Cadavere squisito: il prezzo della sopravvivenza

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Durante il Medioevo e il Rinascimento, le mummie egizie erano considerate un rimedio medicinale prezioso. La sostanza chiamata “mumia” era polvere ottenuta da mummie macinate e veniva utilizzata per trattare una vasta gamma di malattie. Si credeva che avesse proprietà curative per varie condizioni, come contusioni, emorragie e malattie interne.

Questa pratica era alimentata dalla credenza che i resti conservati avessero virtù medicinali derivanti dalla resina e dai balsami usati per l’imbalsamazione. Gli antichi Greci e Romani menzionavano un idrocarburo nerastro, reperibile in Persia e ritenuto terapeutico, simile a un unguento. Questo bitume, chiamato “momia” in persiano antico, con il tempo e a causa di malintesi, portò alla credenza che le mummie egizie avessero capacità curative.

L’interesse per la “mumia” raggiunse il suo apice tra il XVI e il XVII secolo, quando medici e speziali europei commercializzavano questi resti mummificati come polvere, creando un commercio fiorente che portò alla distruzione di innumerevoli mummie e a fomentare il consumo di esseri umani come garanzia di sopravvivenza; di unione con un significato piú complesso.

Leggendo Cadavere squisito (pubblicato in Italia da Eris nel 2024, ma scritto nel 2017), capolavoro della scrittrice argentina Agustina Bazterrica, non ho potuto fare a meno di pensare spesso a questo dato storico. Cadavere squisito fonda le sue premesse su una distopia dal tono classico: un virus ha reso la carne animale immangiabile e l’umanità, nella necessità di sopravvivenza, ha adattato le sue pratiche alimentari verso il cannibalismo istituzionalizzato. Marcos, il protagonista del libro, è un lavoratore in un impianto di lavorazione della carne umana.

Le parole che questa industria usa nella rinnovata quotidianità pesano nella gola di Marcos come un rimorso latente. Prova ribrezzo verso questo voler istituzionalizzare la nuova economia della carne, sente una repulsione profonda verso i termini tecnici dell’industria (“Quelle parole riaffiorano nella sua mente e lo trafiggono. Lo annientano.”). Marcos prova ribrezzo per l’uso disumanizzante del linguaggio tecnico che trasforma esseri viventi in “prodotti” o “carne”. Questo meccanismo di disumanizzazione linguistica è potente e pervasivo nella nostra società. Affrontare queste mascherature linguistiche richiede un’attenzione critica al linguaggio che usiamo e un impegno a chiamare le cose con il loro vero nome, riconoscendo la realtà e l’umanità che si nasconde dietro ogni parola e in ogni sua assenza.

Hermann Nitsch, Senza titolo,1961. emulsione su tela,
Hermann Nitsch, Senza titolo,1961. emulsione su tela, Hermann Nitsch Foundation

I silenzi del romanzo si intrecciano con i pensieri, accarezzano la possibilità di un mondo indecente, sfiorano con dita ossute e macabre una mancanza di significato esistenziale. Marcos rappresenta un punto di rottura con questo mondo disumanizzato, il suo ribrezzo verso il linguaggio tecnico e la sua scelta di rimanere in silenzio sono un atto di resistenza. Cerca disperatamente di preservare un frammento di umanità in un contesto che nega ogni traccia di dignità.

Il silenzio di Marcos diventa un grido muto di protesta, un richiamo alla coscienza che tenta di risvegliarsi in un mondo addormentato dall’abitudine e dalla necessità. Una società che decide di regalargli una donna-animale senza corde vocali, senza identità, solo per il suo intrattenimento e festino personale. Un essere quasi incorporeo, che poi lui chiamerá Jazmín, dando luce a una vicenda che è proibita, ma inevitabilmente reale.

Marcos si caratterizza per lunghi silenzi introspettivi. Le persone, il mondo stesso che lo circonda, si prodiga e si dimena per cercare invece di compensare quest’assenza di parole con un’ipertrofia di linguaggio che scompensa la realtà. Le parole di altri personaggi del romanzo, come Spanel sono “gelide, pungenti e si conficcano nel suo cervello”; quelle di Urlet, precise e affinate, come un collezionista; quelle della sorella “hanno l’odore di umidità stagnante, di reclusione, di freddo compatto”. I silenzi di Marcos sono un contraltare all’impossibilità fisica degli “uomini-animali” a cui hanno rimosso le corde vocali affinché non possano gridare e rendere la sottomisione ancora piú assurda.

Agustina Bazterrica scava con un’abilità innata negli intrecci profondi dell’anima umana, ricercando quel parossismo controllato che solo una grande scrittrice può creare. Dentro un mondo intrinsecamente marcio e sostenuto da nuovi leggi proprie, la Bazterrica decide di consegnarci delle (poche) boe cui non solo far riferimento durante la lettura, ma anche letteralmente aggrapparci. Marcos è senza dubbio la piú voluminosa: con il suo silenzio e il suo ribrezzo, ci ricorda l’importanza di mantenere viva la nostra umanità anche nelle circostanze più avverse. Il suo rifiuto di accettare il linguaggio disumanizzante dell’industria della carne umana è un atto di resistenza e un richiamo alla necessità di un linguaggio che rifletta la verità e la dignità umana.

Marcos è la nostra reazione naturale, come lettori, di fronte a quanto descritto in Cadavere squisito. Procedendo dentro alle fumose vicende del romanzo, sembra quasi di essere in un sogno cosciente. Ti guardi dall’alto, sospiri, pensi “Sto sognando”, ma non riesci a svegliarti. E il sogno diventa immediatamente un incubo.

In questa paralisi del sonno, il sostegno fondamentale è dunque questa sicurezza di continuare a mantenersi saldi a principi che non esistono più, a concetti che sono tracce diafane di un qualcosa che cade a pezzi. Parliamo tra singhiozzi, senza respirare; le parole sono lí, incapsulate. Marciscono proprio dietro alla follia che le nasconde.

Ho avuto l’enorme piacere di conoscere e fare due chiacchiere con Agustina Bazterrica riguardo al suo Cadavere squisito, ponendo l’accento su temi che complementano la lettura del romanzo. Colgo l’occasione per ringraziare ancora Agustina per la sorridente disponibilità.

Augustina Bazterrica
Agustina Bazterrica, fotografia di Denise Giovaneli

Quanta esperienza e vissuto personale di Agustina c’è nella pagina di questo libro e nella sua struttura narrativa?

In un certo senso, è un’esperienza collettiva che mi attraversa, perché nel libro esploro le conseguenze del patriarcato e del capitalismo, che alla fine sono la stessa cosa.

Parlo del capitalismo perché è il contesto in cui sono cresciuta; è un sistema che ci insegna a naturalizzare la crudeltà e a generare una separazione dagli altri esseri, siano essi umani o animali.

Ci insegna a prendere dagli altri esseri: l’altro essere umano è una minaccia o un oggetto da sfruttare, uccidere, violentare. Gli animali, invece, servono solo per alimentarsi, sperimentare, intrattenere; diventano prodotti. Lo stesso accade con la natura, che stiamo chiaramente distruggendo. Si è persa quella connessione che c’era prima, quando le persone avevano rispetto per l’ambiente e non c’era questa ansia di annientare tutto. Quindi, in questo senso, è qualcosa che vivo costantemente, nonostante i miei privilegi. E poi c’è il tema del patriarcato. Non è un caso che io abbia scelto che a Marcos regalassero una donna, perché quella femmina, Jazmín, simboleggia tutte le donne silenziate del mondo.

Non solo quelle che purtroppo vengono uccise, violentate, abusate, ma anche quelle che il sistema continua a silenziare simbolicamente. Scrittrici, per esempio, che i lettori non leggono solo perché donne. Amici librai mi hanno raccontato che ci sono lettori che se vedono che un libro è scritto da una donna, non lo leggono a priori.

Quando leggi un libro come lettore, ti aspetti che in qualche modo cambi la tua visione del mondo. Ma vorrei sapere: è cambiata la tua visione del mondo dopo aver scritto questo libro?

Sì, prima di tutto perché ho speso i sei mesi precendenti alla scrittura del libro facendo un’infinitá di ricerche sul cannibalismo, su come funzionano i macelli, sui diritti degli animali; c’è stata insomma un’enorme quantità di informazioni e di cose che ho visto che mi hanno generato maggior empatia e sensibilità.

Inoltre, da quando il libro è stato pubblicato nel 2017, sono andata a molte convention, ho risposto a interviste, sono stata in contatto con club di lettura, scuole in Messico, Venezuela, Colombia, e un po’ in tutto il mondo. Questo mi permette di riflettere su molte questioni che magari non avevo considerato mentre scrivevo. Un libro molto letto fa emergere punti di vista che non avevi visto. Spesso I lettori stessi mi consigliano libri che si collegano e dialogano con il mio, ampliando e irradiando il suo significato.

Hermann Nitsch, Six Day Play, 1998, olio e acrilico su tela, Saatchi Gallery
Hermann Nitsch, Six Day Play, 1998, olio e acrilico su tela, Saatchi Gallery

Quindi ha avuto un grande impatto non solo nelle vendite, ma anche nel messaggio che volevi trasmettere al mondo?

Sì, anche se ho un problema con la parola “messaggio” legata ai libri. È un libro tradotto in 28 lingue, bestseller negli Stati Uniti con quasi 500.000 copie vendute. Per un’autrice argentina sconosciuta, è un grande risultato, considerando che negli Stati Uniti solo il 4% dei libri sono tradotti.

Quanto al “messaggio”, spesso mi chiedono cosa volessi dire. Io non voglio colonizzare menti. Non mi interessa se chi legge diventa vegetariano. Se succede e la persona è felice, bene. Se non succede, va bene lo stesso. Non è quello il punto.

Per me, l’arte e la letteratura devono generare riflessioni, aprire porte nel pensiero. Se un libro è panfletario o moraleggiante, non ce la posso proprio fare. Voglio pensare con la mia testa. Se il libro mi fa pensare diversamente, è un successo del libro. I grandi classici fanno questo. Dostoevskij in Delitto e Castigo non dice esplicitamente “riflettiamo sulla condizione umana”; presenta situazioni su cui riflettere: giustizia, pietà, redenzione. I grandi libri riflettono sulle domande fondamentali della condizione umana, domande che non hanno una risposta definitiva.

Anche nella tua narrativa affronti temi come l’identità e la natura umana. Come credi che la fantascienza e la letteratura possano aiutarci a comprendere meglio chi siamo come individui e come società?

In Argentina, Cadavere squisito è considerato fantascienza, negli Stati Uniti invece è catalogato come horror. Io non lo colloco in nessun genere specifico; per me è letteratura e basta. Capisco la necessità di catalogare, ma non scrivo pensando ai generi letterari. Un buon libro riflette sempre sulle questioni attuali del periodo in cui è stato scritto. Il lavoro del lettore è collegare il testo al contesto e alla storia. Un esempio perfetto, per me, è il racconto La Casa de Adela di Mariana Enríquez, che non parla esplicitamente dei desaparecidos della dittatura argentina, ma lascia indizi che permettono una lettura in quell’ottica. La buona letteratura offre più strati di lettura e riflessione, indipendentemente dal genere.

Parlando di classici, Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson è considerato horror, ma è una potente riflessione femminista, una riscrittura di La caduta della Casa Usher di Poe dal punto di vista femminista. Parla di donne che si ribellano contro il sistema, e di come vengono emarginate e perseguitate. Parla di sopravvivenza e pregiudizi, ma può essere letta anche solo come una storia di terrore. Lo stesso vale per la fantascienza. Ci sono poi libri che puntano solo all’intrattenimento, e va bene così. Ma personalmente, cerco un lavoro con il linguaggio, qualcosa che vada oltre il mero intrattenimento. I libri puramente di intrattenimento sono come il fast-food: soddisfano al momento, ma non nutrono.

Agustina Bazterrica, autrice di Cadavere Squisito, fotografia di Denise Giovaneli
Agustina Bazterrica, fotografia di Denise Giovaneli

Viviamo appunto in un’epoca dove sembra più importante parlare che ascoltare. Qual è la nostra responsabilità come ascoltatori?

Nei miei libri, soprattutto negli ultimi due, Cadavere squisito e Las Indignas, cerco di rispondere alla domanda: perché crediamo in ciò che crediamo? Mi chiedevo come persone intelligenti cadano nelle trappole di sette o gruppi coercitivi. Ho capito che in quei casi devi essere vulnerabile e spaventato, perché la paura è primordiale. Non dimentichiamo che siamo animali e abbiamo bisogno di appartenere a una tribù per sopravvivere. Nelle città, siamo protetti dalla civilizzazione, ma istintivamente cerchiamo una tribù. Questo porta molte persone a seguire le tendenze o i vari leader.

Un esempio è l’Olocausto: molti cittadini tedeschi erano indifferenti, non si sono lasciati coinvolgere, pensando che non li riguardasse. Questa indifferenza ha permesso che milioni di persone venissero uccise. Oggi siamo bombardati da informazioni, molte delle quali tendenziose o false. Proprio nella mia famiglia, c’è una persona che condivide continuamente fake news, ma in modo innocente. Con i miei fratelli, ci alterniamo ad evidenziargli prontamente: “Questa è una fake news”. Penso che come ascoltatori abbiamo la responsabilità di gestire l’informazione che riceviamo, ma è anche vero che l’informazione può cambiare mentalità e il corso della storia.

Come scrittrice, invece, senti la responsabilità di essere testimone e voce del tuo tempo?

Dipende dallo scrittore. Ci sono scrittori che si dedicano all’intrattenimento e va bene così. Personalmente, nei miei libri riverso temi che mi interrogano, mi fanno male, mi sembrano ingiusti. Ad esempio, la situazione in Argentina con Milei, che è misogino e contro il femminismo. Ma anche governi precedenti hanno usato il femminismo come bandiera partitica.

Negare il patriarcato è assurdo. Chiedo sempre se nella storia umana ci sono stati gruppi di donne che sono uscite a violentare uomini. Al contrario, accade continuamente. Questo è il patriarcato. La società patriarcale permette agli uomini di uscire e violentare le donne, poi giustifica l’atto con frasi come “perché era sola?”, “perché indossava una gonna corta?”. Il patriarcato è un sistema che esiste da secoli. Oggi, le donne in molti paesi possono scegliere se avere figli o meno e possono essere mediche, astronaute, presidenti. Ma la lotta continua perché ancora subiamo violenze. In alcuni paesi, le donne non possono nemmeno studiare.

Io scrivo perché il mondo non è perfetto. E anche se non è il mio obiettivo cambiare il mondo, se un libro riesce a far riflettere una persona, è già qualcosa. Perché, come dice Enrique Vila-Matas, “ogni lettore crea un nuovo libro”, e un buon libro genera sempre riflessioni. Quindi si, credo nell’umanitá e credo anche che nel mondo ci siano molte cose belle, peró non posso ignorare tutta la negativitá che ci circonda.

Hermann Nitsch, Processo, collage su tela, Saatchi Gallery
Hermann Nitsch, Processo, collage su tela, Saatchi Gallery

Uno dei temi che mi ha colpito di più, la relazione tra parole e silenzio. Ci sono vari tipi di silenzi nel romanzo: un estratto del tuo libro dice: “nessuno può chiamarli umani perché sarebbe dare loro un senso. Li chiamano prodotto, carne o cibo, tranne lui, che vorrebbe non doverli chiamare con nessun nome”. Secondo te, nel mondo attuale ci sono alcune espressioni o concetti che pensi la società stia mascherando con tecnicismi per rendere più facile ingoiare la pillola e sentirsi meno colpevoli?

Migliaia. Pensiamo solo alla guerra: caduti, danni collaterali… Un esempio che cito spesso è che circa vent’anni fa, qui in Argentina, si parlava di crimine passionale per riferirsi a casi di femminicidio. Questo mostra come il linguaggio non solo descriva la realtà patriarcale, ma in qualche modo la giustifichi con la passione: “L’ha uccisa perché la amava molto.”

Qui ci sono persone che ancora oggi parlano della dittatura militare come processo. E se dicono processo, stanno togliendo tutto il peso di ciò che è stato: terrorismo di Stato, con uccisioni, torture, sparizioni di molte persone e appropriazione di bambini.

Un altro esempio: Valeria Luiselli, in Desierto Sonoro, parla dei bambini che attraversano la frontiera tra Messico e Stati Uniti e vengono uccisi a colpi di arma da fuoco. Questo succede davvero. Mi chiedevo, Luiselli narra la vicenda con degli eufemismi, ma cosa pensano i Marines il cui compito reale è sparare ai bambini che vogliono attraversare il confine? Dicono di star uccidendo obiettivi? Uccidendo target illegali? Cosa si dice per non dire “sto uccidendo dei bambini”?

Questo mi ricorda ciò che dice il signor Urami nel libro: “è come se le parole creassero e sostenessero il mondo in cui vive”.

Ed è vero, perché, come dice Wittgenstein, il limite del linguaggio è il limite del mondo. Non puoi organizzare la tua realtà se non puoi nominare certe cose. E in quella realtà, di solito, le istituzioni ufficiali coprono tutto con eufemismi, mentre la letteratura scopre e toglie i veli.

Per questo motivo, nelle dittature i libri sono proibiti. Sono pericolosi. Goebbels ha detto: “Non vogliamo convincere la gente delle nostre idee, vogliamo ridurre il vocabolario in modo che non possano esprimere altre idee che le nostre.” Terribile.

E in senso lato, poi, essere scrittore è una grande responsabilità: bisogna prepararsi, viaggiare, il che ha anche un costo fisico perché spendi molta energia nelle conferenze. Parlare con bambini e bambine è una grande responsabilità. Alcuni scrittori e scrittrici scelgono di non fare tutto questo e si dedicano solo alla scrittura, ma io scelgo di farlo perché mi sembra importante.

A volte penso anche che devo bilanciare il tutto perché mi sfugge di mano. Non sai mai cosa può succedere con i libri. Non ho scritto Cadavere squisito pensando: “Oh, verrà tradotto in 28 lingue e vincerà il premio Clarín”. E nemmeno ho mai pensato in vita mia: “Oh, sì, scriverò un bestseller”. Neanche lontanamente, perché inoltre “Cadavere squisito” avrebbe potuto produrre solo rifiuto, che comunque ha poi infatti generato. Ci sono state persone che sono svenute leggendo il libro, che hanno avuto nausea, che hanno vomitato, che hanno avuto incubi. Persone che hanno riportato il libro nelle librerie dicendo: questo è troppo forte, non lo sopporto.

In ogni caso, però, la maggior parte dei lettori lo continua a leggere e lo consiglia. E lì sta il suo punto forte, perché è un libro che arriva dove arriva grazie al passaparola. Perché racconta senza filtri qual é il prezzo della sopravvivenza.

 


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In copertina: Hermann Nitsch, action painting, 2017, acrilico su tela, Hermann Nitsch Foundation

Mattia Lo Presti
Mattia Lo Presti

Cercatore d’Essere; Ignobile scrittore di poesie; Fanatico lettore onnivoro. Sono nato a Como nel 1993. Mi sono diplomato al Liceo Classico A. Volta lottando principalmente contro la pigrizia e la matematica. Dimenticavo: sono recidivo. Per questo, forse, mi sono laureato in Lettere Moderne (indirizzo filologico-letterario) presso l’università degli studi di Pavia. Ora vivo a Barcellona.