Uno sguardo sulla musica bizantina: tra notazione e codici manoscritti

Icona bizantina copertina

Della musica del mondo bizantino – realtà quanto mai composita e difficilmente classificabile nei suoi confini sia temporali che culturali – si conosce assai poco. Non bisogna dimenticare che la civiltà bizantina si pone, per lingua, costumi e in parte anche letteratura, come continuatrice di quella greca. È difficile affermare con certezza quale sia il periodo preciso nel quale inizia a svilupparsi la coscienza di un’identità culturale e musicale bizantina, nel momento in cui inizia a distinguersi da quella greca e romana[1]. Altrettanto complesso è comprendere quali siano nello specifico gli elementi distintivi che compongono questo universo che ha, senza dubbio, il suo centro nella città di Costantinopoli, l’antica Bisanzio.

Ciò che è importante ricordare è l’aspetto, per così dire, multiculturale e multifattoriale che caratterizza il mondo orientale già a partire dal IV secolo d.C. Fin dalla sua nascita, infatti, quello che diviene l’Impero d’Oriente si presenta come il prodotto di vari elementi che convivono tra loro: il patrimonio greco si unisce al senso di appartenenza all’Impero Romano, mentre il forte sentimento cristiano si unisce ad elementi di cultura asiatica[2].

Nulla di certo si può affermare circa le origini della musica bizantina, che rappresenta solo in una minima parte la continuazione dell’antica musica greca, ma è di certo la sintesi di stili provenienti da tutte le regioni dell’Impero d’Oriente, che comprendeva non solo l’attuale Grecia ma anche la Turchia e alcuni territori dell’Asia minore. Proprio l’apporto del Medio Oriente è fondamentale per lo sviluppo della musica bizantina: si ritiene infatti che le più antiche melodie fossero semplicemente varianti di canti popolari d’origine siriana, mentre altre provenivano forse dalla Chiesa della Palestina.

Un elemento del tutto fondamentale per comprendere lo sviluppo della musica bizantina, è che essa si sviluppa prevalentemente in ambito sacro e liturgico ma, nonostante questo, è composta, per lo meno per quel che rimane, solamente di musica vocale monodica, eseguita da un coro più o meno numeroso: non si hanno attestazioni di musica strumentale.

Per quanto riguarda i “generi” liturgici, le prime forme di canti religiosi si ebbero nei tropari, cioè brevi preghiere ritmiche composte di pochissime frasi, che non vengono composti in modo sistematico, mai si trovano scritti come interpolazione tra i versi dei Salmi, cioè inseriti tra una riga e l’altra dei codici manoscritti nei quali si trovano i Salmi. Successivamente, queste interpolazioni si svilupparono e divennero dei veri e propri inni.

Un famoso esempio, la cui esistenza è attestata già nel IV secolo d.C., è l’inno dei Vespri pasquali, O Luce Risplendente. Forse la prima serie di tropari di paternità conosciuta sono quelli del monaco Auxentios (prima metà del V secolo). I temi sono molteplici, ma il principale è l’apolytìkion, un inno che si recita alla fine della messa e riassume le virtù di un santo.

Successivamente, a partire dal V-VI secolo d.C., si diffonde un particolare tipo di composizione strofica a carattere musicale, il contacio. La struttura del contacio è quella di un inno diviso in un numero vario di stanze (strofe) e realizzato modulando la voce per realizzare una melodia. Le stanze sono uguali tra di loro per numero di versi, di sillabe e per accenti ritmici, sul modello del primo verso della stanza (l’irmo, εἱρμός).

Normalmente il contacio è introdotto da un proemio (o cuculio, κουκούλιον) che contiene una preghiera e un’introduzione all’argomento di cui si tratterà. Alla fine del proemio si trova un ritornello che si ripete alla fine di ogni stanza. Le prime lettere di ogni verso formano un acrostico che normalmente indica il nome dell’autore del componimento[3].

Il contacio vede un utilizzo talmente ampio da costituire la struttura base dello sviluppo di un importantissimo genere letterario bizantino che continua a evolversi e a diffondersi almeno fino al XII secolo: l’Innografia. La sua ampia diffusione è dovuta proprio alle caratteristiche del contacio che, scritto in metrica ritmica e accentuativa in lingua semplice, aveva una destinazione molto ampia ed era il mezzo privilegiato dalla chiesa per combattere la predicazione delle sette eretiche, che andavano diffondendosi in larga parte in quel tempo.

L’innografia trova il suo apice nell’opera di Romano il Melodo (VI secolo) e circa un secolo più tardi, grazie ad Andrea di Creta, nasce il canone liturgico – l’insieme di canti che dovevano essere performati durante una liturgia – che deriva sempre dal contacio, ma si compone di inni più ricchi dal punto di vista linguistico e musicale, con un contenuto più dogmatico e una ritmica accentuativa.

Per quanto riguarda più nel dettaglio il sistema di notazione (semiografia) utilizzato dai bizantini, le testimonianze sono giunte grazie ai manoscritti, che però non risalgono a prima del X sec. d.C, sebbene le origini della musica bizantina si possano ragionevolmente ascrivere, come visto, al V-VI secolo. Nonostante si possa proporre una classificazione dei metodi di scrittura bizantini, va ricordato che essi non sono da intendersi come delle categorie separate le une dalle altre, che nascono consapevolmente, o ad opera di qualcuno, in una data precisa. Essi sono invece da intendersi come categorie fluide che talvolta vengono usate, contemporaneamente, in epoche diverse.

La semiografia bizantina si avvale, come unità minime, dei neumi, cioè di segni grafici, derivati dagli accenti prosodici greci e variamente composti tra di loro, che indicano una certa flessione (ascendente o discendente) della voce nel realizzare la linea melodica, o un certo modo di esecuzione. I neumi impiegati non hanno, all’inizio, un valore preciso, ma si trovano posizionati approssimativamente sopra le sillabe dei testi letterari. Possiedono quindi prevalentemente funzione mediatrice, cioè consentivano l’esecuzione del canto a chi ne avesse grosso modo conoscenza pregressa, lasciando al cantore il compito di integrare con le proprie conoscenze le formule schematizzate del testo neumatico. La scrittura è adiastematica, cioè senza rigo musicale e senza riferimenti precisi.

Il primo tipo di scrittura attestato, viene chiamato notazione ecfonetica, cioè un sistema di segni creati per ricordare al lettore/esecutore formule già note, da applicare e realizzare nell’esecuzione del testo poetico, prevalentemente di ambito liturgico, con una speciale modalità di lettura “ad alta voce”, che purtroppo non viene esplicitata da nessun trattato di teoria musicale. I segni utilizzati sono circa quattordici e possono essere collocati sopra, sotto e tra le linee del testo, incorniciando l’inizio e la fine di ogni frase, attribuendo ad esse una particolare sfumatura che doveva rendere il contenuto maggiormente vivido e caratterizzato.

Tale notazione, probabilmente la più antica di cui abbiamo conoscenza, si avvale dei segni di prosodia greca creati da Aristofane di Bisanzio nel II sec. a.C. e introdotti in età ellenistica come riferimenti e guide per decifrare i testi classici, quando il greco era diventato la lingua predominante nell’oriente europeo. I toni sono indicati tramite gli accenti e altri segni che aggiungono informazioni espressive (apostrofo, congiunzione ecc… ).

Tali segni trovano riscontro, in modo del tutto sorprendente, nella tradizione siriaca e indiana. È difficile capire quale sistema sia stato influenzato per primo, tuttavia si può pensare che l’origine comune di questi segni sia dovuta a un’altra tradizione, cioè quella ebraica. Høeg[4] afferma:

Il mondo greco, o piuttosto il mondo ellenizzato che adottò il cristianesimo, impiegava esclusivamente, nei servizi religiosi, la lingua greca, ma imitò la maniera di recitare degli ebrei e l’applicò non soltanto ai testi che aveva in comune con essi, ma anche ai nuovi testi sacri. Tuttavia, non si tratta di una semplice imitazione, ma di un processo di adattamento e di amalgama per il quale le possibilità latenti della lingua greca furono sviluppate in modo da creare un’arte nuova, analoga, nei suoi princìpi e nel suo effetto, al modello.

Dall’XI e XII secolo fino al XIV, i testi dimostrano un lento ma graduale abbandono della notazione ecfonetica, tanto che alla fine del quindicesimo secolo la conoscenza di questa notazione scompare completamente.

Musica bizantina: esempio di notazione ecfonetica
Esempio di notazione ecfonetica

Contestualmente, intorno al 1175, si sviluppa la notazione cosiddetta paleobizantina, che ha ancora la funzione di supporto mnemonico, complementare alla tradizione orale e destinata a ricordare il profilo melodico, integrato da alcuni dettagli ritmici e dinamici in più, di quanto si doveva già conoscere.

I più antichi manoscritti a noi giunti sono datati intorno al X sec.: i segni che si trovano sono il risultato della trasformazione di alcuni segni ecfonetici, ma talvolta si perde, con il trascorrere del tempo, il significato originario di alcuni simboli, che acquisiscono invece metodi di realizzazione diversi. Anche in questa fase quindi, i segni devono essere di aiuto alla memoria a chi già conosceva la melodia, tuttavia si nota una corrispondenza quasi perfetta tra neuma e sillaba, cosa che non si sarebbe verificata se i neumi fossero stati intesi solo come orientamento melodico approssimativo.

Decisamente più attestata e decodificata delle precedenti, la notazione medio-bizantina presenta una grafia più arrotondata e viene attribuita da alcuni a Giovanni Damasceno. Nonostante la maggiore precisione, i neumi non hanno ancora alcun valore tonale preciso: esprimono soltanto l’intervallo melodico (cioè la distanza che separa due suoni) di distanza dall’uno all’altro. Gli intervalli sono legati tra loro come gli anelli di una catena ed è per questo che l’errata interpretazione di un solo segno può falsare tutta la melodia.

Musica bizantina: esempio di notazione mediobizantina
Esempio di notazione mediobizantina

A tal proposito, i Bizantini inserirono altri segni di orientamento che dovevano suggerire quale dovesse essere l’andamento preciso della melodia. Inoltre, è proprio a partire dalla notazione medio-bizantina che si sviluppa la “chironomia”, cioè l’insieme dei movimenti che i direttori del coro dovevano eseguire[5], non solo adattando i gesti della mano all’espressione delle sillabe, ma moderando il canto con la combinazione dei movimenti delle dita: il direttore determinava i ritardandi ο crescendi lungo i diversi valori della melodia.

Il linguaggio della musica bizantina raggiunge il suo apice tra il finire del XIII e l’inizio del XV secolo, quando le esigenze musicali cambiano e si rinnovano. I neumi che si trovano sulle singole sillabe dei testi letterari si moltiplicano mano a mano, tanto da determinare non solo una maggiore precisione di scrittura, ma un vero e proprio impreziosirsi del canto.

Nel XIV secolo appaiono i primi maestri di cappella chiamati protopsaltes o maistores, tra i quali emerge la figura di Giovanni Papadopulos, chiamato anche Giovanni Cucuzeli, che amplia le melodie tradizionali abbellendole e vocalizzandole notevolmente. Con la riforma di Cucuzeli, il canto doveva seguire l’espressione della voce nel modo più preciso possibile: è così che la tendenza verso l’estrema vocalizzazione della linea melodica porterà in seguito ad uno stile musicale molto abbellito detto “calofonico”, cioè ornato, caratterizzato da un grande virtuosismo.

Come reazione a tanti secoli di esagerazioni, nel 1814 inizia l’opera di riforma della musica bizantina da parte di Crisanto di Madito, compiuta in collaborazione con Gregorio Levìtes Protopsalte: essi hanno il grande merito di aver semplificato il complesso sistema semiografico bizantino; ma d’altra parte nessun tentativo può restituire al canto la sua forma originaria, la primitiva “purezza” e semplicità che si presume ci fosse all’origine.

Sebbene a primo impatto la quantità di materiale scritto che hanno trasmesso i Bizantini sembri essere assai considerevole, in realtà mancano in gran parte le fonti documentarie d’archivio. Questo fatto, per quanto riguarda l’ambito musicale, impedisce di trovare una trattazione sistematica o monografica sulle regole di scrittura e sull’utilizzo dei neumi. La sola parte dell’impero dove si è conservata una certa quantità di materiale è l’Egitto, fino alla conquista araba (VII sec. d.C.). Restano altresì una modesta quantità di papiri connessi a Ravenna, che era però una parte dell’Impero ancor più marginale.

Per il resto non abbiamo che qualche archivio monastico per lo più attinente al Monte Athos o all’Italia meridionale, più due o tre ascrivibili all’Asia minore, ma anche questi archivi non contengono materiali datati prima del X secolo. I documenti del governo centrale, quelli dell’amministrazione provinciale della chiesa, dei mercanti, e dei negozianti, per esempio, sono spariti del tutto e il materiale scritto a disposizione può essere genericamente chiamato materiale letterario, e solo in minima parte musicale.

Per chi volesse infatti approfondire lo studio della notazione musicale bizantina, i limiti imposti dalla natura del materiale scritto comportano notevoli implicazioni, se si considera, per esempio, che sia il papiro che la pergamena sono materiali facilmente deperibili e le lotte cristologiche, ma soprattutto l’iconoclastia, fecero scomparire molto materiale manoscritto: numerosi codici furono dati alle fiamme.

Sebbene molti abbiano pensato di affidarsi alle evidenze archeologiche anche per quanto riguarda il deciframento e il reperimento dei manoscritti musicali, che possono essere gli unici depositari del modo bizantino di concepire ed organizzare la scrittura musicale, tuttavia bisogna considerare la frattura drammatica della conquista araba e sebbene le chiese siano quanto di meglio sia mantenuto nel mondo bizantino, non sempre esse conservano i manoscritti contenenti la notazione musicale antica.

Nonostante questo, la musica bizantina, i suoi generi e la notazione, rappresentano un ambito di straordinario interesse, ancora rimasto in larga parte sconosciuto.

 

Le registrazioni inserite nel brano sono libere interpretazioni, e non sono da intendersi come fedeli restituzioni storiche. In particolare, il numero di coristi era sicuramente inferiore rispetto a quello della maggior parte dei brani qui inseriti.


Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche Il visuale in musica: i suoni e la loro rappresentazione.

In copertina: Hodegetria (Madre con bambino), icona bizantina, 1200-1225 circa, Monastero di Santa Caterina, Egitto.

Diletta Pompei
Diletta Pompei

In perenne bilico tra l’animo classicista e la passione per la musica, passo il mio tempo a leggere e suonare il pianoforte, il tutto condito con un po’ di filosofia e di opere liriche. Contrariamente alla stagione in cui sono nata (autunno), mi piacciono il caldo, il sole, il mare e i gatti. Il mio sogno è poter studiare tutta la vita le cose che amo.