti di cura fuori da una logica di scambio, e piuttosto entro una logica di gratuità; il rispetto, frutto della consapevolezza che la cura avviene all’interno di una relazione asimmetrica; il coraggio, come capacità di affrontare i conflitti. Mortari definisce la cura, sulla scia di un’antropologia che ricalca il linguaggio heideggeriano, «il primo e fondamentale esistenziale», considerandola risposta autentica alla struttura interna del mondo umano, e noi tra chi pratica questo tipo di filosofia, avulsa dalle solite logiche di mercato, annoveriamo Cascinet, con il suo tripudio sfavillante di attività e la sua attitudine alla gioia.


    Autrice: Valentina Nicole Savino
    Regia e riprese: Davide Cipolat
    Interviste: Valentina Nicole Savino
    Montaggio: Agnes Aquilecchia
    Grafiche: Claudia Antini

  • Finestre Aperte. Gratosoglio: una piccola eterotopia

    Finestre Aperte. Gratosoglio: una piccola eterotopia

    Gratosoglio è un quartiere di Milano immerso nel verde, vicino a Piazzale Abbiategrasso: anticamente era un piccolo borgo popolato dalle rane, ma la memoria delle origini si è dissolta dal tessuto cittadino e a riportarcela alla mente è Francesca durante la nostra intervista. Francesca Minelli ha ideato e coordinato con altre persone il progetto “Ri – Abitare”, un progetto di riqualificazione urbana atto a far rinascere alcuni punti caduti in disuso e abbandono del quartiere, con particolare attenzione alla doppia natura del luogo (di ogni luogo): quella fisica, spaziale, e quella umana, relazionale.

    Nato nel maggio del 2018, dalla partecipazione del suo gruppo di teatro in collaborazione con l’associazione Fare Assieme, al “Bando alle Periferie”, indetto dal Comune di Milano, il progetto è stato poi affidato nel suo sviluppo creativo e nella realizzazione materiale a quattro ragazze che si sono spontaneamente candidate per mettersi all’opera: Martina Spinelli, Claudia Sinosich, Eleonora Salvato e Clara Marchesi.

    Le ragazze, durante un percorso durato qualche mese, hanno dapprima svolto piccole indagini sul territorio confrontandosi con le persone riguardo alle loro personali modalità di utilizzo e di percezione degli spazi, vagliandone le aspettative; quindi traendo linfa dal riscontro, hanno ideato tre tipi di intervento su quattro aree differenti. Uno temporaneo, uno semipermanente e un ultimo permanente, metodologie differenti indirizzate a uno scopo comune: «gli spazi erano accomunati dal fatto che erano senza nome e sottoutilizzati, abbandonati. Il lavoro da fare era quindi quello di rigenerarli, ridare loro un nome, rimetterli al mondo», spiega Francesca. Un nome che sono riuscite a restituire: quella che hanno ribattezzato causticamente “La Piazza senza Nome”, sotto una delle torri iconiche di Gratosoglio, è diventata la “Piazza delle Vele”, grazie alla performance di teatro – danza diretta il giorno dell’evento di inaugurazione da Ernald Matoshi, cui ha fatto seguito la sera lo spettacolo di Ilenia Raimo su Charles Mingus.

    L’evento ha aperto infatti alla vista dei cittadini (che hanno fruito liberamente la performance) un’installazione riproducente – grazie a dei vecchi teli per dipingere, a fili e griglie adattati all’area e a bottiglie di plastica, in nome di una cultura del riutilizzo e della rigenerazione dei materiali e dell’ambiente – un mare e delle onde: «abbiamo montato delle vele che hanno reinterpretato lo spazio di quella piazza, il concetto di quella desolazione che abbiamo trovato, e l’hanno trasformato in un mare, in un oceano con delle onde, con una barca immaginaria che levava delle vele».

    Mentre un angolo di risulta vicino a una rotonda, dentro un boschetto, è diventato oggetto del secondo intervento, ed empiendosi di luce si è trasformato in quello che è stato ribattezzato “il Boschetto dei Riflessi”: inaugurata dallo speech filosofico sulla relazione tra spazio urbano e bellezza di Tlon,  un’installazione di vecchi CD recuperati, ridipinti da un lato e appesi in modo da creare un effetto di luce continua che assecondasse i movimenti del sole e del vento, ha ridato vita inaspettata alla piccola radura.

    Abbiamo voluto ricreare un po’ un angolo di meraviglia, un angolo dove uno al posto che andare a sedere a fare la solita sosta sulla panchina guardando la strada, forse per una volta si può sedere e guardare verso l’alto, quindi tornare a sognare, a immaginare.

    E infine due piazzole sono divenute “L’Iride” e “Lo Stagno”, grazie a un intervento cromatico per mezzo di vernice sulla pavimentazione. Uno Stagno con raffigurazioni di animaletti e ninfee per ricordare le origini di Gratosoglio, ma anche a simboleggiare la metamorfosi, la trasformazione; la scintilla di resilienza in grado di farne da piccola radura tra i palazzi crocevia di vita e movimento, come quello dei bambini a cui le ragazze hanno pensato progettando l’intervento. Un’operazione organica e vitale che ha prodotto una sintonia tra le parti.

    Gian Paolo Torricelli nel suo saggio Potere e Spazio pubblico ripercorre la storia delle relazioni che intercorrono tra uno spazio e i suoi abitanti, nella dimensione della sua pubblicità (nell’accezione originaria del termine, pilastro della riflessione del filosofo Habermas sui rapporti di potere) e ci mostra con sguardo trasversale e frattalico – a mo’ di monade leibniziana – la trasformazione dei quartieri passando da Milano, a Los Angeles, a Buenos Aires.

    E ci parla a un certo punto, prendendo a prestito la voce di Michel Foucault, di un potenziale nascosto nello spazio pubblico, di una dimensione relazionale altra rispetto a quella dei luoghi di aggregazione formali, comunque importanti nel tessuto di una città, definiti come regioni “aperte” (piazze, cinema, alberghi etc.) e “di passaggio” (treni, stazioni, aerei etc.). Questo potenziale consiste in una rappresentazione che non è ultimatamente definita dalle istituzioni della città con i loro codici di comportamento formali, bensì è generata da eterotopie, da spazi altri.

    Per Torricelli lo spazio altro è esemplificato da quella che lui chiama “cultura della strada”: «lo spazio pubblico relazionale, quello per intenderci della cultura della strada, è invece uno spazio altro, a volte nascosto, non visibile poiché non disegnato, non solido ma frammentato e cangiante a dipendenza dalle relazioni che lo creano», ed è ente fisico e concreto, disegnato e limitato dalla territorialità, quanto simultaneo spazio ideale.

    Sua caratteristica fondamentale è per Foucault quanto per Torricelli la capacità di far germogliare un tessuto sociale differente da quello codificato dalle architetture e leggi formali di una città, alcune volte in grado di creare una vera e propria opposizione al potere in auge, altre di formare una non più blanda rete di solidarietà sociale che va costituendosi come microcosmo a sé stante e che funge da principio rappresentativo e identitario.

    Gratosoglio Ri-Abitare

    E questo humus, di cui ci parla anche Francesca quando esprime la volontà sua e delle altre ragazze di far tornare questi luoghi felici, nella radice etimologica di felix come fertile e perciò gioioso, lo offrono soprattutto le periferie: «anche per Milano, come in molte grandi città Latinoamericane, è forse possibile parlare di eterotopia, spazio pubblico altro, confinato fisicamente alla periferia della città, sulle aree dismesse ancora non oggetto o in attesa di trasformazione. È uno spazio generalmente nascosto nelle rappresentazioni dominanti, che si crea a seguito dell’esclusione di parte della popolazione dalla città formale» dice Torricelli nel suo saggio.

    E lo dicono tutte le persone del quartiere che hanno aiutato in un modo o nell’altro a portare a compimento “Ri – Abitare”: da chi è sceso a offrire cibo e aiuto impugnando scope e rulli, a chi ha applaudito dal bancone, a chi infine si è candidato per aiutare a terminare un anello dello Stagno pagando la vernice mancante. Francesca ha commentato così questo segno vivo da parte degli abitanti del quartiere:

    Nel momento in cui la cittadinanza, attraverso una maniera diretta o indiretta, acquisisce la possibilità di fruire e di costruire lo spazio, diventa automaticamente anche un po’ più custode di quegli spazi, se ne sente più responsabile, se ne sente più coinvolta… avendo un nuovo punto di vista su come può essere rivissuto e reinterpretato un determinato spazio tutto cambia, cambia anche la percezione dello spazio stesso.

    Nell’esempio di Gratosoglio abbiamo così trovato una piccola ma rilucente eterotopia, che è emersa persino da quella tag che è stata lasciata su un punto della piazzola a mo’ di demarcazione: “se non vi piace ci scusiamo, siamo artisti incompresi” e che le ragazze hanno deciso di lasciare in quanto segno – seppur goffo- di una voce, di una richiesta di partecipazione, di un appello. Voce che non è rimasta inascoltata, ma risuona tra le riflessioni di luce del boschetto e tra le ninfee delle piazzole.

    Guarda anche le puntate di Muri corpo vivo, con le interviste a Ivan Tresoldi e a Gattonero


    Autrice: Valentina Nicole Savino
    Regia e riprese: Davide Cipolat
    Interviste: Valentina Nicole Savino
    Montaggio: Agnes Aquilecchia
    Grafiche: Claudia Antini

  • Muri corpo vivo. Gattonero: la memoria delle periferie

    Muri corpo vivo. Gattonero: la memoria delle periferie

    Parlando con Alessandro Gatti, in arte Gattonero, abbiamo voluto rintracciare un quid elementare, una vocazione primigenia all’origine delle prime tag e dei primi murales, che si cela dietro agli sviluppi contemporanei della street art – talvolta valorizzanti, talvolta ossimorici – e che il writer identifica come affermazione di identità. È la sete di riscatto rintracciabile in quei ragazzi che nel Bronx degli anni ‘70 facevano sentire la propria voce scrivendo sui treni:

    Nel Bronx degli anni ‘70 la sensazione che si aveva da parte di questi ragazzi era di non esistere. Tu vieni dal Bronx? Allora tu non esisti, io non ti parlo. Questi ragazzi del Bronx che stavano sempre in strada, come forma di reazione hanno pensato (New York ha la metro che non è come la nostra sottoterra, ma gira esterna e fa tutto il giro della circonvallazione) di scrivere il proprio nome a caratteri giganteschi sul treno, in modo che tutti i fighetti del centro potessero leggerlo, a significare: così ti rendi conto che io esisto, così sai che ci sono. Perché ti costringo a leggerlo.

    Reazione al disagio che, nascendo in questo contesto con il nome di “graffitismo”, si è poi allargata divenendo parte di un fenomeno globale e multiforme, continua a raccontarci Gattonero mentre lo intervistiamo davanti a una delle sue opere milanesi principali, il murales “benedetto” sul muro di cinta della Basilica di San Lorenzo.

    Il murales raffigura la lotta di successione tra Visconti e Sforza attraverso lo scontro metaforico tra i loro stemmi, andati poi a confondersi nel tempo (il Biscione verde, riconosciuto come simbolo di Milano, viene attribuito erroneamente alla casata degli Sforza, ma apparteneva originariamente ai Visconti, mentre la casata concorrente era rappresentata da un’Aquila nera). “Benedetto” perché, ci racconta divertito, oggetto di una commissione in stile quattrocentesco da parte di un parroco illuminato, Don Augusto Casolo, che stufo di veder versare quelle mura nell’incuria, chiamando a raccolta, nel 2014, 11 writers (gli altri sono Acme 107, Ecns, Gatto Max, Gep, Gianbattista Leoni, Kasy 23, Luca Zammarchi, Mr. Blob, Neve e 750 ml) ha deciso di affidare loro la realizzazione di un’opera collettiva, la Milano Street Hi – Story con il compito di scegliere un episodio o un personaggio della storia di Milano da narrare, da Sant’Ambrogio, ad Attila a Leonardo. E ha fatto poi benedire il muro con tanto di chierichetti e incensiera, felice del risultato.

    Mentre rievoca l’episodio, il tracciato descritto dalle spire vorticose delle figure alle sue spalle si interseca con quello della sua narrazione:

    Arrivando in Italia il fenomeno assorbiva quindi le caratteristiche della storia dell’arte, insomma… qui abbiamo avuto Michelangelo, Caravaggio, Leonardo, e anche i writers sono stati chiamati a confrontarsi con questa eredità estetica e storica. I writers italiani sono legati a una tecnica, a un senso del bello.

    E ci racconta di come questa chiamata sia arrivata fino a lui, parlandoci della sua giovinezza (negli anni ‘90) nelle case popolari del quartiere di Baggio, tra l’indifferenza del Comune, i fabbricati abbandonati, i pezzi di cornicione che si staccano e le panchine a cui riattaccare le viti. E delle giornate spese con gli amici sulle panchine di fronte a questi edifici fatiscenti, fino a quell’intuizione della bomboletta spray: «a un certo punto prendi la bomboletta in mano e decidi di decorare casa tua, di abbellire la tua periferia».

    Intuizione passata poi attraverso tre generazioni di artisti, da quella Old School di cui fa parte anche Gattonero legata al fumetto e al figurativo, che studiando le fanzine importate da Los Angeles ha cercato di sviluppare il proprio stile, cercando una mediazione tra il nuovo modello americano e l’eredità artistica europea; a quell’ondata di artisti che 6-7 anni dopo si è fatta rappresentante della fase “hip hop”, e di un modo di fare street art divenuto di moda.

    Modalità inizialmente vissuta come mercificante dagli esponenti della Old School: «i grossi palazzoni, a differenza delle case in centro sono grandi famiglie, per cui assistere a questo fenomeno ha scaturito la domanda: come fai a mercificare una cosa così spontanea come io che mi dipingo casa?» commenta causticamente Gattonero.

    Questa seconda generazione ha colmato il vuoto lasciato dalla vecchia riempiendo la città con uno stile diverso: meno legato al figurativo e più al classico lettering. Fino a che superata la diffidenza iniziale, la commistione tra le due scuole non ha portato a una terza generazione: identificata con il nome di pop up, e caratterizzata da un uso misto e nuovo delle tecniche, come gli appiccichini prima, e lo stencil poi.

    Ma soprattutto intuizione che Gattonero non ha mai abbandonato e che ha deciso di portare anche nei centri, abitando il binomio centro-periferie non sotto un segno oppositivo, ma sotto il segno di una comune riqualificazione delle aree degradate e abbandonate, anche nelle vesti di piccoli squarci urbani, di angoli di città, come nel caso della cinta muraria della Basilica. Oggi questa azione è forte nella nostra città della sua diffusione capillare, di cui abbiamo piccole e grandi evidenze: appena fuori Milano, a due passi da Comasina, troviamo il Castello di Zak, ex fabbrica abbandonata, riabitata e fatta rinascere a mo’ di tempio dell’arte dal tunisino Zakaria Jemai. Edificio quasi magico divenuto sosta obbligata per gli artisti di strada. Ma che possiamo ritrovare ad ogni angolo della nostra città, su ogni muro o anfratto che rivendichi per sé solo espressione, parola.

    «Spero sia un abbaglio tutta questa oscurità» leggiamo su un muro del quartiere di Gratosoglio, e già basta a fendere uno squarcio.


    Autrice: Valentina Nicole Savino
    Regia e riprese: Davide Cipolat
    Interviste: Valentina Nicole Savino, Barbara Venneri
    Montaggio: Davide Cipolat
    Grafiche: Claudia Antini

  • Muri corpo vivo. Ivan Tresoldi: il potere trasformativo della parola

    Muri corpo vivo. Ivan Tresoldi: il potere trasformativo della parola

    La nascita della Street Art come fenomeno organico e connotato si fa risalire comunemente al boom del graffitismo nella New York tra gli anni ‘60 e ‘70, consacrata poi dall’invenzione della bomboletta spray negli anni ‘80 e riplasmata infine con nuovi caratteri a partire dal 2000. Tuttavia il coacervo di tecniche, declinazioni, snodi spazio-temporali e simbologie che questa forma d’espressione artistica sembra racchiudere dentro di sé produce un prisma i cui riflessi non sono immediatamente codificabili. Tanto che alla nostra domanda Che cos’è la street art, il poeta Ivan Tresoldi (più semplicemente conosciuto come “Ivan il Poeta”) risponde: «Non esiste la street art. È da sempre esistita la scrittura delle strade, poi vi sono diversi modi di chiamare le cose».

    E, tentando di renderci visibili i qualia di questo fenomeno complesso, ci parla indistintamente della Rivoluzione d’Ottobre, del Bronx, delle chiese arabe con la loro iconografia sacra. Iridescenze ampie, fluttuanti, a volte irrimediabilmente parallele altre secanti. Epifanie in cui tuttavia Ivan sembra scorgere un comune denominatore, che dalla sete di riscatto dei ragazzi delle periferie newyorkesi, alle parole inneggianti alla Rivoluzione, all’iconografia sacrale sembrerebbe costituire un nucleo ad alta densità attorno a cui gravitare: la funzione di costruzione delle società rivestita dalle parole e dalle immagini (o dalla loro unione).

    All’interno di questo panorama dall’ampio respiro, Ivan, fedele alla sua vocazione poetica, ha scelto di servirsi della parola come mezzo privilegiato di scrittura delle strade, dando corpo insieme ad altri artisti a quel fenomeno conosciuto – anche senza una vera e propria formalizzazione del termine – come Poesia di Strada. La Poesia di Strada prende vita a partire dagli anni ‘90 per affrancare la poesia da un accademismo vissuto come asettico e costruito, lontano dall’urgenza del reale e delle sue problematicità.

    L'artista Chekos mentre dipinge insieme a Ivan
    L’artista Chekos mentre dipinge insieme a Ivan

    Si sviluppa con un carattere autonomo e diversificato in vari Paesi: esempio storico è il movimento d’Accion Poética fondato dal poeta messicano Armando Alanis nel 1996, che si estende in America Latina e in Europa, e che fa della scrittura delle strade la sua dimensione privilegiata di diffusione poetica. Muri, colori e impellenza della parola: chi si associa ad Accion poética non accetta denaro in cambio, ma soltanto vernice.

    Indipendentemente, iniziano a muoversi – dal 2000 in poi e con una diffusione più organica del movimento intorno al 2008 – nella stessa direzione anche gli artisti italiani, tra cui possiamo annoverare oltre a Ivan, Mr Caos, Davide Dpa, Decle e Un Litro Project, insieme al contributo di tanti altri, sia nelle vesti di singoli che di collettivi (lo Stendiversomio, neologismo che indica l’atto dello stendere ma che richiama anche il “versuro”, “aratro” in dialetto veneto, quasi si volesse nemmeno troppo metaforicamente dissotterrare un nuovo uso della parola, del padovano Ma-Rea o i poetry flowers con il motto “make poetry not war” sono solo alcuni degli altri originali contributi).

    Affiancati da realtà che, pur anche non occupandosi di arti figurative, hanno fatto della strada locus privilegiato dei propri assalti poetici. Come il MEP (Movimento per l’Emancipazione della Poesia), nato nel 2010 a Firenze, di cui è utile leggere uno stralcio del manifesto: «Espressione di un’esigenza collettiva, il MeP nasce dalle contraddizioni riscontrate nell’attuale società, consumistica e disattenta, e con pratiche diverse si adopera per risolverle», e di cui possiamo bene riassumere l’azione con l’espressione “poesia in strada” (la diffusione poetica avviene tramite poster, volantini etc. attaccati sui muri).

    Diverse perciò le realtà artistiche, come peculiari sono gli stili d’indagine e intervento: Dario Pruonto, in arte Mr. Caos, ha iniziato il suo percorso nella Poesia di Strada quasi per caso, nel 2013, quando ha assistito nel suo quartiere (una periferia milanese) a minacce perpetrate dalla criminalità organizzata e accolte con spirito omertoso dal resto della comunità. Quasi per istinto, ha reagito scrivendo di getto qualche riga e stampando 500 fogli A4 con cui tappezzare il quartiere.

    Ivan Tresoldi

    Da lì il suo percorso artistico non si è più fermato e ha incontrato la sperimentazione delle più diverse tecniche: dallo stencil, alle maschere, alle installazioni, alle performances (famosa la performance replicata più volte del “Km di gessetti”, un km tracciato con gessetti colorati con l’aiuto delle persone del vicinato, destinato a sparire ma lasciando dietro di sé la forza del gesto).

    Modalità, quelle di Dario, che girano intorno a un cuore pulsante costante nelle sue opere: il fatto di essere tutte site specific, ovvero innestate armonicamente nel contesto, nello spazio designato alla loro espressione, in un connubio equilibrato delle tre componenti relazionali «il cosa scrivere, il come scriverlo, e il dove scriverlo» ci spiega Mr. Caos sottolineando la componente dialettica delle sue creazioni:

    Importante non turbare l’equilibrio delle persone che vivono in un contesto, modellarsi con loro senza arrivare a imporre, altrimenti il dialogo, la poesia e la relazione svaniscono.

    Di diverse tecniche e spazi si serve anche Alfonso Pierro, che fonda il progetto “UnLitro” nel 2008, il cui senso descrive così, causticamente, sul sito:

    Morsi, sorsi, sussurri ed urli intrecciati nel tessuto urbano a misura delle genti d’ogni luogo e tempo. Poesia che si riprende gli spazi consegnandoli a tutti coloro che li vivono per davvero.

    Davide Casavola, in arte Dpa, è invece vero e proprio calligrafo: come altri street artists ha codificato un alfabeto pittorico che funge da stilema visivo da riprodurre per incarnare in figure e colori le proprie poesie. Nel 2010 fonda il collettivo “Poesia D’Assalto” che così descrive:

    Poesia D’assalto nasce con l’intento di diffondere la poesia tra le vie, tra i passanti in corsa, a gocce di vernice. Poesia che s’immerge nella quotidianità e ritrova il suo spazio, riqualifica di strade spente e animi persi.

    Decle, affine alla pop art, avvicina la poesia ai graffiti, così come alla musica elettronica; ricoprendo i muri e le serrande di numerose città e cercando anch’esso una commistione che intreccia tecniche differenti (Indicative le sue ultime performance nel 2019, “metamorfosiromana” per RomaID, in collaborazione con gli artisti Motorefisico e Francesco Fidani, e “Polaroid di poesia”, durante cui ha esposto le sue “poesie infinite”).

    E vicini al calligramma troviamo infine anche gli stilemi di Ivan (altre sue tecniche principali, oltre alle varie componenti del muralismo, sono le scaglie – strisciate bianche fatte con il rullo e riempite in nero di frammenti poetici -, i manifesti con colla, le performances, gli happenings), le cui poesie, come sentinelle del trascurato, invadono gli angoli dimenticati della città restituendo loro una voce.

    «Ognuno merita il regime che sopporta», «il poeta sei tu che leggi», «chi getta semi al vento farà fiorire il cielo», «sognare non costa nulla, è svegliarsi che costa caro», sono solo alcune delle sue schegge poetiche che sottraggono le strade all’anonimato, ma ben esemplificano il senso della sua poetica, evidenziando quel richiamo a Durkheim di cui Ivan stesso ci parla: «una città, un Paese, è un grande corpo», ci dice, «più che la vernice che tu lasci sul muro, per me, ciò che conta è quello che dice il Piccolo Principe: l’essenziale è invisibile agli occhi». E ancora: «per me la parola ha un valore fondativo di costruzione di massa: io scrivo ma tu leggi».

    Individuale e collettivo, arti e corpo intero si fondono in un dialogo bilaterale, dove se da un lato i fatti sociali sono interconnessi tra loro formando una fitta rete di ragno, dall’altro la coscienza soggettiva non perde di significato, informa anzi la culla delle differenze irradiate dall’esperienza, e soprattutto la forza propulsiva del cambiamento, che in qualità di «finalismo implicito all’esistenza» (Durkheim) è in grado di scuotere i presupposti della società e di modificarne gli stati. «L’ideale non è al servizio del reale» ci dice Durkheim rimandando indietro l’eco al Piccolo Principe di Ivan, che ancora una volta ci ricorda che su quei muri si nasconde una tensione segreta, palpabile a mano a mano che ci si avvicina. E che ci augura di crearci, ed essere liberi.

    Leggi qui la presentazione del reportage


    Autrice: Valentina Nicole Savino
    Regia e riprese: Davide Cipolat
    Interviste: Valentina Nicole Savino, Barbara Venneri
    Montaggio: Davide Cipolat
    Grafiche: Claudia Antini

    Fonti:
    Jeffrey C. Alexander, Emile Durkheim, contributi a una rilettura critica, Roma, Meltemi, 2002
    Street Art, su Riarte.it
    Elisabetta Perkele Colautti, Poesia di strada, ribellione e condivisione, su Comune.into
    Aurora Tamigio, Street Art, tendenze e artisti di un movimento internazionale, su SognoElekltra.com
    Lara Farinon, Il bisogno di ritornare alla strada, il fenomeno della Street Poetry, su Artspecialday. 
    Elena Mazzoni Wagner, Da Lecce a Milano e all’inverso, su CCT-SeeCity
    Unilitro, su Speak Sick
    167bstreet.com
    Ivan, Poeta di strada e artista pubblico
    Movimento per l’emancipazione della poesia 

  • Con – tatto: forme di resistenza artistica nelle periferie

    Con – tatto: forme di resistenza artistica nelle periferie

    “La città è un grande corpo” ci dice Ivan riecheggiando le parole di Durkheim quando lo intervistiamo trovandolo alle prese con la sua ultima opera di lettering all’altezza del Naviglio Grande. Sta scrivendo la parola “impegno” e ci dice che la parola è epifania, disvelamento, e che come quando ci trucchiamo per scoprire e indicare il non detto, accordandolo alle note di uno stato d’animo o di una celebrazione, anche i muri si coprono, si sporcano di colore, per parlarci e assumere contorni più netti.

    Il lettering di Ivan l’abbiamo ritrovato per caso anche sulle pareti dell’associazione Furfari a Corvetto, e ci è sembrato quasi accarezzare l’intuizione che abbiamo provato a condensare nel titolo del nostro progetto: l’idea che il gesto artistico, materico, fatto di suoni, colori e parole che si fanno carne viva possa gettare un ponte tra le persone e le idee, accorciando le distanze e creando una segreta opposizione nei confronti di tutte quelle componenti che all’interno di una grande città possono talvolta apparire come disgregative o gerarchizzanti.

    Con – tatto: forme di resistenza artistica nelle periferie è un reportage in otto puntate, accorpate a due a due in modo da sviluppare i quattro temi che più ci sono sembrati rappresentativi: le puntate di Muri corpo vivo in particolare ci parlano della street art e delle potenzialità insite in un muro scarno e in qualche secchio di colore; con le due puntate di Finestre aperte abbiamo invece  voluto porre l’accento sugli spazi aperti e la loro capacità di dislocarsi come luoghi tanto multidimensionali almeno quanto sono ricche di diversità le persone che li attraversano.

    Con-tatto: forme di resistenza artistica nelle periferie

    Infine, con le puntate de L’unione fa la forza abbiamo voluto offrire un piccolo spaccato di due realtà fortemente sociali: l’associazione Furfari e la Brigata Brighella. La prima svolge la sua funzione di collante attraverso l’Hip Hop e in particolare il Rap, la seconda affianca il lavoro delle Brigate di Solidarietà per l’Emergenza portando nei cortili di periferia fiabe e racconti.

    L’idea di occuparci della Brigata Brighella è nata durante le ultime fasi di lavorazione del reportage, bloccate dalla pandemia: se l’intento iniziale era concentrarsi su quelle realtà in grado di essere collante fra le persone, di sollevare, come una polvere magica, il potere comunicativo di un certo uso della cultura e della manifestazione artistica, questi cantastorie contemporanei ci sono sembrati in grado di incarnarlo alla perfezione. Ed è così che emerge la capacità dell’arte di ridisegnare non solo gli spazi fisici, ma soprattutto quelli relazionali, umani: di tracciare contatti.

    Come seguendo una traccia luminosa e serpenteggiante in grado di tenere insieme differenti età, etnie e classi sociali, ci è sembrato di poter lanciare l’esca di un sottile fil rouge per poterlo rintracciare e raccogliere a fine percorso, come se ci potesse essere una strana sintonia tra le parti; come se volessimo anche noi rappresentare con questo reportage a puntate gli arti di uno stesso corpo pulsante come quello di cui ci ha parlato Ivan.

    Con-tatto: forme di resistenza artistica nelle periferie

    Una città si presenta con le vesti degli individui che la popolano, ma anche gli individui assumono gli abiti della città in cui si trovano a vivere, con il loro microcosmo di affetti, relazioni sociali, impulsi e costrizioni, desideri e appelli all’essere, risposte mancate, necessità ancora inaffiorate ma gorgoglianti sotto lo strato denso del cielo della propria città, del proprio cielo.

    Con il nostro lavoro abbiamo provato a esplorare questo coro di voci, in particolare quello che emerge laddove la marginalità dei luoghi a lato del restante tessuto urbano sembra condannare a un fitto silenzio, e l’anonimia dei quartieri fatiscenti ad afasia dissonante.

    E abbiamo scoperto strada facendo che è proprio tra questi luoghi che sembra levarsi più forte una volontà di aggregazione, tematizzazione, riscatto, potremmo quasi dire una gioia di vita che ridipinge con tinte nuove il grigiore di certe strade. Sensazione che abbiamo provato davanti alle stampe del locale Ligera mentre vedevamo affluire l’abituale mescolanza di etnie differenti al suo interno, come davanti ai giocolieri che spericolati animano le serate di musica elettronica a Cascinet, come ascoltando le violiniste che suonano all’aperto durante le feste del Parco Trotter o ammirando i progetti recenti di rigenerazione a Gratosoglio.

    E che speriamo possa trasmettersi attraverso il lavoro di questi mesi anche a voi.

    Nota: l’articolo è stato modificato tra ottobre e novembre 2020, quando sono state pubblicate le ultime due puntate.


    Autrice: Valentina Nicole Savino
    Regia e riprese: Davide Cipolat
    Interviste: Valentina Nicole Savino, Barbara Venneri, Marco Minoggio
    Montaggio: Davide Cipolat, Agnes Aquilecchia
    Grafiche: Claudia Antini

    Traum Fanzine – matrice onirica è una fanzine cartacea nata come autoproduzione a Milano nel 2019, si propone di far dialogare arti differenti creando un progetto trasversale e di sviluppare una riflessione sui temi vissuti come più urgenti dai ragazzi che ci collaborano.