Categoria: Balloons

Una serie di articoli imprevedibili sul mondo del fumetto, caratterizzati da una visione dissacrante e ironica dell’attualità.

  • Dimentica il mio nome: ai confini dell’adolescenza

    Dimentica il mio nome: ai confini dell’adolescenza

    «Una cosa fatta di pietra e lavanda, di kvass e matrioske, di fuggiaschi e impostori e guerra e dolore e coraggio e paura mischiati a serie tv, punk hardcore, fumetti, merendine e Rebibbia. Dai, co’ sti presupposti potevo uscire peggio,eh.»

    (Zerocalcare, Dimentica il mio nome, BAO Publishing, p. 236)

    Siamo la somma di una serie di cose. Il risultato finale di un’addizione continua nel tempo di avvenimenti, incontri, esperienze, felicità e dolore. Il tutto costruisce la nostra personalità, il nostro carattere: ci identifica, traccia i nostri contorni. Zerocalcare ha ragione: siamo molto più di un nome segnato all’anagrafe. Il fumettista romano si lascia indietro gli zombie di Dodici e si allontana per un attimo dal rito del lunedì (o meglio dal rito di “ogni maledetto lunedì su due”) per riflettere sulle sue origini, sulla propria identità, sul suo passato, sulla sua famiglia. E proprio alla sua famiglia è dedicato questo suo quinto volume.

    Nonna Huguette muore e questo porta Zero a fare i conti con la fine dell’adolescenza, a realizzare di essere diventato un uomo senza essersene davvero reso conto, a combattere le paure di sempre. E, tra fantasia e realtà, tra rivelazioni scottanti e colpi di scena, il protagonista scopre la vera storia della sua famiglia, di sua madre e di sua nonna, mettendo insieme i pezzi di un puzzle straordinario, arrivando ad un finale assurdo ed inatteso.

    Una riflessione sulla crescita di un individuo, su ciò che lo ha condotto ad essere quello che è oggi, sui legami di sangue e sui passaggi fondamentali della formazione di qualcuno, passaggi che però molto spesso sfuggono e ci si ritrova adulti fuori quando dentro si è ancora ragazzi.

    Zerocalcare dimentica il mio nome

    Con la sua solita ironia e le sue solite grottesche personificazioni e allegorie, Zerocalcare questa volta ci commuove con una storia che potrebbe essere benissimo la nostra. Tra antenati “particolari”, sicurezze che crollano, volpi e orsacchiotti, il nostro eroe affronta la dura prova che lo attende con il fedele Armadillo al suo fianco e gli insegnamenti (se così vogliamo chiamarli…) di Ken Shiro. Sullo sfondo, come sempre, gli scorci di Rebibbia, quartiere di Roma al quale l’artista è profondamente attaccato.

    La nuova maturità raggiunta si riflette sul disegno, un disegno dal tratto ormai inconfondibile che si perfeziona di volta in volta senza perdere la sua semplicità, con i colori che acquistano significati ben precisi, un bianco e un nero che convivono e si fondono in cui compare in risalto come una fiamma ardente il rosso.

    Dimentica il mio nome ha un ritmo veloce senza punti morti e trascina il lettore che non può fare a meno di rimanere con il naso incollato alle pagine dall’inizio fino alla fine, scivolando leggero dalla malinconia alla comicità.

    Il bambino che ogni lunedì andava con la nonna allo zoo è cresciuto. Il quindicenne ribelle che campava di pane e punk è cresciuto. E tira fuori dal sacco qualcosa che si pone davvero sul confine tra romanzo e fumetto e che tocca corde a noi invisibili, raggiungendo quel posto nel cuore in cui ci sono le persone a cui vogliamo bene.

    «Ma poi quando si fa il passaggio da ragazzo a uomo? Possibile che non mi sono accorto che avevo finito il livello? Sicuro mi sono scordato di salvare… »

    E voi? Vi siete ricordati di salvare?

     


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  • Sin City: brama di peccato

    Sin City: brama di peccato

    Dopo quelli che sembrano essere stati eoni, eccomi di ritorno alla notoria rubrica delle origini. È di nuovo con noi Balloons, iniziata alle ultime luci dell’estate 2014 e ora risvegliata, come da un letargo annuale, alle prime avvisaglie dell’afa del 2015.

    Che stagione, l’estate.

    L’estate in quel di Pavia, poi, è qualcosa di speciale.

    Un caldo afoso in grado di ridurti a una palude vivente, seguito da impensabili escursioni termiche notturne utili per svegliarsi raffreddati.

    Zanzare grosse come vitelli, numerose come youtubers e voraci come tanti conti Dracula[tooltip tip=”Miiiii**hia!”][1][/tooltip].

    Il fecondo profumo del letame delle vicine campagne amplificato di nove gradi sulla scala Carcasse al sole dalla perenne afa.

    Qualcosa di poetico.

    Ciancio alle bande, dopo tutto questo tempo penso si possa saltare direttamente al sodo. Avviamoci dunque a un nuovo, esaltante numero di “Quando la trasposizione filmica diventa…”, con una sottile variazione. Nei mesi precedenti, un simile header avrebbe previsto la previa conoscenza tanto della graphic novel quanto, appunto, della trasposizione su schermo da essa ricavata. In questo particolare caso, ho deciso di apportare una variazione sul tema. Quella di oggi non sarà una recensione a posteriori, bensì una a priori. Non andrò a elencare le mie impressioni su un’opera; al contrario, enumererò le aspettative. E, altra sottile variazione, il medium di partenza non sarà l’inchiostro, sarà la pellicola.

    Mickey Rourke nei panni del brutale (e qui leggermente malmesso) Marv. La performance è valsa a Rourke un premio alla carriera in qualità di "unico attore vivente in grado di indossare un mento finto senza sembrare un perfetto idiota". Perché di un mento finto si tratta, vero? ...vero?
    Mickey Rourke nei panni del brutale (e qui leggermente malmesso) Marv. La performance è valsa a Rourke un premio alla carriera in qualità di “unico attore vivente in grado di indossare un mento finto senza sembrare un perfetto idiota”. Perché di un mento finto si tratta, vero?

    Sto parlando, per liberarmi del vocabolario incastrato tra le mie corde vocali, dei film di Sin City, e di cosa mi aspetto di trovare nell’omonima serie a fumetti.

    Cominciamo.

    I due film firmati Robert Rodriguez e targati, rispettivamente, 2005 e 2014, appariranno subito peculiari a gli spettatori. Con una palette cromatica che contempla quasi esclusivamente il grigio dominante e il rosso pomodoro che qualsiasi degno autore ritiene sia proprio del sangue umano, le pellicole portano sullo schermo il sapore originale della carta inchiostrata da Frank Miller, regalandoci un’esperienza unica. Un simile escamotage lascerebbe immaginare una resa dei colori affine anche nelle varie graphic novel; tuttavia, quel poco che ho potuto sbirciare sembra deludere questa prima aspettativa, affidando la vicenda narrata a stupendi bianchi e neri che, va detto, privano la violenza mostrata di parte del suo impatto scenico.

    Già.[tooltip tip=”Vi assicuro che il ricorso immotivato a secoli di comicità italiana totalmente casuale non è qualcosa di programmato. È più forte di me”][2][/tooltip]

    La brutalità rimane probabilmente l’elemento più caratteristico della serie: è tanta, spettacolare e immotivata. In una città popolata da gangster, papponi[tooltip tip=”Paparini Acquisiti, pardon. Mea culpa.”][3][/tooltip] e prostitute non è strano veder volare pallottole e scintillare coltelli. Meno nella norma sono le raffiche di frecce scagliate dal nulla, i lacci che compaiono da forche invisibili per stringersi al collo di ignare vittime e le katane orientali taglienti come possono esserlo solo in un’opera fittizia. Dalla carta devo aspettarmi qualcosa di identico, tuttalpiù reso meno surreale dal maggiore anonimato della bidimensionalità contro la parvenza di forzatura del 3D.

    La violenza di Sin City, tuttavia, è tutto tranne che ludica. L’opera ha il gusto solenne dell’epica classica, dell’eccesso mitologico. Le figure principali che calcano le strade insanguinate della città, pur descritte come una serie di disadattati e prostitute, non sono in grado di liberarsi dell’aura di invincibilità che le impregna. Persino la formularità espressiva, il continuo ritorno di frasi fatte legate sempre agli stessi personaggi, riecheggia lo stile omerico, i suoi epiteti e patronimici. L’esempio più calzante? Il martellante (e, devo confessare mio malgrado, rapidamente seccante) “Piccola, letale Miho”, ripetuto più o meno a ogni respiro della giovane assassina asiatica. Dalla carta, il medium che ha trasmesso l’epopea per secoli e secoli (secondo solo alla voce), non si può che pretendere una simile atmosfera, una fatalità brutale di achea memoria.

    Un’altra volta. Giuro, prova a dire quella frase un’altra volta e avrai a che fare col “pernicioso, machiavellico autore dell’articolo”.

    Colori, gore e solennità a parte, cosa si potrebbe chiedere a una serie come Sin City? Le mie ultime (ma non meno importanti) aspettative vanno a Marv, personaggio simbolo della serie. Interpretato da un azzeccatissimo Mickey Rourke, questo colosso incapace di fare qualsiasi cosa all’infuori di uccidere efficientemente ha dimostrato un’incredibile presenza su schermo. Con un trench sempre diverso sulle spalle, un sigaro in bocca e un mento squadrato che farebbe invidia a… a… qualsiasi proprietario di un mento molto squadrato, il titano di Sin City è veramente unico. Dall’originale creatura cartacea non posso aspettarmi che lo stesso.

    Che dire. Dall’opera di Miller non mi aspetto niente di più di quanto offerto dalla trasposizione di Rodriguez. È più facile esaudire poche aspettative, no?

    E ora, chiudiamo l’articolo in bellezza con del materiale riservato, finora inedito, che andiamo a dischiudere qui, oggi, per la prima volta.

    Sono in molti a essere rimasti perplessi di fronte alla sopracitata, eccessiva violenza di cui l’epopea di Basin City (lett. “Città del Bacino (marittimo, eh)”) si fregia come d’un marchio di fabbrica; giustamente guadagnandosi l’iconico nomignolo di Sin City (“Città del Peccato”). Recenti e autorevoli studi hanno indicato le cause di simili eccessi in uno scambio di battute paragonabile a quello ivi riportato:

    Interlocutore A, con aria faceta: “Hey, Interlocutore b, la conosci la barzelletta del peccato?”

    Interlocutore B, sinceramente interessato all’idea di apprendere una nuova facezia: “No!”

    Interlocutore A, convinto della carica ilare delle sue parole: “Peccato! Ahahahahah!”

    Interlocutore B, per nulla divertito dalla presunta facezia, ponderando sadicamente le sevizie a cui sottoporre l’Interlocutore A: “AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!”

    I ricercatori ritengono sensato che Frank Miller, sottoposto a simile conversazione, nel ruolo di Interlocutore b, da un Interlocutore a dalle proporzioni degne di Marv, abbia trovato una valvola di sfogo per la rabbia rifugiandosi nelle sue tavole… dando vita alla distopia (o utopia, per i fan del gore) più brutale nella storia del fumetto[tooltip tip=”O perlomeno, quella sarebbe stata la mia reazione. Disgraziatamente, l’essere venuto a conoscenza della facezia in forma scritta ha placato, almeno in parte, il mio furore omicida. Oh, beh.”][4][/tooltip].

  • L’iscrizione di San Clemente: il fumetto ante-litteram

    L’iscrizione di San Clemente: il fumetto ante-litteram

    Il 2 agosto 1876 James Butler Hickock, tramandato alla storia come “Wild Bill”, entrava nel saloon Nuttal & Mann’s di Deadwood, attuale Sud Dakota, per non uscirne mai più. Considerato da molti il più grande pistolero del West, Bill venne freddato a tradimento da un colpo alla nuca, non essendo riuscito, com’era solito fare, a dare la schiena al muro durante quella che sarebbe stata la sua ultima partita di poker. Al momento dell’assassinio, Hickock aveva tra le mani una doppia coppia d’assi e otto, di picche e fiori. Questa combinazione di carte nere suole da allora definirsi “la mano del morto”.

    Verso la fine del XI secolo a Roma, a un’abissale distanza spazio-temporale dal piccolo insediamento di pionieri e minatori di fine ‘800, veniva messo a muro quello che oggi è considerato il primo esempio di “volgare” italiano, nonché, probabilmente, uno dei primi antenati dell’odierno fumetto.

    Qual è il nesso tra questi due avvenimenti così diversi?

    Beh, non c’è.

    Eccezion fatta per il mio essere a conoscenza di entrambi, ovvio.

    Ci tenevo a menzionare entrambi. Per amor di coerenza[tooltip tip=”???”][1][/tooltip] e per ragioni di produzione, l’articolo di oggi dovrà vertere sul secondo fatto[tooltip tip=”A suo tempo, Wild Bill, a suo tempo…”][2][/tooltip].

    Chiarito questo punto, è lecito passare alla parte interessante.

    Iscrizione san clemente

    Il tema del giorno è la cosiddetta iscrizione di San Clemente e Sisinnio, sita nella basilica romana di San Clemente al Laterano.

    Il pezzo che ci interessa è il riquadro rettangolare in basso. La contemplazione delle restanti componenti dell’opera d’arte potrebbe in questo caso risultare nociva e spingere alla consultazione di effettive rubriche di approfondimento artistico. Siete stati avvisati.

    Il frammento in questione mostra tre loschi individui dalla linea invidiabile intenti, tramite tecniche che sfidano le leggi della fisica e quelle della tutela dei lavoratori, a trascinare una colonna; il tutto sotto la supervisione di un adulto in mantello rosso (mai andare in cantiere senza). Ad affiancare i quattro, una miriade di scritte fluttuanti.

    Un aiutino?

    L’ immagine narra uno dei miracoli attribuiti a S. Clemente (poi papa Clemente I), il quale, avendo spinto alla conversione Teodora, nobildonna romana moglie del prefetto Sisinnio, si sarebbe attirato le ire di quest’ultimo. La scena in alto mostra proprio il primo tentativo del patrizio di interrompere una delle funzioni di Clemente; scongiurato, com’è presumibile, da un prodigio divino. Deciso a non lasciarsi scoraggiare da una divinità che non scaglia fulmini, non ha calzari alati e non intrattiene rapporti con Afrodite, Sisinnio torna alla carica, stavolta portando con sé la cavalleria: i suoi servi Gosmari, Albertello e Carboncello, i cui nomi altisonanti e minacciosi ben si adattano alle corporature da top model (esatto, sono i tre di prima). Lo scopo dei quattro malintenzionati sarebbe trascinare via Clemente, ma il miracolo è di nuovo dietro l’angolo, e gli aguzzini si ritrovano, improvvisamente e senza accorgersene, a trascinare una colonna.

    Trad. “Una narrazione assai interessante, vecchio mio!” Ebbene sì, non ho la minima intenzione di liberarmene.

    Veniamo ora agli aspetti rivoluzionari della vicenda, ossia la comparsa del volgare e, al contempo, quella del fumetto: le “parole fluttuanti” di prima altro non sono che nuvolette, battute pronunciate dai vari personaggi. Siamo incappati in un protofumetto. L’elemento caratteristico, equivoco e tuttora non trasparente, in questo caso, è la disposizione delle battute stesse, che in apparenza sono a un tempo site a fianco del loro destinatario, e a un altro vicine a colui che le pronuncia, in assenza di una moderna pipetta.

    È nella diversa lingua attribuita ai personaggi, invece, che notiamo la dicotomia tra il latino, colonna portante (letteralmente, in questo caso… [Ba dum tss].) tanto della cultura romana quanto di quella cristiana emergente, e il volgare ancora primitivo, in via di sviluppo: si servono della seconda sia i tre lavoratori sia, paradossalmente, il patrizio romano, mentre il dominio della lingua colta (e, per associazione d’idee, “giusta”) rimane del  santo, il quale “off-screen” si prende gioco delle fatiche dei suoi aguzzini.

    Le battute dei vari personaggi, già esposti i debiti dubbi, sono quelle che seguono: “Falite dereto co lo palo, Carvoncelle“: “Fa leva da dietro col palo, Carboncello!”, in cui Carboncello è, apparentemente, il personaggio convinto che trascinare un uomo richieda un bastone per fare leva (e che, soprattutto, si accompagna a gente convinta della medesima cosa); “Duritiam cordis vestris, saxa traere meruistis“: “Per la durezza del vostro cuore, meritaste di trascinare pietre”, la frase di S. Clemente, pronunciata in latino; “Albertel trai“: “Albertello, tira!”, frase probabilmente pronunciata da Gosmari, il cui nome è scritto vicino al secondo personaggio da destra, quasi a indicarne la posizione in mancanza di qualcuno che gli si rivolga direttamente; “Fili de le pute traite“: questa è la frase attribuibile a Sisinnio, che, sovrintendendo l’intera operazione, incoraggia i suoi prodi con la frase “Tirate, figli di…”

    Oh cielo.
    Ok, forse il volgare ha anche qualcosa da spartire col turpiloquio.

     


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  • Roy Lichtenstein:  un inno feroce al culto delle immagini

    Roy Lichtenstein: un inno feroce al culto delle immagini

    Introduzione all’articolo ricca di retorica superflua e introdotta dagli usuali saluti, atta in apparenza a proporre un argomento a caso per poi vertere, improvvisamente o con delicata misura, verso il tema del numero odierno.

    Eh, sì. Sostenere che fossi a corto di idee per la stesura dell’incipit sarebbe un eufemismo. Preso atto della cosa, e non volendo suonare ridondante riproponendo una formula di cui mi sia già servito, ho deciso di affidarmi alla magia della descrizione generica. Sono quindi lieto di accogliervi, spettatrici e spettatori già comodi e ben preparati sul topic del giorno, al numero di Balloons dedicato, come anticipato, a…

    Non funziona, eh?

    E va bene. Riavvolgete tutto.

    Dopo essermi dilungato, nel corso dei numeri passati, a descrivere fumetti dei quali ho sostenuto, con dedizione e talvolta con ferocia, la dignità artistica, e dopo essere penetrato, per quanto brevemente (non escludo di parlarne nuovamente, in futuro) nel campo tanto dibattuto dell’intrattenimento videoludico, credo sia giunta l’ora di parlarvi di qualcosa a cui il mondo stesso ha voluto attribuire la nomea di arte. Il tutto senza volermi in alcun modo allontanare dal mio campo d’indagine.

    Roy Lichtenstein
    Nel caso ve lo steste chiedendo, Roy è quello sulla destra.

    Introdotto come si deve il tema odierno[tooltip tip=”Senza che vi scordiate dell’introduzione, eh. Credo anche quella possa meritare lo status di opera degna di conservazione per i posteri.”][1][/tooltip], lasciate che vi presenti la persona che, agli occhi del mondo e della cultura tradizionale, ha reso il fumetto arte: Roy Lichtenstein.

    Eh,  sì.  Con  una  faccia del genere e un dolcevita era impensabile questo individuo facesse qualcosa di diverso dall’artista.

    O dal critico cinematografico.

    O dal manichino espressivo con dolcevita.

    Considerato uno degli esponenti più alti del movimento della Pop art[tooltip tip=”Lo stesso al quale, per chiunque non l’avesse ben presente, si lega il nome di Andy Warhol/uomo della zuppa Campbell/uomo della Monroe psichedelica/altro dolcevita.”][2][/tooltip],  Roy Lichtenstein è noto per il suo “riuso” di vignette tratte direttamente da albi a fumetti, da lui colorate in maniera vivace tramite la tecnica della retinatura. Tale procedimento, che consiste nell’applicare il colore attraverso una griglia traforata, delineando quindi le sfumature tramite una miriade di punti, viene messo a nudo nelle vignette ingigantite dall’artista, rivelando la colorazione  composta da una miriade di puntini, impercettibile nel piccolo spazio del disegno originale, ma dolorosamente visibile nel risultato finale; un po’ come le foto di classe rivelano e intensificano in maniera lampante la gravità dell’acne facciale.

    Se l’arte di Lichtenstein si fermasse qui, credo sarebbe difficile attribuirgli lo status di “artista”. Ciò che conferisce a questo signore, americano di provenienza ma europeo in maniera impronunciabile di cognome, la dignità di un Picasso o di uno Chagall (per restare in anni recenti, senza andare a scomodare i pittori e gli sperimentatori che già praticavano centinaia d’anni fa), è, come per molti creatori d’arte moderna, il messaggio che si cela dietro alle sue produzioni grafiche.

    Roy Lichtenstein 1963

    L’arte moderna, per quanto mi riguarda, è puro concetto, è idealismo, è il trionfo della teoria sulla pratica artigianale e accademica. Che i risultati a cui perviene non mi siano sempre graditi è lungi dall’essere un segreto. Sarà un luogo comune, ma che un qualsiasi idiota possa disegnare un omino stilizzato su un opossum usando il cerume delle sue orecchie (ogni riferimento a fatti, cose e persone reali è totalmente casuale. Dico sul serio. Nel caso qualcuno avesse davvero disegnato un omino stilizzato su un opossum usando il cerume delle sue orecchie, PRETENDO UN LINK) e spacciare il tutto per una metafora della vita  e  guadagnare milioni mi sembra una cosa totalmente fuori dal mondo.

    Grazie a quali concetti, dunque, Roy Lichtenstein viene elevato al di sopra di un qualunque disegnatore di opossum e definito artista?

    Le riproduzioni fotografiche di Lichtenstein sono emblemi della banalizzante informazione di massa, un inno feroce al culto delle immagini che nel corso del ‘900 ha guadagnato sempre maggior terreno nella vita di tutti noi. Nel separare la parte dal tutto, nello strappare un filo alla maglia della visione pubblicitaria e commerciale, isolandolo e mettendone in luce le deformità, l’artista newyorkese si confà ai temi canonici della Pop art in maniera sofisticata e personalissima, dimostrando grande visione critica dell’innovazione ruggente della modernità.

    Potreste trovare contraddittorio il fatto che, nel mio elogio della letteratura a fumetti, io abbia voluto portare alla ribalta il lavoro di un artista che ha sviluppato  il  suo  sistema  proprio  mettendo  in  luce  le  “debolezze” della vignetta, intesa come valvola di sfogo di una cultura in cui l’immagine industriale e capitalista si è fatta preponderante. Rispondo, con grande semplicità, sostenendo il valore intrinseco dell’opera di quanti, impugnando penna o matita, siano in grado di dare vita a tavole inchiostrate al livello di quelle che hanno funto da materiale per Roy Lichtenstein (e a voialtri disegnatori di opossum ribadisco: fatemi vedere cosa sapere fare). Non dimentichiamoci poi come, nel panorama del fumetto come in qualsiasi altro, ci siano opere e opere. Dubito fortemente che un prodotto della qualità e della profondità di Watchmen sarebbe stato “banalizzabile” dalla retinatura dell’artista newyorkese[tooltip tip=”Ebbene sì, altri elogi gratuiti dell’opera di Moore. Deal with it.”][3][/tooltip].

    Concludo, dopo avervi “innalzati alle vette” con un numero dedicato effettivamente all’arte, dicendovi che il fumetto, di contro, può toccare anche il “fondo” di quello che è comunemente avvertito come il sentire comune, senza che la cosa sia sempre negativa. Forse avremo modo di parlarne…

    Alla prossima.

    Opossum
    Nessun opossum è stato maltrattato durante la stesura di questo articolo. Avete la mia parola.

     

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    PS: il numero odierno ha segnato una sorta di “ritorno alle origini” in relazione alle mie esperienze personali. Per ora non aggiungo altro. Forse un giorno vi dirò di più. Ci tenevo solo a farvelo sapere.

  • Il blu è un colore caldo: Julie Maroh e Abdellatif Kechiche

    Il blu è un colore caldo: Julie Maroh e Abdellatif Kechiche

    Un focolare color cielo

    Inizio con lo scusarmi per il “salto di pubblicazione” che, vi sarete accorti[tooltip tip=”Oppure no… In tal caso, saltate questo paragrafo mentre la mia dignità autoriale corre in bagno a tagliarsi le vene.”][1][/tooltip], la rubrica ha subito due settimane fa, per motivi che vorrei definire “cause di forza maggiore”.

    Ora, per ributtarci nel pieno dell’azione, possiamo cominciare dalla questione del titolo lasciata sospesa l’ultima volta, poiché credo di aver trovato un compromesso che compromesso non è: d’ora in avanti, ciascun numero avrà un titolo tutto suo che esulerà dal semplice “Nome dell’opera”, e gli eventuali “titoli a mezza pagina” resteranno tali. Agli atti, più che di un compromesso assente, stiamo parlando di un capriccio arbitrario del vostro autore; un capriccio sul quale sono sicuro potrete sorvolare.

    Primo esempio di questa “verve onomastica” è quello che avete cliccato per leggere queste righe. Spero sia un link di vostro gradimento.

    Ciò detto, proseguiamo come da copione.

    Il blu è un colore caldo: quando la trasposizione filmica diventa… Sesso lesbico.

     

    Ritengo che molti di voi, a questo punto, siano completamente indifferenti al titolo, mentre il risultato della trasposizione filmica vi stia intrigando.

    Il pulce è un colore minaccioso
    Il pulce è un colore minaccioso.

    Scherzi  a  parte,  mettiamo  un  po’  d’ordine  nella  testa  di  chi  non  abbia familiarità con l’opera: la graphic novel Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, annata d’oro 2010, è la “fonte” della pellicola di Abdellatif Kechiche La vita di Adele, che nel 2013 si è aggiudicata la Palma d’oro di Cannes.

    Does it ring a bell now?[tooltip tip=”L’incapacità mia di rendere l’italiano Vi dice niente ora? in maniera meno personale mi ha spinto a usare l’equivalente inglese. Accetto suggerimenti. E animaletti di cartapesta.”][2][/tooltip]

    Per chi non lo sapesse, il film in questione, per quanto elogiato all’infinito dalla giuria, è stato oggetto di un numero non inferiore di critiche per il modo (in apparenza) tirannico in cui il regista ha voluto gestire la sua troupe. Ciò che, tuttavia, ha davvero sconvolto il mondo del cinema, è la mole inusitata  di  scene  di  sesso  esplicito  che hanno occupato una discreta fetta della pellicola  e coinvolto  le  due  protagoniste della vicenda, Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos; scene che, a dire dell’autrice della graphic novel, erano estranee alle sue vignette inchiostrate.

    Proprio il sesso è stato da molti indicato come il principale margine di differenza tra le pagine di Maroh e i fotogrammi di Kechiche. Tuttavia, se mi è concesso dire la mia (e qualcuno, a questo riguardo, ha avuto la cortesia di mettermi a disposizione una rubrica bisettimanale), è su un altro aspetto che si misurano le distanze tra l’opera del 2010 e la sua trasposizione del 2013.

    A differenziare “Il blu è un colore caldo” da “La vita di Adele” non è il tempo “a schermo” dedicato a due ragazze che si contorcono in posizioni sempre più complesse (il sesso e la nudità li aveva già tirati in ballo e raffigurati la giovane autrice francese, per quanto in via meno estrema), bensì due approcci diversissimi a una pregnante, toccante storia d’amore tra una coppia di persone.

    Julie Maroh il blu è un colore caldo

    Se il film di Kechiche indulge in simposi saffici e filosofici, nel rapporto tra arte e sessualità e nel dolore infinito delle relazioni infrante, il volume di Maroh è una storia che, per quanto profonda, ci si presenta nella sua immediatezza, in una sua ingenuità (prestatemi un’accezione positiva del termine) deliziosamente adolescenziale e infinitamente tenera, in tavole bianconere dove il blu del titolo, fedele al suo ruolo, svetta come una fiaccola, illuminando una storia i cui i personaggi sono più loquaci, rumorosi e simpatici delle figure discrete e silenti che appaiono e scompaiono nel film, che contemplano il mondo con gli occhi di chi sa di muoversi all’interno di una grande opera.

    Che dire, dunque, delle mie preferenze al riguardo?

    Confesso che il fumetto ha toccato corde più profonde di quelle raggiunte dal film,  ma  non  credo  ciò  debba  svalutare  la  pellicola.  Queste  due  opere, ruotanti attorno alla stessa vicenda, sono a mio parere da osservare e godere separatamente, affidate  a  un  giudizio  individuale.  In  ogni  caso, consiglio vivamente entrambe[tooltip tip=”Nel caso vogliate fare vostre entrambe le opere, tuttavia, comincio col prepararvi psicologicamente: la Adele del film nell’originale inchiostrato fa di nome Clémentine, Clem per gli amici. Giusto perché siate pronti.”][3][/tooltip].

    Concludo il numero odierno con una chicca che con quanto detto finora ha ben poco a che fare.

    Dovete sapere che, nel mio caso, la visione del film ha preceduto la lettura del fumetto: la prima ha avuto luogo nella penombra rassicurante di una sala di proiezione pavese destinata,  quella  sera,  a  pellicole “intellettuali”;  la  seconda  sotto  le  luci insistenti del Como-Pavia Trenord, una domenica soleggiata.

    seppia
    Il seppia è un colore erotico.

    È proprio sulla prima istanza che vorrei concentrarmi (e concentrarvi). Lasciate che classifichi,  in  maniera  rapida  ma neanche troppo approssimativa, le reazioni degli spettatori alle “scene hard” incriminate nella pellicola di Kechiche, avvalendomi a questo scopo del mio impeccabile (???!!!) francese.

    1) Le Moralist: prevalentemente over 60, impegnato/a ad argomentare l’oscenità delle vicende a schermo con la/il propria/o consorte col massimo tono di voce a sua disposizione; in assenza della/l partner, probabilmente, alcuni/e di loro sarebbero scalati/e nella categoria 2).

    2) Le Arrapeu: fascia d’età indefinita tra i 15 e i 50, i cui elementi hanno osservato con la massima attenzione l’avanzamento delle scene in corso senza proferire parola, ma limitandosi a riporre la giacca a vento sulle gambe, ovviamente per evitare di calpestarla accidentalmente.

    3) Le votre Auteur: in teoria ventenne, ma tacciabile di età indefinita, ha trascorso il tempo ridendo come in preda a un raptus isterico al pensiero che, al successivo cambio di inquadratura e al relativo cambio di posizione, le  due  amanti  sarebbero  apparse  fuori  dal  loro  appartamento, sedute gambe a penzoloni sul ramo di un albero, passandosi una sigaretta con pacata lentezza[tooltip tip=”Non chiedete. Davvero.”][4][/tooltip].

    4) Le Pierrot: età variabile, include tutti coloro che non rientrano nelle categorie sovra elencate.

    Davide, chiudo. Al prossimo giro!

  • 300, il film e il fumetto: zanne e castrazione

    300, il film e il fumetto: zanne e castrazione

    Devo assolutamente trovare dei titoli con una verve superiore a “Titolo dell’opera“. D’altro canto, temo che estendere la formula “Titolo dell’opera: quando la trasposizione filmica diventa… Caratteristica propria della trasposizione filmica” all’intero articolo risulterebbe non solo gravoso per lunghezza, ma anche per le profanità che avreste (e avete avuto) modo di trovare nel ruolo di “Caratteristica propria della trasposizione filmica“.

    Penserò a qualcosa.

    Per intanto, lasciate che questo issue peschi a piene mani da temi cari alla rubrica Origines (NB: per quanto distorti e non raffigurati nella loro assoluta storicità), presentandosi ai vostri occhi con il…

    Titolo a mezza pagina!

    300: Quando la trasposizione filmica diventa… Zanne e Castrazione.

    Ribadisco, devo trovare un altro modo di porla, però mi fa ancora un certo effetto.

    Ora, la domanda che credo molti di voi vi starete ponendo al momento è la seguente:

    Maaaa (numero variabile di “a”)… Di 300 c’è anche il fumetto?

    Ebbene sì, amici miei. E precede di 9 anni il film di cui tutti, bene o male, avrete sentito parlare. Ideato da Frank Miller e colorato da Lynn Varley, è stato proprio quest’albo formato 17×26 del 1998 a introdurre il concetto di assoluta figaggine degli allora trascurati Spartani, riaffermato nel 2007 dal film di Zack Snyder, lo stesso regista menzionato solo un articolo fa per Watchmen.

    Non so voi, ma già questa a me pare una sorta di garanzia.

    Senza menzionare il fatto che Miller abbia collaborato col regista alla trasposizione filmica della sua opera, a differenza di Moore per il già criticato “film di V per Vendetta” (che alcuni ritengono si chiami “V per Viulenza”, con Diego Abatantuono nel ruolo di punta).

    300 fumetto
    La figaggine non conosce limiti di mezzi.

    Parto dal presupposto che tutti (o quasi) abbiate in mente il film, almeno per sentito dire o per aver visto un trailer, e possiate quindi visualizzare con relativa chiarezza il particolarissimo stile grafico e fotografico, la brutalità e il carattere iconico di diverse scene (più simili a dei quadri che a delle sequenze tese alla narrazione, a mio parere), e, come già affermato, la badassness (equivalente gergale inglese dell’italiano “figaggine“, già di per sé improprio e usato a sproposito) degli opliti in rosso, ciascuno dei quali equiparabile per potenzialità belliche a un elicottero Apache.

    Sappiate che tutti questi elementi il film li trae dalla graphic novel con una fedeltà più che encomiabile, utilizzando il medium filmico per rafforzare ulteriormente lo slancio vitale (e mortale, per l’opera in questione) proprio delle tavole di Varley, i colori spenti e terrosi del quale sopravvivono nel film grazie alla particolare scelta della regia, addolciti (si fa per dire, sempre considerata l’opera) soltanto dalla giustapposizione con il bagliore scarlatto dei triboni (si definiscano tali i “tostissimi mantelli“) delle trecento macchine da guerra bipedi.

    Tra le differenze fumetto/film più “innocenti” possiamo fare menzione del carattere paterno del Leonida inchiostrato, il quale tra l’altro esprime indirettamente i suoi pensieri nel corso della vicenda e appare leggermente più avanti cogli anni rispetto al Gerard Butler del film, e una minor presenza “a schermo” della sua dolce consorte rispetto alla regina lacedemone in carne e ossa interpretata da Cersei Lannist… Lena Headey.

    300
    Come dicevo, nessun limite. Leonida, poi, è felicissimo di vedervi. No, non ha una banana in tasca.

    Per quanto concerne mutamenti più “tosti”[tooltip tip=”Quest’abuso di termini gergali è ovviamente legato all’intrinseca epicità della vicenda trattata, che non accetterebbe altro livello linguistico al di fuori di questo)”][1][/tooltip]

    Francamente, non so con precisione come introdurre l’argomento. In questo particolare caso, credo potrei servirmi impunemente della produzione del noto e apprezzato YouTuber yotobi (no, non è un gioco di parole), che presumo molti di voi abbiano in mente, indirizzandovi al minuto 10:02 del suo ormai vecchio video sul film Amore 14.

    Ok. Avete visto?

    Bene, posso procedere. Immaginate che, nello scrivere (e al contempo pronunciare) ciò che segue, io abbia usato la sua stessa intonazione, nonché assunto la medesima espressione.

    PENI?!

    “Fedele” più del film a certi aspetti dell’antica grecità, nel fumetto la nudità maschile è preponderante. Già. Nulla di sconvolgente, bambine e bambini, ma qualcuno (me incluso) potrebbe tendere più verso la ” castrazione” (come da titolo) dei vestiti[tooltip tip=”Sempre che degli slip di cuoio possano definirsi vestiti, ma che si può pretendere: andare in battaglia più coperti di così sarebbe l’onta di qualsiasi lacedemone che si rispetti.”][2][/tooltip] applicata nel film

    Il secondo aspetto controverso, stavolta tanto per noi quanto per gran parte della critica, è la resa filmica delle “cento nazioni dell’impero persiano”: se nel fumetto, fatta eccezione per qualche piercing qua e là e per un Serse decisamente fuori dalla norma[tooltip tip=”Eh sì, è così anche nella graphic novel. Conciare Rodrigo Santoro in quel modo non è stata un’idea del costumista.”][3][/tooltip], l’esercito persiano appare abbastanza consono a una storicità fittizia, nel film paragonare i soldati del Gran Re alle schiere dell’inferno non sarebbe forse un’esagerazione, vista la quantità di zanne, fattezze diaboliche e masse impossibili esibite soprattutto nelle scene relative al corpo degli Immortali. Scelta malevola o semplice esibizione di “mirabilia” di un impero sconfinato? Non si può dire per certo. Senza dubbio, ottimo modo per attirarsi le inimicizie degli attuali abitanti di quelle terre esotiche e misteriose, ma di certo poco demoniache.

    Efialte, c’è da dire, resta piuttosto bizzarro in entrambi i medium. Le mie personalissime e sentitissime scuse nel caso la mia ignoranza di patologie mediche diventi esplicita a un lettore di questo articolo nelle sue precise condizioni.

    Ok, abbiamo detto tutto, credo.

    Non devo farlo. Trattieniti. Trattieniti. Tratt…

    Oh, al Diavolo.

    Vi lascio con una morale: mai edificare una città vicino a un pozzo senza fondo. Passo e chiudo.

  • Watchmen, un’elegia al genio di Moore e alla mano di Gibbons

    Watchmen, un’elegia al genio di Moore e alla mano di Gibbons

    [vc_row][vc_column][vc_column_text]Salve a tutti.

    È con piacere che vi presento oggi il terzo numero della rubrica Balloons, nonché il secondo della “sottorubrica fuggitivaNome dell’opera: quando la trasposizione filmica diventa… Caratteristica propria della trasposizione filmica. Non avendo pretenziose premesse da fare o bizzarri punti da chiarire, questa volta avremo modo di andare subito al sodo, senza che il vostro redattore sia costretto a tediarvi e a sprecare le battute garantitegli per altro.

    Titolo a mezza pagina!

    Watchmen: quando la trasposizione filmica diventa… un’eguale figata.

     

    Era una vita che volevo dirlo.

    Scriverlo.

    Vabbé.

    Watchmen Illustrazione
    No amici, questo NON è lo Slenderman. Non ho detto che potete tranquillizzarvi.

    Ma ogni cosa a sua tempo.

    Watchmen si può ritenere, alla base, come un fumetto di supereroi, una volta considerate le generiche spunte sull’apposita lista:

    – Design colorato, magniloquente e vivace? C’è.

    – Gente in maschera, calzamaglia o abbigliamento imbarazzante d’altro tipo che fa cose al di fuori della norma? C’è.

    – Cattivone di turno? C’è.

    Questi sono gli assunti di partenza da considerare per approcciarsi al mattone giallo-nero targato DC Comics. Tenete queste certezze inequivocabili bene a mente perché, fin dalle prime pagine, esse saranno modificate, distorte, stravolte completamente e manipolate come più piacerà al genio creativo dell’autore.

    Ambientato all’incirca all’età della sua stesura (1985), il fumetto prevede una realtà alternativa nella quale Nixon (sotto le strette direttive, è ovvio, del suo naso), scongiurato lo scandalo Watergate, continua a tenere gli States sotto il suo controllo. In questo mondo in bilico sul precipizio della guerra atomica tra blocco occidentale e orientale, la criminalità in costante aumento trova un degno avversario nel sempre maggior numero di vigilanti (o “watchmen“), persone (più o meno) comuni che, indossata una maschera (o, in determinati casi, a viso scoperto), decidono di opporsi alla violenza… combattendola con la violenza.

    Beh, dai, questa è una prerogativa anche dei supereroi “standard”, diciamocelo.
    A disgregare la familiarità dell’ambiente finora delineato concorrono tanto la dura, repressiva reazione popolare e governativa a questi eroi improvvisati, lontana eoni dall’odi et amo (pretenziosa locuzione latina per un rapporto di amore-odio) di Jonah Jameson per il simpatico arrampicamuri di quartiere[tooltip tip=”Per i meno esperti: riferimento a Spiderman, l’unico intruso in questa rassegna di personaggi DC Comics.”][1][/tooltip], quanto, soprattutto, gli stessi protagonisti della vicenda: i watchmen non sono stati spediti sulla terra dal pianeta Krypton per fare del bene[tooltip tip=”Come sopra, Superman.”][2][/tooltip], né hanno potuto imparare i valori della giustizia grazie all’omicidio dei genitori[tooltip tip=”Batman.”][3][/tooltip].

    Sotto le forme variegate (e mutevoli, nel caso di Rorschach) delle loro finte fattezze, quasi tutti i supereroi di questo “universo” sono quanto di più lontano ci sia dalla perfezione, vittime di atteggiamenti, umori, demoni del passato e persino patologie psichiatriche che, accostando la figura immacolata del divo in calzamaglia a quella poliedrica e fallace dell’essere umano, gettano probabilmente le fondamenta per le revisioni “a tutto tondo” dei supereroi moderni.

    gufo notturno watchmen
    Gufo Notturno approva il contenuto di quest’articolo, e non ha alcun problema a farcelo notare.

    Ad approfondire la conoscenza dei personaggi primari dell’opera (sei “individui”- nell’accezione più curiosa del termine- ai quali si conferisce la medesima importanza rendendo duro, se non impossibile, identificare un effettivo protagonista della vicenda) concorrono tutta una serie di espedienti narrativi, dai semplici flashback alle conversazioni fino agli inserti di fine capitolo, vera e propria documentazione proveniente dall’universo alternativo al quale andiamo avvicinandoci pagina dopo pagina, pannello dopo pannello, atta a valorizzare sia gli attori della vicenda sia la vicenda stessa in quanto palcoscenico di un’umanità che pare specchio fedele della nostra.

    Ora, dopo aver speso tante e tali parole per esprimere al meglio l’ossessione feticistica del vostro autore per questa graphic novel, cosa dire della trasposizione filmica del 2009 diretta da Zack Snyder?

    Nulla di diverso da quanto ho detto finora.

    Watchmen (film) è la trasposizione filmica di Watchmen (fumetto).

    Fedele ai pannelli inchiostrati in maniera quasi ossessiva, la pellicola di Snyder è un’elegia al genio di Moore e alla mano di Gibbons, ricostruendo nel dettaglio la totalità dell’albo in un lungometraggio che quasi sfiora le tre ore di lunghezza; un lasso di tempo che, secondo il mio modesto parere, merita di essere goduto dai titoli di testa a quelli di coda.

    Le differenze più “notevoli” che avrete modo di riscontrare, meglio definibili, agli atti, come mere “innovazioni” tese a mantenere il film al passo coi tempi, sono una resa leggermente più cupa delle atmosfere e delle sequenze di combattimento decisamente più crude di quelle “classiche” presenti nelle tavole. Nulla di troppo hardcore, s’intende, però… non si sa mai.

    Lodevolissima l’introduzione filmica, capace in meno di 5 minuti di darci un’idea, per quanto abbozzata, di discreta parte delle vicende secondarie del fumetto, nonché di immergerci fin da subito nell’ambiente vivo del comic.

    rana gif
    LEGGETELO. LEGGETELO. LEGGETELO.

    Beh, credo di avervi detto tutto ciò che avrei potuto dire senza sprofondare nel mare dannato degli spoilers. Il contenuto di questo verboso articolo, con tutta probabilità, si può riassumere in una manciata di parole: LEGGETEVI Watchmen, e poi GUARDATEVELO. Non resterete delusi.

    Spero la prepotente presenza di GIFs in questo numero non vi sia risultata seccante. In caso contrario, mi assicurerò di inviare l’Ipnorospo a casa vostra per farvi cambiar… di evitarle nel prossimo articolo.
    Per oggi è tutto. A presto![/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]


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  • V per Vendetta

    V per Vendetta

    [vc_row][vc_column][vc_column_text]Amiche e amici, bentornati. Sono lieto di presentarvi il secondo numero di Balloons, la rubrica random su fumetti (e argomenti affini) random gestita da un autore random.

    Dopo aver allestito il mio teatro di marionette annunciando la casualità lunatica delle uscite a venire, vi propongo, cari lettori, uno scoglio di senso tra le onde vorticose d’un mare di pensieri irrelati: una serie di uscite da dedicarsi a un medesimo argomento. Spero che la cosa non vi risulterà gravosa, e anzi, che riuscirete ad apprezzarla, lungi da me togliervi il gusto[tooltip tip=”Perché di gusto si tratta, vero? … VERO?”][1][/tooltip] della lettura per la rubrica che, sotto diversi punti di vista, dovrebbe darvi licenza, almeno per un po’, di spegnere il cervello.

    Senza dimenticarvi, nel caso dovessero capitarvi tra le mani le opere di cui andrò trattando, di riaccenderlo. La linea tra fumetto e arte si farà sottile se non eterea.

    Ciò detto, il “macrotopic” che mi avvio a iniziare è qualcosa di cui tutti avrete sentito parlare: le trasposizioni filmiche di opere letterarie, contestualizzate, si capisce, al fumetto. Andrò, di numero in numero, a prendere in esame tanto l’opera originale quanto il risultante su pellicola, servendomi, di volta in volta, della riduttiva quanto mai esplicativa frase:

    Nome dell’opera: quando la trasposizione filmica diventa… Caratteristica propria della trasposizione filmica.

    Vi
    No, questa è Vi, non V.

    Direi di applicare subito tale formula con l’inserzione di un bel titolo a mezza pagina, che ponga (finalmente) un termine al mio soliloquio programmatico per dare inizio a un soliloquio pertinente all’argomento.

    “Applausi poco convinti”

    V per Vendetta: quando la trasposizione filmica diventa… Materia organica.

     

    V per Vendetta (in originale V for Vendetta, con un lodevole italianismo) è una graphic novel degli anni ’80 “ideata” da Alan Moore (e già questa potrebbe ritenersi una garanzia) e virtuosamente illustrata da David Lloyd. Il concept di quest’opera d’arte, banalizzato all’inverosimile e privato di buona parte dei suoi significati più profondi (e sono parecchi) si potrebbe descrivere così:

    “V, un terrorista con indosso una maschera baffuta e imbellettata (sì, è quella degli Anonymous: tutto è cominciato qui), caratterizzato da una passione quasi erotica per la lettera V e per il numero cinque, fa saltare in aria buona parte degli edifici storici d’Inghilterra e quanti sono all’interno, uccidendo a pugnalate coloro che non riesce a far saltare in aria.” FINE

    La trama, così espressa, è uno sputo sull’intera opera di Moore e Lloyd. Eppure, duole dirlo, è proprio da un concept semplificato all’inverosimile che sembra partire la trasposizione filmica del 2006, diretta da James McTeigue[tooltip tip=”Al quale dobbiamo un The Raven targato 2012 che, per quanto criticato, al primo impatto mi aveva lasciato una buona impressione.”][2][/tooltip].

    Anonymous
    Neppure questi sono V. Kudos a quello in mezzo per gli occhiali, comunque.

    Mettiamo le mani avanti: preso individualmente, il film “V per Vendettanon risulta brutto, né come tale l’ha riconosciuto la critica strettamente “cinematografica”. Il copione dei Wachowski funziona, e il “mostly British” cast di veterani ha fatto un ottimo lavoro: Hugo Weaving, pur celando la faccia dell’agente Smith dietro alla maschera sovracitata (la quale rappresenta il wannabe-rivoluzionario inglese Guy Fawkes), è un terrorista dal cuore d’oro credibile, e lo stesso si può dire per John Hurt e Stephen Rea, i quali vestono i panni, rispettivamente, del cattivo e del cattivo indeciso.

    Quello di cui mi lamento, e di cui si è lamentata la critica “informata”, è altro: V per Vendetta (film) non è la trasposizione filmica di V per Vendetta (fumetto). O perlomeno, non è altro che uno spettro, una larva evanescente delle pagine di Moore e Lloyd.

    Il regime fascista di matrice orwelliana, xenofobo e ultra-conservatore, che avevamo imparato a conoscere (e odiare) nell’albo, ha lasciato il posto a un partito politico up-to-date, che, per quanto forte di tratti reazionari, e anzi, proprio in virtù di questi tratti, stona con l’ambientazione “futuristica” e con la libertà che percepiamo offerta alle persone nella pellicola[tooltip tip=”Per non parlare dei televisori a schermo piatto. Nessun regime totalitario e ultra-conservatore degno di tale nome permetterebbe l’uso di televisori a schermo piatto.”][3][/tooltip].

    Lo smacco più grande agli autori, tuttavia, arriva proprio celato sotto la maschera di colui che è il motore dell’opera: un V cartaceo con ideali rigorosissimi, infallibile, sicuro di qualsiasi cosa faccia, immobile sulle sue posizioni, una figura più simile a un ideale che a un uomo, sostenitore di un’ideologia politica marmorea (che la si condivida o no, certo), ridotto nel film a una sagoma romantica, permeata di sentimentalismo e di umana fallacia per avvicinarla al pubblico, privata di ogni sua ideologia che non sia distruttiva o malinconica e fatta protagonista di spettacolari sequenze di lotta corpo a corpo per sopperire alle sue intrinseche mancanze[tooltip tip=”Più senso avrebbe avuto chiamare il film R per Rambo. La gente sarebbe andata a vederlo con un altro spirito, finendo per apprezzarne il copione e il concept più elaborati della norma.”][4][/tooltip].
    V per vendetta

    Il fatto che nella pellicola ci sia concesso di vedere, per quanto brevemente, la mano del protagonista, non fa che tradire quell’intangibilità che lo caratterizzava nella graphic novel[tooltip tip=”Il grembiule da cucina rosa ricamato indossato dal nostro in quel frangente non è d’aiuto. No, non sto scherzando.”][5][/tooltip].

    Senza considerare tutte le vicende parallele alla narrazione primaria, ignorate quasi completamente. Non che si possa pretendere tutto da una trasposizione di 2 ore, s’intende; ma, sommato a quelli sopra citati, anche questo aspetto fa sentire il suo peso.

    Dunque, per tirare le somme, il V per Vendetta filmico, preso individualmente, è una produzione di un certo spessore forte di un cast all’altezza della situazione. Tuttavia, se nell’osservare l’evolversi della vicenda a schermo avremo nella mente e nel cuore la graphic novel, non riusciremo a lasciare la sala senza l’amaro in bocca.

    O perlomeno, così la pensa l’autore di un articolo random su Internet.

    Grazie della vostra attenzione.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column width=”1/4″][/vc_column][vc_column width=”1/2″ css=”.vc_custom_1654273498657{padding-top: 6vh !important;padding-bottom: 6vh !important;}”][thb_button size=”large” color=”transparent-accent” link=”url:https%3A%2F%2Fstoriesepolte.it%2Fwatchmen%2F|title:Continua%20il%20percorso”][/vc_column][vc_column width=”1/4″][/vc_column][/vc_row]

  • Dorohedoro di Q Hayashida

    Dorohedoro di Q Hayashida

    Gentili lettrici e lettori, salve.

    Avviandomi alla stesura d’una rubrica nuova, tanto per quanto riguarda questo sito, tanto per quanto concerne la mia stessa esperienza, ritengo sia doveroso porre delle premesse.

    In tutta onestà, dubito di potermi definire più di un discreto lettore di fumetti. Il mio interesse per questo genere letterario[tooltip tip=”Arrivare a definirlo tale credo sia l’assunto di base, perché l’articolo che avete sotto mano possa a ragion veduta figurare tra quelli del sito… sempre che il suo scopo non sia proprio quello di gettare l’ultima palata di polvere sul tumulo funerario, s’intende. In tal caso, provvederò ad assumere la mansione di becchino, sperando sia remunerata.”][1][/tooltip] non è né arcaico, né tantomeno profondo quanto quello di molti appassionati delle serie più variegate. Le mie modeste conoscenze esulano, perlopiù, dalla sfera dei comics supereroistici americani e dalle produzioni italiane e il mio apprezzamento per i manga giapponesi, per quanto notevole, ritengo difficilmente possa eguagliare quello di tutta una schiera di otaku, senza dubbio ben più preparata di me.

    L’idea di stabilire un percorso unitario all’interno della mia umile recensione del mondo delle vignette illustrate, non solo mi sembra assai lontana da quello che penso sia lo spirito della letteratura a fumetti, ma credo finirebbe per fare letteralmente a cazzotti[tooltip tip=”Perdonate il francesismo.”][2][/tooltip] con quello che di recente ho identificato come l’aspetto lunatico del mio carattere.

    Dorohedoro copertina
    Dopo aver visto quest’immagine, vi mancherebbe seriamente il cuore di leggere un simile fumetto? … Ok, lo ammetto: dopo una battuta del genere dovrei tentare il suicidio strofinando il cranio contro un rotolo di carta vetrata.

    Col consenso della direzione, dunque, credo mi arrogherò il diritto di andare “là dove mi porta il vento” nelle varie stesure che ci vedranno affiancati, rispettivamente redattore e lettori. Che questo faccia di me una banderuola oppure un Jack Sparrow sbarbato (e decisamente meno aitante), lascio a voi il verdetto.

    L’argomento di questo primo articolo, seguendo l’onda random che ho poc’anzi annunciato, è stato scelto per mero capriccio e dietro la sua presentazione frontale e immediata, non si nascondono motivi degni di nota o pertinenti a quelle che saranno le stesure successive.

    Lasciate dunque che vi introduca, care lettrici e cari lettori, il manga Dorohedoro, di Q Hayashida.

    Come una mangaka (ebbene sì, è con una lei che abbiamo a che fare: un occhio di riguardo signori!) possa chiamarsi Q, mi risulta nebuloso almeno quanto il titolo dell’opera, che le mia discreta conoscenza del giapponese[tooltip tip=”Si definisca tale la capacità di urlare a squarciagola, anche in sede differente, i nomi che i vari personaggi degli shōnen manga assegnano alle loro tecniche, allo scopo di renderle totalmente imprevedibili per l’avversario; il tutto, chiaramente, in perfetta fonetica nipponica.”][3][/tooltip] non ha saputo interpretare. Voglio sperare il primo sia uno pseudonimo. In quanto al secondo… mi affiderei, se possibile, all’aiuto di qualcuno notevolmente più otaku di me nella schiera del pubblico[tooltip tip=” Approfitto di questa parentesi per precisare che la connotazione che voglio dare a questo termine non è assolutamente negativa, riconoscendomi anzi parte, per quanto assai modestamente, di questo “movimento”.”][4][/tooltip].

    Sappiate tuttavia che il titolo sarà l’unico aspetto della produzione a restare sospetto: aprendo il primo volume di Dorohedoro, avrete subito modo di realizzare che qualsiasi cosa, per quanto strana, bizzarra, improbabile, grottesca e totalmente inquietante (in questo preciso ordine) verrà portata alla vostra attenzione con un candore deliziosamente naïf.

    L’autrice non si dilungherà nel dare spiegazioni, preferendo immergervi di persona nel mondo fantastico descritto tanto dal suo improbabile, graditissimo humour (non ho problemi ad ammettere che Dorohedoro sia stato uno dei pochi manga ad avermi strappato risate sincere e sentite), quanto dalle linee caotiche ma virtuosissime che delineano i suoi personaggi, siano essi caimani antropomorfi o uomini con un tacchino sulla testa (no, sul serio. Non è uno scherzo).

    Dorohedoro
    Astieniti dal fare battutacce prese da Internet.
    Astieniti dal fare battutacce prese da Internet.
    Astieniti…
    UN POLLO!!!
    Mannaggia.

    L’elemento gore e quello grottesco, come già anticipato, hanno un posto preponderante nell’opera. Quello di fronte al quale vi troverete, tuttavia, sarà lungi dal sembrare “a sproposito”: Hayashida fa suo una sorta di “grottesco controllato“, che già risulta incluso, accettato nell’ottica della concezione di partenza che fin dai primi pannelli sarete portati a sviluppare e che quindi non dovrebbe apparire troppo gravoso ai lettori sensibili[tooltip tip=”Tenendo ben presente che il manga che sto consigliandovi è un seinen, ossia un’opera destinata, almeno in via teorica, agli adulti. Uomo avvisato…”][5][/tooltip].

    Dorohedoro si può ascrivere al gruppo delle opere “brevi”, constando, al momento, di “soli” 19 tankōbon (così dicasi una tipologia di volume a fumetti di produzione nipponica), editi in Italia dalla Planet Manga. Essendo un noto detrattore degli spoiler, mi asterrò dal dirvi alcunché, se non… date all’opera una chance, se la merita.

    Mi trovo completamente privo di indizi per quanto riguarda la presunta popolarità di Dorohedoro. Mi appello quindi al vostro aiuto, amiche e amici del pubblico, con un sondaggio: quanti, nel leggere le parole in grassetto riportate qui sopra, si sono lasciati andare un “Commercialata!”, e quanti un “Eh?!”.

    Dopo un inizio prolisso e verboso (che ha privato, tra l’altro, buona parte della recensione dello spazio che avrebbe meritato. Hurray!), spero non vorrete averla a male se il mio mattone di testo va incontro a una conclusione scarna, inattesa e soprattutto inaspett…

    FINE

  • Unastoria di Gipi: il fumetto è letteratura

    Unastoria di Gipi: il fumetto è letteratura

    Mio nonno, in Sicilia, aveva l’abitudine di sparire ad un certo punto della sera e accendere un falò. Abitando in una vecchia casa di pietra dispersa nella campagna arida, le fiamme riuscivano a vedersi anche dalla spiaggia e dal mare lontano.

    Ci interrogammo spesso sul perché di questo rituale, ma alla fine rinunciammo all’impresa, catalogando tutto come routine. Tuttavia, quello su cui fino ad ora non avevo riflettuto era l’espressione sul viso di mio nonno durante lo scoppiettare dello sterpame tra le fiamme: la sua mente non era lì, lui non c’era; vagava immerso nella natura, fumando avidamente le sue sigarette. All’epoca m’infastidiva il suo atteggiamento distaccato, ora (invece) m’irrita non riuscire a sperimentare quella simbiosi perfetta col mondo che mi circonda.

    Il fatto è che il sole ci scalda senza saperlo. E l’unica cosa che possiamo fare è considerare la natura indifferente, dimenticando di proposito il suo essere inconsapevolmente ignara di noi. E nella partita quotidiana tra uomo e natura (che per logica paragoneremo ad una partita a tennis), un albero striminzito vincerà: batterà il triste uomo in calzoncini senza nemmeno sapere di star giocando.

    Gipi Unastoria

    Non sappiamo bene come reagire, intorpiditi nel rincorrersi continuo delle giornate. Ma ecco, in un istante: ti sei fermato; osservi il Mondo in ogni suo difetto ed ingiustizia. Non puoi tornare indietro, abbagliato dalla luce falsa di un neon che pensavi fosse il sole. È l’incertezza del non saper distinguere tra realtà e finzione ad aver creato la letteratura.

    Come sempre, non rovinerò il piacere intimo della lettura svelandovi la trama; il primo ospite della rubrica è Unastoria di Gianni Pacinotti (in arte Gipi) cinquantenne fumettista toscano, che in realtà sono due storie intrecciate tra poesia, vita, follia e fango. Il tutto accompagnato da tavole acquerellate di una bellezza che solo a guardarle viene da piangere.

    Ci sono due motivi per cui ho deciso di iniziare da una graphic novel[tooltip tip=”Il romanzo grafico, o romanzo a fumetti, traduzione letterale dell’espressione inglese graphic novel usata comunemente anche nell’italiano,  è un formato di fumetto in cui le storie sono più lunghe (come appunto un romanzo), autoconclusive e in genere rivolte ad un pubblico adulto..”][1][/tooltip] per la mia rubrica sulla rinascita della letteratura. Il primo cercherò di farvelo capire nel corso delle puntate attraverso le opere di cui parlerò e ai vari fili conduttori tra i libri scelti; il secondo motivo, invece, è sfatare il mito secondo cui la letteratura sia solo un cumulo di parole su carta.

    Unastoria è Letteratura non meno di Guerra e Pace. Rassicuro subito i più dubbiosi: non intendo scardinare le gerarchie esistenti nell’arte. Fumetto e opere letterarie sono sempre (chissà perché?) state percepite in maniera distinta. In questi spazi si parlerà soprattutto di libri nella concezione più comune che avete. Ma per iniziare mi serviva un colpo deciso, mettendo in chiaro quali sono le mie idee di letteratura ed iniziare un dialogo con voi lettori. E i fumetti, quelli d’alta classe, sono opere letterarie, vere e proprie espressioni della letteratura disegnata.

    Gipi Unastoria

    Questa graphic novel, poi, in particolare: parte come un romanzo di formazione e termina come una poesia. Quando la bocca è ancora impastata dalle ultime parole del testo, il cuore già palpita dall’emozione. E la finta impressione di aver tra le mani un libro qualunque svanisce in pochi attimi.

    Ho letto Unastoria almeno una decina di volte in vari momenti differenti e questo mi ha permesso di capire l’estrema importanza del volume: Gipi ha confezionato un piccolo capolavoro capace di adagiarsi sulla pelle del lettore in ogni occasione, come un abito fatto su misura. La sensazione che il lettore ne trae è molto particolare: vi consiglio di provarla, almeno una volta (o dieci, come me, o anche di più). Andate nella biblioteca della vostra città, o in una libreria, e portatevi a casa Unastoria. Spegnete qualsiasi aggeggio sia d’intralcio tra voi e l’assoluto silenzio. Infine raccoglietevi nella lettura di una storia che sono certo toccherà da vicino molti di voi. Ah: è stato selezionato tra i 12 libri candidati al Premio Strega. Cosa volete di più?

    Per conto mio, è stato prezioso per riavvicinarmi a mio nonno: non è un falò, ma la cosa più vicina ad esso che abbia trovato fino ad ora. Chissà se questo libro gli sarebbe piaciuto. Di sicuro, l’avrebbe pensata come Gipi: la natura non si concede a noi. Come un’amante diffidente, fugge maliziosa lasciando una scia di profumo che s’imprimerà nella nostra mente. Da quel momento rincorreremo ogni odore cercando quella fragranza. Illudendoci, forse. Negli occhi di mio nonno, ora, rivedo ammirazione rispettosa e dolore. Come in Unastoria, le sofferenze potrebbero essere parte integrante del duro percorso di ciascuno. Forse.