Autore: Ilaria Calò

  • Giancarlo Giordano, l’infermiere che dipinge la follia

    Giancarlo Giordano, l’infermiere che dipinge la follia

    Giancarlo Giordano nasce a Racconigi, in provincia di Cuneo, nel 1940. Era il tempo in cui la rivista “Famiglia Cristiana” proponeva nella sua retrocopertina la stampa di opere d’arte famose, ed è ancora bambino quando, incuriosito, inizia a riprodurle. L’estro artistico e la manualità non sfuggono negli anni: crescendo infatti Giancarlo si dedica alla professione di fabbro. Il 1969 per lui è un anno di svolta: confina i lavori di saldatura e il suo mestiere al fine settimana, per dedicarsi alla “missione” di operatore sanitario presso l’Ospedale Psichiatrico di Racconigi. Questo è il luogo in cui incontra la sofferenza umana nella sua variante peggiore, che si insinua prima ancora nella mente che nel corpo.

    Siamo ancora lontani dalla legge Basaglia, che nel 1978 porta una vera e propria rivoluzione nel mondo della psichiatria, imponendo dei limiti più ferrei riguardo il ricovero dei malati mentali e definendo la chiusura dei manicomi. Questa legge entra di fatto in contrasto con l’unica esistente fino a quel momento, ancora intrisa di concetti arcaici. La legge n.36 del 1904 prevedeva infatti la presentazione di un semplice certificato medico, procedendo nella maggior parte dei casi con un internamento d’urgenza, per qualsiasi individuo che presentasse disturbi del comportamento, devianze o volontà di esprimere il proprio pensiero progressista in contrasto con luoghi comuni, pregiudizi e tabù.

    All’interno di questi luoghi coercitivi, le “cure” inflitte ai pazienti, internati sani nella maggior parte dei casi, provocano nel corso del tempo, insieme al senso di alienazione e annichilimento, il consumo dei corpi e insorgenza di veri e propri disturbi mentali.

    Giancarlo Giordano, coppia
    Giancarlo Giordano, Coppia

    Una follia non scelta, piombata addosso come un forte macigno, con cui ogni giorno Giordano deve scontrarsi, intravedendo negli occhi dei suoi pazienti l’anima smarrita in cerca di salvezza dall’orrore. Pur non potendo sanare i danni provocati da procedure retrograde che unicamente spogliano da ogni volontà o intenzione, Giancarlo tenta di instaurare con loro una relazione, attraverso la pittura.

    In questa impresa i suoi insegnanti sono Edvard Munch, Francis Bacon, ma anche Rouault, Permeke, Freud e Nolde: esponenti di una pittura espressionista che vuole rappresentare la sofferenza, l’umiliazione, il degrado, l’abbandono, la diversità umana. Il loro tratto artistico è in grado di narrare una realtà altra ed emotiva, scandita dal loro personale rapporto con il mondo li circonda.

    Dal loro studio, nasce una linea empatica e un punto di partenza per la produzione artistica di Giordano: linee spesse e nette, che ben rappresentano i volti ossuti, gli arti piegati, le schiene ricurve, gli occhi scuri, di corpi che sembrano non appartenere più a persone, con colori grevi e pastosi, che le raffigurano quasi sempre poggiate nell’angolo di una stanza, lì, lasciate a se stesse.

    Giancarlo Giordano, Gruppo di figure
    Giancarlo Giordano, Gruppo di figure

    Il critico letterario Giovanni Tesio, nel capitolo 7 del suo libro I colori del nero. Arte e vita nel manicomio di Racconigi, afferma:

    Se per un autore la ricerca dello stile è tutto, ciò significa che l’espressione – l’unica espressione – deve coincidere con la morale del “messaggio” (parola di cui possiamo ben tornare a proporre l’importanza). Non il cosiddetto “contenuto”, beninteso, che non è tutto, ma la fusione del contenuto nella sua voce, nel suo segno.

    Così si delinea al meglio il tratto pittorico dell’artista, che diventa espressione della sua intima visione del luogo in cui lavora e dei suoi abitanti e ne sancisce una cruda denuncia.

    Gli uomini, le donne e i bambini nell’ospedale in cui lavora Giancarlo ritrovano identità grazie alla sua arte, tornando ad essere madri, padri, figli e figlie, sorelle, fratelli, nonni e nonne, ma anche scrittori, insegnanti, artisti, falegnami, sarti, panettieri, agricoltori, fabbri e così via.

    Giancarlo Giordano, Famiglia
    Giancarlo Giordano, Famiglia

    Così la disperazione e la paura dell’oblio risorgono con le figure espresse sulla sua tela, restituendo a tutti loro una storia, e ad essa la dignità di essere ricordata. Non a caso spiccano tra i ritratti di Giordano quelli di Alda Merini, poetessa protagonista dell’abbandono e dell’alienazione del manicomio; Beppe Fenoglio, scrittore segnato profondamente dal suo vissuto durante la guerra; Edith Bruck, dalla cui esperienza della Shoah nascono scritture di testimonianza: ognuna – seppur in modo differente – icona della sofferenza umana e portavoce di essa attraverso l’arte.

    L’opera di Giancarlo Giordano si estende anche oltre l’incontro della malattia mentale: troviamo la raffigurazione di nature morte, fiori, paesaggi, autoritratti e opere che si ricongiungono alla sua professione di fabbro e alla sua manualità, con modellini in terracotta e in ferro battuto.

    Giordano non ha mai perseguito la fama e la notorietà, aspirando semplicemente ad essere fedele a quella che sentiva essere la sua vocazione di artista, una peculiarità che lo porta ad essere apprezzato dalla critica e soprattutto gli conferisce prestigio e onore.

    Ci troviamo infatti di fronte ad un uomo il cui un gesto restituisce il sé a chi ne viene privato, un gesto che parte dalla sua percezione facendosi messaggio profondo e sentenza ineluttabile.

    Giancarlo Giordano, Autoritratto
    Giancarlo Giordano, Autoritratto

     


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    In copertina: Giancarlo Giordano, Maternità. Tutte le immagini sono state tratte dal sito dedicato all’opera di Marina Pepino e Giancarlo Giordano

  • Il Bloody Sunday rivive ogni giorno tra le mura di Derry, in Irlanda

    Il Bloody Sunday rivive ogni giorno tra le mura di Derry, in Irlanda

    L’Irlanda durante il XX secolo è luogo di un lento e sanguinoso sviluppo di guerre civili di carattere etnico, religioso e politico.

    Nell’agosto 1969 l’”Operazione Banner” da’ inizio ai Troubles, ai cosiddetti disornidi sviluppatisi nelle città di Belfast e Derry che portano il governo britannico a scegliere di inviare l’esercito inglese in Irlanda del Nord. Tali conflitti, che si protraggono fino agli anni Novanta del Novecento, vedono opporsi Unionists e Nationalists nell’Irlanda del Nord: uno scontro tra la minoranza cattolica nativa irlandese, discriminata dalla maggioranza protestante nativa britannica, insediatasi nell’isola sin dal XVII secolo, e che vede contrapporsi a più riprese i repubblicani irlandesi e la monarchia britannica. In particolare, dopo la guerra d’indipendenza irlandese, l’Irlanda si vede costretta a un compromesso, lasciando alla monarchia la parte nord-orientale dell’isola, l’Ulster.

    I cattolici nel corso dei decenni non hanno mai smesso di rivendicare la loro libertà e la volontà di slegarsi da limiti e divieti a cui erano soggetti, e nel 1972, il Bloody Sunday segna l’apice dei Troubles.

    È proprio Derry infatti, città popolata da molti cattolici, palcoscenico dell’uccisione di quattordici persone per mano dell’esercito britannico, durante una domenica di manifestazioni per i diritti civili. Questo fa lentamente precipitare la situazione già molto fragile, espandendo il conflitto in tutto il nord dell’Irlanda negli anni successivi. La sanguinosa domenica di Derry prende per questo il nome di “Bloody Sunday”.

    Operation Motorman e The Runner
    Operation Motorman e The Runner

    A ricordare l’evento rimangono numerose opere d’arte. In particolare è Bogside, il più importante quartiere cattolico di Derry, ad essere una raccolta di memorie e rappresentazioni del Bloody Sunday. Iniziando da una scritta sul muro di una casa che recita: «State entrando nella Derry libera», oggi diventata una lapide commemorativa, seguono dodici murales realizzati tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila dai Bogside Artists, i fratelli Tom e William Kelly e Kevin Hasson, riunitisi per ricordare le vittime dei Troubles irlandesi attraverso i dipinti che sorgono sulle mura della Rossville Street, in quella che viene chiamata la People’s Gallery, un vero e proprio museo a cielo aperto e inestimabile capolavoro artistico e politico.

    Abbiamo opere ricche di significato: Operation Motorman, che raffigura un soldato inglese nell’intento di sfondare una porta, e sull’edificio accanto The Runner dove in primo piano un giovane fugge dal fumo tossendo e subito sotto i ritratti di due adolescenti uccisi durante i Troubles. Si prosegue poi con il Petrol Bomber, un ragazzino che indossa una maschera antigas e tiene tra le mani una bomba molotov circondato da fumo, fuoco e soldati. Sono i mutales che più trasmettono le emozioni vissute durante gli scontri armati: angoscia, dolore, agitati tentativi di preservare la vita.

    Se già in The Runner” i Bogside Artists ricordano i volti delle vittime, seguono altre opere che ancor di più perseverano in questo intento, trasmettendo insieme una forte malinconia in grado di renderci consapevoli delle ingiustizie provocate dall’odio. In “The Death of an Innocent” viene ritratta con colori vivaci una ragazzina di nome Annette uccisa nel 1971. La ragazza, con sguardo fisso verso di noi ma con atteggiamento timido che ben si nota dalla posizione delle mani, presumibilmente vestita con una divisa scolastica, è accanto a una maestosa farfalla blu e arancione. Loro sono luce sullo sfondo grigio delle rovine stilizzate della città.

    The Death of an Innocent
    The Death of an Innocent

    Il murale dai colori freddi Mothers and Sisters ricorda invece Patsy O’Hara e sua madre Peggy, lui attivista arrestato durante gli scioperi, lei attivista candidata al parlamento nordirlandese. C’è un forte contrasto in questa opera: due volti femminili seri e rigidi si scontrano con i volti sorridenti dei due uomini, sulla sinistra una bambina indica le figure, anch’essa seria, posta davanti alla donna in abiti tradizionali e volto austero.

    Vengono inoltre rappresentate le manifestazioni civili: Bernadette, raffigurante una delle fondatrici del Partito Socialista Repubblicano irlandese, Bernadette McAliskey, arrestata nel 1969 e poco dopo eletta a soli ventidue anni parlamentare, da cui trapelano forte senso di determinazione, spinta e coraggio per elevare i propri valori, e “Bloody Sunday”, forse il più emblematico della raccolta, ci mostra un parroco far strada a tre civili che sorreggono tra le braccia la prima vittima del Bloody Sunday: il diciassettenne Jackie Buddy. Il murale è copia fedele dell’originale scatto del fotoreporter italiano Fulvio Grimaldi presente durante gli scontri e le uccisioni di quella domenica.

    Troviamo infine un monito di speranza, giustizia e cessazione degli scontri raccolto il tre murales: in un cerchio rosso, i quattordici volti delle vittime del Bloody Sunday; segue John Hume, leader irlandese, accanto a Madre Teresa di Calcutta, Martin Luther King e Nelson Mandela, simboli di giustizia e lotta contro la povertà e per le minoranze etniche e culturali e “Il murale della pace”, completato più recentemente rispetto agli altri, nel 2004, dove una colomba prende forma da una linea bianca su una scacchiera variopinta.

    Il murale della pace
    Il murale della pace

    Sarà poi solo nel 2010 il primo ministro inglese David Cameron ad ammettere la colpevolezza dell’esercito britannico in relazione alla strage di Derry. Nonostante tutto, ancora oggi possiamo percepire tensioni legate ai medesimi motivi.

    Questa piccola parte di mondo può essere un esempio di molti più conflitti tra popolazioni, che vediamo ogni giorno da sempre, dove le diversità si rimarcano costantemente e la paura di ciò che non si conosce è un’ erbaccia ben radicata difficile da estirpare.

    L’arte può però essere salvifica in questi casi, andando a rielaborare la storia per renderla a noi fruibile e indelebile nelle nostre esistenze, per essere insegnamento e invito a migliorarci e ad andare oltre pregiudizi e discriminazioni.

    John Hume, Madre Teresa, Martin Luther King e Nelson Mandela
    John Hume, Madre Teresa, Martin Luther King e Nelson Mandela
    Bloody Sunday
    Bloody Sunday
    Mothers and Sisters
    Mothers and Sisters
    Bernadette
    Bernadette

     


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  • Duo Sutera Novali: il dialogo istantaneo di due musicisti

    Duo Sutera Novali: il dialogo istantaneo di due musicisti

    Virginia Sutera e Ermanno Novali, lei violinista, lui pianista, condividono una comune esperienza di ricerca presso il laboratorio di Stefano Battaglia a Siena prima di incontrarsi e dare vita al duo. Iniziano a lavorare insieme, a conoscersi, a entrare in simbiosi, legando le loro differenti esperienze e la loro formazione musicale precedente per dare vita al duo che oggi andiamo a conoscere.

    Duo Sutera Novali è il loro ultimo album, la registrazione dal vivo del un concerto tenuto nella stagione 2019 per la Società del Quartetto presso la storica Sala Piatti di Bergamo, in occasione anche dell’International Jazz Day. Caratteristica della performance è l’improvvisazione, si tratta infatti di un’unica suite totalmente composta in estemporanea. Il titolo dell’opera riporta i loro nomi, decisione mai più corretta per identificare il loro esclusivo dialogo in note, scelte ogni volta nel presente, come una conversazione che si realizza senza premeditazione.

    L’album è infatti un documento che li rappresenta, per comunicare il loro modo attuale di fare musica. Lo strumento musicale e il volerlo suonare improvvisando è un veicolo di espressione che permette a Virginia e Ermanno di esprimersi al meglio nel loro ensemble. Duo Sutera Novali vuole essere uno scatto fotografico che cattura il preciso momento, con la certezza che non si replicherà mai più nella stessa maniera. Se in ogni caso il linguaggio permane, la sonorità cambia in ogni nuova serata di esibizione.

    Duo Sutera Novali

    In relazione a ciò, è stata scelta come immagine di copertina il particolare di un’opera d’arte di Sandro Crisafi, sia perché visivamente c’è un richiamo alla dualità, sia per il percorso di realizzazione dell’opera stessa: si tratta di carta fotografica da lui impressionata con sali d’argento e lasciata a riposare per alcuni anni, fino a quando il risultato ottenuto è stato per lui soddisfacente, un risultato improvvisato e unico, basato su un linguaggio comune, veicolo di realizzazione di opere mai identiche tra loro, create in spazi e tempi differenti.

    Così come la comunicazione verbale si basa su una conversazione ogni volta diversa e plasmata in base all’interlocutore, composta da un numero di vocaboli finiti, che conosciamo e possiamo organizzare per comporre un numero di frasi infinite, Ermanno e Virginia riportano questa realtà nella musica: ogni loro performance è inedita e improvvisata, posata su un numero finito di note, per dare vita a infinite possibilità di suono.

    La musica si svolge nel tempo e l’improvvisazione è una celebrazione di questo tempo: il crearsi graduale di un suono ancora da conoscere suscita emozioni.

    Dialogare suonando è il modo più efficace di conoscersi.

    Duo Sutera Novali

    Si comprende infatti, osservandoli durante l’ascolto, la relazione profonda andata a crearsi e la conoscenza reciproca che va ad approfondirsi ogni volta in modo più intenso. L’improvvisazione musicale, caratteristica propria del Jazz, viene nel loro caso applicata alla musica classica contemporanea, il genere che più esprime la loro estetica e il loro stile.

    Potete ascoltare Duo Sutera Novali su supporto fisico in CD e su tutte le piattaforme digitali di musica: BandCamp è particolarmente elogiata dai due artisti perché si tratta di una piattaforma diversa da quelle più conosciute, con una politica molto più vicina ai musicisti, che lascia ampia parte del ricavato all’artista e in alcuni giorni dell’anno ben l’intero ricavato degli ascolti. È inoltre la piattaforma principale scelta per pubblicare tutti gli album dell’etichetta discografica berlinese a cui si sono affidati Virginia ed Ermanno, la Aut Records.

    Per un’esperienza di ascolto dal vivo Virginia e Ermanno si esibiranno il prossimo 17 ottobre presso lo Studio Museo Francesco Messina a Milano, alle ore 16:00 e se desiderate essere cullati dalla loro musica quotidianamente potete accedere al disco digitale su tutte le piattaforme online. Potete inoltre approfondire la loro conoscenza attraverso il loro sito web e i sui social.

    Vi lascio all’ascolto, ad un viaggio in cui verrete trasportati dalle loro melodie, travolti da una crescente energia che sboccia dalle loro anime e arriva a noi.

     


    Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche Il visuale in musica: i suoni e la loro rappresentazione.

  • Roberta Guzzardi: illustrare l’interiorità umana

    Roberta Guzzardi: illustrare l’interiorità umana

    Avete mai conosciuto una psicoterapeuta illustratrice? Oggi vi parlo di Roberta Guzzardi, di un lavoro e una passione legate insieme dal suo immenso mondo interiore che la guida nel creare originali illustrazioni, buffe e graziose allo stesso tempo, in cui ognuno di noi può immedesimarsi.

    Ho parlato un po’ con lei per scoprire molti aspetti in più di quel che possiamo vedere sul suo profilo Instagram.

    Quando e come nasce l’idea di trasformare il tuo lavoro quotidiano in arte?

    È stato un processo naturale e casuale. Mi sono trasferita a Roma per diventare fumettista, ma durante gli studi avevo la percezione che i miei disegni non fossero all’altezza di quelli dei miei compagni, sentivo di non essere portata per questo lavoro. Scelgo quindi di indirizzarmi verso la psicologia. Sono psicoterapeuta da molti anni e proprio sviluppando una carriera differente da quella che sognavo un tempo, ho ricominciato per diletto a disegnare, ponendo molta attenzione al mio mondo interiore, influenzata molto dalle nozioni che avevo appreso nel frattempo.

    Come nasce Mostro? Trovo che sia molto rappresentativo e un’idea immediata e meravigliosa per dare forma alla nostra interiorità.

    Fin da ragazzina Mostro ha fatto parte dei miei disegni , sebbene in una forma diversa e meno definita da quella di adesso. Dovevo rappresentare la parte scomoda di me stessa in qualche modo e riuscivo a farlo disegnando una ragazzina con accanto una figura indefinita e astratta. Solo quando partecipai nel 2019 a una challenge di Instagram che proponeva di illustrare una parola al giorno. Da qui nasce la ragazzina con il mostro, una breve storia casuale che dà vita alle numerose illustrazioni di adesso.

    Mostro è un personaggio molto tenero, e questo ci fa capire che anche ciò che può spaventarci e ci rende negativi può essere invece un aiuto, diventare qualcosa di utile e bello se ascoltato con attenzione. Mostro si rivela sempre la guida e la compagnia più intima della ragazzina.

    Qual è l’opinione dei tuoi pazienti e dei tuoi follower riguardo le tue opere?

    Io mi occupo di terapia strategica breve con pazienti adulti con cui tratto problemi di vario genere, che interessano ogni aspetto della vita. Alcuni miei pazienti non sanno che disegno, altri ultimamente mi hanno conosciuta tramite le mie illustrazioni. Non utilizzo i miei disegni durante la pratica terapeutica, nonostante le opere siano a sfondo psicologico. Perché il tipo di terapia che utilizzo non include il lato artistico, a parte
    alcuni rare eccezioni.

    Per contro, i miei follower non sempre sanno che sono psicoterapeuta, se non quando approfondiscono la conoscenza esplorando la mia pagina.

    Roberta Guzzardi

    Le situazioni che tratti in terapia a volte ti danno ispirazione per nuove illustrazioni?

    Può capitare che abbia ispirazione durante il colloquio con i miei pazienti ma nonostante questo le idee per i disegni provengono dalla mia sfera personale e interiore. Sono più che altro una terapia per me, per realizzare alcune situazioni emotive personali. Molto di questo varia a seconda dei periodi della mia vita.

    Quali sono le tematiche che meglio riesci a esprimere attraverso le illustrazioni? Quali sono le tematiche che suscitano più riscontro da parte del pubblico?

    Partono da sfoghi personali, quelli che hanno più effetto sono quelli che parlano delle relazioni e in particolare delle relazioni sentimentali, perché tutti ne siamo coinvolti, e perché spesso parlo di quel modo di relazionarsi che diventa tossico, negativo e questo aiuta molte persone a immedesimarsi e a ritrovare la propria situazione nel disegno. A volte poi, ho creato disegni più esistenziali, sul senso della vita, che hanno
    suscitato molto riscontro.

    In altri casi l’ispirazione nasce da ciò che ascolto o che leggo, una cosa che mi piace molto fare, conoscere e interessarmi di ciò che mi circonda. Gli input esterni di danno idee.

    C’è stato un momento in particolare in cui il numero dei tuoi follower su Instagram è cresciuto?

    I miei follower sono cresciuti moltissimo nel momento in cui durante il primo lockdown a marzo 2020 ho creato una striscia con Mostro che trattava proprio questo argomento. È diventata virale. Fino a quel momento i miei seguaci erano sempre stati sui 500 da quando avevo aperto il profilo circa cinque anni prima. Da marzo 2020 è cresciuta all’improvviso e ora cresce in modo costante.

    Grazie a questa situazione sono riuscita a comunicare un aspetto che ha suscitato moltissimo interesse, dandomi molta visibilità.

    Roberta Guzzardi Illustrazioni

    Perché hai deciso di mostrare le tue opere su Instagram? Pensi che i social siano un buon modo per condividere stati d’animo e questioni riferite alla sfera emozionale e intima dell’essere umano?

    Ho iniziato da Facebook, parte dal voler condividere. Mi hanno poi consigliato di spostarmi su Instagram che nel tempo ha avuto molto più successo per la condivisione dell’immagine e non della parola.

    Dà un eco fortissimo: è come se fosse un megafono. Non devo però pensare al giudizio altrui o al gusto degli altri, perché influenza moltissimo. Io lo uso come un diario di scuola, per raccogliere quel che creo. Il pensiero di quale effetto può avere su chi sta dall’altra parte dello schermo, se può aiutarlo o dagli speranza o aiuto, c’è sempre. Non mi perdo comunque su questo, penso principalmente a condividere quel che faccio. A volte ho un giudizio differente delle mie opere rispetto a quello che danno gli altri. Penso sia banale, invece riscuote moltissimo successo, al contrario a volte reputo un’opera molto bella, ma non ha molto successo. Non bisogna comunque farsi influenzare troppo da questo.

    Credo sia indispensabile essere coscienti che i social ti rendono vulnerabile e nudo, sei completamente scoperto, per questo ci vuole senso critico e parsimonia nel pubblicare contenuti. Alcuni disegni non li pubblico subito, ma solo quando mi sono disconnessa emotivamente da essi.

    Hai dei progetti legati alla tua passione?

    Sto realizzando un libro di illustrazioni sulla ragazzina e il mostro di cui la pubblicazione dovrebbe avvenire nell’autunno di quest’anno.

     

    Roberta mi saluta facendomi partecipe di un suo sogno per il futuro. Le piacerebbe creare una graphic novel su questioni relazionali e sentimentali, creando una trama più complessa e lunga. Un progetto ambizioso su cui avrà il nostro pieno incoraggiamento, necessario per valorizzare artisti emergenti di rilievo proprio come lei.

    Potete trovare online Roberta come psicoterapeuta al sito La psicologia a tratti semplici


    Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche Le illustrazioni a tutto tondo di Luca Checchinato

  • Le illustrazioni a tutto tondo di Luca Checchinato

    Le illustrazioni a tutto tondo di Luca Checchinato

    La prima volta che ho visto le opere di Luca Checchinato mi è tornata subito in mente Scrump, la piccola bambola di Lilo nel film d’animazione della Disney Lilo & Stitch, i cui lineamenti ricordano molto lo stile di questo illustratore di Latina, che, oltre a lavorare nella comunicazione aziendale come professione, gestisce e arricchisce ogni giorno la pagina Instagram oignon_cercatoridistelle.

    Dal tratto leggero e dai colori pastello, i suoi disegni hanno un carattere unico e speciale, personaggi noti di film, serie tv e videogiochi diventano grazie alla capacità di Luca morbide bambole di pezza illustrate.

    Un’esplosione di colori tenui che riempiono interamente lo spazio di disegno, anche grazie ad uno sfondo corposo su cui poggia il personaggio protagonista dell’opera. Ogni parte del disegno assume morbidezza, rotondità, nonostante nella realtà sia steso su una superficie lineare: il tutto è reso possibile grazie alle tecniche che potete leggere nelle prossime righe.

    L’artista utilizza la tecnica di disegno Oignon, proprio per la forma a cipolla dei soggetti rappresentati, con una testolina tonda e decisamente più grande del corpo e un volto decorato da quelle che vogliono essere allo stesso tempo cuciture e rattoppi colorati della stoffa e cicatrici della pelle.

    Luca Checchinato, Pinocchio
    Luca Checchinato, Pinocchio

    Gli Oignon nascono nel 2014, in un periodo in cui Luca aveva smesso di disegnare, un’attività che inizia a percepire più come un obbligo che una passione. Un mattino, in modo del tutto casuale, il suo sguardo si rivolge a una semplice bomboniera poggiata in casa: aveva la forma di una palla decorata con alcuni bastoncini di  essenze profumate: senza dubbio, quello era già un Oignon! L’ispirazione è immediata, scrive in poco tempo una storia e un’ambientazione, i personaggi prendono forma con tanta naturalezza. La graphic novel Oignon, cercatori di stelle, autoprodotta dall’artista, viene presentata alla Biennale di Roma nel 2015, conquistando nell’immediato il cuore di moltissime persone, tanto da rendere possibile la nascita dei Ritrattoignon, con cui Luca, partendo da una foto, trasforma le persone nei suoi buffi personaggi. Questo supporto e incitamento lo spingono a proseguire con tanta motivazione. Da quel momento in poi la sua carriera cresce e sviluppa senza fermarsi.

    Altra tecnica utilizzata è l’Ubi Humunculus, molto simile alla precedente, si basa sull’accentuazione in modo caricaturale di alcune parti del corpo, così come gli originali homunculus motorio e sensoriale utilizzati nelle scienze ottocentesche. Si tratta di una riproduzione del corpo umano che definisce le dimensioni delle varie parti in base alla quantità di informazioni esse inviano al cervello tramite i recettori sensoriali e motori. Più una determinata parte invia informazioni più sarà rappresentata in grande. Ne deriva così l’immagine di volto e mani molto più ampi rispetto al resto del corpo.

    A tal proposito, un interessante progetto di Luca Checchinato in collaborazione con lo scrittore Loris Fabrizi, è Ubi – il suo nome è proprio la parola “dove” in latino – un piccolo e tenero omino di legno, con delle foglioline verdi per capelli e un nodino per occhio, che potrà trovare un posto nel cuore e sugli scaffali di molte famiglie. Ubi, storia di un Homunculus sarà infatti a breve un libro illustrato di avventure fantastiche pubblicato dalla casa editrice La Strada per Babilonia, adatto a bambini e adulti di ogni età. Si tratta della prima opera edita da una casa editrice, un sorprendente regalo di Loris per Luca, legati da tempo in un saldo rapporto di amicizia.

    Luca Checchinato, Ragazza con l'orecchino di perla, 2015
    Luca Checchinato, Ragazza con l’orecchino di perla, 2015

    Sempre del 2015 un esperimento complesso e molto riuscito è la riproduzione del quadro di Johannes Vermeer La ragazza con l’orecchino di perla. L’opera, che ripone tutto il senso nello sguardo della protagonista, si presenta assai ardua da riproporre nella tecnica adottata da Luca, ma nonostante ciò ne deriva un’illustrazione eccezionale, tanto da ricevere per questo un importante riconoscimento dal critico d’arte Vittorio Sgarbi a Palermo dove tra 700 artisti riuniti all’evento L’isola che c’è ne esce vincitore. Le parole del critico si imprimono nella sua mente diventando guida per il suo futuro. Sgarbi infatti si rivolge a Luca affermando che l’unicità e tutto ciò che conta oggi, e che le sue opere sono davvero uniche e riconoscibili nell’immediato.

    L’anno seguente è un anno ricco di premi e crescita professionale per Luca. Presso la sede di Ea edizioni a Torino viene premiato dal direttore della rivista Effetto Arte come Artista Doc. Inoltre la riproduzione del quadro di Leonardo da Vinci Dama con l’ermellino gli permette di ricevere il riconoscimento di Maestro d’arte al Monreale Art History e un premio conferitogli da José Dalí, figlio del noto artista Salvador Dalí, presso Palazzo Clerici a Milano.

    Tra le opere che più mi hanno colpito, oltre alle già citate riproduzione di opere d’arte della storia, tra cui l’Escher Oignon remake, fedele riproduzione dell’opera più famosa di Escher, Mano con sfera riflettente, del 1935, tutta nel suo stile, abbiamo un paffuto e piccolo Dante Alighieri che osserva una mezzaluna spigolosa dal volto spaventato perché aggrovigliata tra i rovi della selva oscura, rappresentazione di quello smarrimento esistenziale che spinge il poeta a intraprendere il lungo cammino di scrittura della Divina Commedia. Il disegno viene pubblicato su Instagram il 10 aprile 2020, giorni in cui, nel 1300 l’opera è ambientata.

    Luca Checchinato, Dante
    Luca Checchinato, Dante

    Luca Checchinato rielabora personaggi e immagini ben conosciute nella cultura occidentale, al fine di offrircele con un volto nuovo, stupefacente, visto con i suoi occhi, passando da Super Mario e Wonder Woman a Betty Boop, da Bart Simpson a Harry Potter e i Puffi, intervallati da opere con personaggi inediti, video dei making of e molte rappresentazioni di Alice nel Paese delle Meraviglie.

    Mostri sacri dell’immaginario collettivo si trasformano in personaggi semplici, diretti, comprensibili e uniti da caratteristiche comuni, che in fin dei conti “sono teste tonde con due buchi” come Luca stesso afferma.

    Personaggi tanto diversi tra loro, grazie a lui, iniziano ad avere un punto in comune, ad essere simili e comparabili all’interno di un mondo in cui in realtà hanno sempre convissuto, quello dell’intrattenimento, dell’arte contemporanea, della comunicazione e della letteratura nelle varie epoche storiche.

    Un viaggio a tutto tondo, sia nella nostra cultura, sia in queste linee di matita.

    Luca Checchinato, Escher Oignon remake
    Luca Checchinato, Escher Oignon remake

     


    In copertina: Luca Checchinato, Game of “thrOignon”. Tutte le illustrazioni sono state pubblicate per gentile concessione dell’autore.

  • Frida Castelli, l’arte dei dettagli sensuali

    Frida Castelli, l’arte dei dettagli sensuali

    Frida Castelli è una pittrice milanese di arte erotica. Molti a questo punto rimarranno straniti, altri scandalizzati, ma vi assicuro che tutto ciò con cui avrete a che fare sarà una percezione di pura bellezza e semplicità.

    I suoi quadri, carichi di sensualità, trasmettono infatti eleganza e mai volgarità, esprimendo la delicatezza intrisa nell’intimità di due persone che si amano.

    Le opere di Frida raccontano la sua storia d’amore, attraverso il disegno di volti emotivi e corpi sinuosi, in cui ognuno di noi può immedesimarsi. La scelta di utilizzare l’acquerello dona leggerezza all’immagine, creando nella mente un senso di benessere, riportandoci a quei momenti che ognuno di noi vive nel suo piccolo mondo, riservato e lontano da chiunque non sia la persona che sentiamo donarci completezza e sensazioni travolgenti e coinvolgenti, cariche di sentimento.

    I tratti dei disegni di Frida ripercorrono con grande semplicità il corpo femminile e maschile mentre si inseguono uno con l’altro in movimenti naturali. Alcune opere si soffermano su un particolare dettaglio, come ad esempio i fianchi che combaciano, le mani che si intrecciano, lo sfiorarsi della pelle nuda; altri mostrano sensazioni viscerali e fortemente fisiche che emergono dall’espressione del viso, finestra su cui l’altro può affacciarsi per comprenderci e scorgere la nostra anima.

    Frida Castelli

    Abbiamo poi opere che rivolgono l’attenzione sull’universo femminile e su tutte le emozioni che aleggiano intorno ad ogni donna: tenacia, coraggio, fragilità, volontà e desiderio di libertà.

    Alcuni più concreti, altri più onirici, ogni dipinto vuole essere un pensiero, un’immagine vivida della mente, forse inizialmente spaventosa ma che allo stesso tempo ci incuriosisce, innocente e schietta, libera da giudizio e liberatoria, priva di repressioni e propulsione verso una più profonda conoscenza di noi stessi e dell’altro. Colore e silenzio, non c’è rappresentazione migliore dell’amore passionale, ed è tutto ciò che i quadri di Frida Castelli contengono.

    Sulla sua pagina di Instagram Frida ci mostra, dal 4 aprile 2016, tutte le sue creazioni, partendo dal disegno preparatorio fino all’acquerello finale, a cui accompagna sempre parole d’autore nelle didascalie. Oggi è arrivata ad appassionare ben 462.000 follower. Possiamo infine trovare una sua galleria personale delle opere originali messe in vendita, proprio sul suo sito.

    Donna e artista dall’umile essenza, nelle interviste non esalta mai il suo talento, nonostante abbia dato vita a numerose pitture originali e coraggiose, donando la possibilità a tutti di ritrovarsi in esse, plasmando la propria interiorità.

    Vi propongo qui di seguito le opere che personalmente ho più sentito catturare mente e sensi, spero possiate anche voi trovare la vostra.

  • Breakfast Club, il cult anni ’80 sempre attuale

    Breakfast Club, il cult anni ’80 sempre attuale

    Usando il linguaggio più semplice e la definizione più comoda, lei ci vede come: un cervello, un atleta, un’handicappata, una principessa e un criminale. Credo che lei sarà felicissimo di tutto questo.

    Distinti saluti, il Breakfast Club.

    Questa è solo una frase di un semplice tema scolastico dato da svolgere come punizione per comportamenti poco corretti. Nulla di nuovo in apparenza, se non fosse che le parole sopra citate riassumono quelli che sono stati gli anni Ottanta visti dagli occhi dei giovani ed anche l’essenza stessa di Breakfast Club, film scritto, diretto e prodotto da John Hughes e proiettato nei cinema per la prima volta nel 1985. Teen movie ormai diventato cult, simbolo della generazione X statunitense, cresciuti dai baby boomers, genitori e insegnanti visti appunto come fulcro di un potere da dover abbattere servendosi della disobbedienza e dell’anticonformismo.

    Proprio il senso di incomprensione e disapprovazione che i ragazzi percepiscono da parte della generazione adulta, vengono mostrati magistralmente nella pellicola, donando al film un’atmosfera inedita, fatta di dialoghi crudi, a tratti volgari, e sguardi acuti, schietti, furiosi, del tutto inusuali per quanto riguarda i teen movie fino a quel momento prodotti negli USA. Siamo inoltre negli anni in cui la società dei consumi sta nascendo espandendosi velocemente: è interessante notare come alcuni brand oggi famosi a livello mondiale vengano strategicamente sparpagliati nelle varie inquadrature.

    Il plot si sviluppa in spazi e tempi ben definiti: siamo al 24 marzo del 1984 in una scuola superiore di Chicago. John, Claire, Andy, Allison e Brian, cinque ragazzi molto diversi tra loro, si trovano costretti a condividere la biblioteca della scuola per l’intera giornata: sono stati messi in punizione dal preside Vernon, ognuno per un motivo diverso di cui il pubblico verrà a conoscenza durante le loro conversazioni. Viene assegnato loro il compito scrivere un tema su se stessi, per conoscersi più a fondo e per comprendere i loro presunti “sbagli” commessi.

    breakfast club

    È proprio all’interno di questo spazio in cui sono costretti che i personaggi iniziano a conoscersi, con un’iniziale ostilità e diffidenza, per poi scoprire di avere un punto in comune: ognuno di loro, a modo suo, giunge quotidianamente ad uno scontro diretto con il mondo degli adulti, fatto di severità, distacco e freddezza. Questo li unisce, li rende collaborativi, pronti per affrontare il preside, brutale cerbero della situazione, prendendosi beffa di lui.

    Sono loro il Breakfast Club. Gran parte delle personalità dei ragazzi si evince proprio dal tipo di colazione che dagli zaini esibiscono sui banchi nel momento della pausa di metà giornata. Evidente infatti l’accuratezza, a livello di riprese, durante la sequenza in cui i personaggi consumano i loro pasti.

    La loro identità si modella però soltanto nel corso della narrazione. John, Claire, Andy, Allison e Brian sono etichettati distrattamente dalla società con epiteti eccessivamente risolutivi, che solo in apparenza possono sembrare corretti.

    John, il “criminale”, è il pessimo elemento del gruppo, il collezionista di punizioni ad un passo dall’espulsione dalla scuola. Nasconde la sua fragilità, dovuta ad una figura paterna assente e violenta, con atteggiamenti da bullo, che oscillano tra aggressività e rabbia. Non perde per un attimo di vista Claire (interpretata da Molly Ringwald), la “principessa”. Ragazza di buona famiglia, in via del tutto eccezionale si trova a dover scontare questa punizione. Outfit dai colori caldi, rosa e marrone, ornato di smalto alle unghie e rossetto, fa parte delle ragazze più popolari della scuola. Fin dalle prime battute apre uno scontro diretto con John: i due si scopriranno più vicini che mai a fine giornata.

    A prendere le difese di Claire interviene ogni volta Andy, l’”atleta”, con una futura carriera sportiva messa in discussione proprio da questa punizione. Lui è il tipico ragazzo di cui ogni ragazza come Claire potrebbe innamorarsi: biondo, dal fisico atletico, difende i più deboli, sa difendersi se necessario, senza eccedere. Sarà proprio l’eccessivo autocontrollo che caratterizza Claire e John, sfociato in repressione e obbligo di sentirsi sempre all’altezza, ad averli messi nei guai?

    The Breakfast Club

    Nella fila di banchi accanto a loro ci sono ancora due ragazzi, i più silenziosi. Allison, l’”handicappata”, con la testa china sul banco, nascosta da capelli corti e spettinati, un vestito sgualcito e un paio di sneakers nere tanto quanto i suoi capelli. Si fa presto a parlare di disabilità, lei in realtà è semplicemente introversa e per questo percepita come strana. Sarà Claire a farla sbocciare, e di questo si accorgerà anche Andy. Il motivo per cui Allison si trova a scontare la punizione vince su tutti in originalità. Last but not least, Brian, il “cervello” (in inglese l’assonanza tra Brian e brain è molto forte), è il secchione, dalla corporatura minuta, preso in giro a causa della sua timidezza e del suo interesse per la Conoscenza: l’ultimo soggetto che vi aspettereste di vedere in punizione.

    Giungendo alle ultime battute del film, è interessante notare come le azioni negative commesse dai ragazzi, motivo del loro incontro, abbiano la medesima origine: il tipo di rapporto creatosi negli anni con i rispettivi genitori.

    Breakfast Club è una commedia drammatica che alterna scene comiche a momenti di riflessione. Sulle note di Don’t You dei Simple Minds e le sfumature del tramonto di quell’intenso sabato 24 marzo di trentaquattro anni fa, i cinque ragazzi valicheranno l’ingresso della scuola sentendosi diversi, cresciuti, più consapevoli delle loro identità, accettandosi senza vergogna ed anzi, apprezzandosi. Senza voler cambiare nulla della loro personalità, sono tutti disposti a migliorarsi. Sono molte le tematiche che emergono durante i dialoghi dei personaggi: individualismo, pregiudizi, conformismo, senso di rivoluzione, ricerca dell’identità, consapevolezza dei propri errori, adolescenza. Il tutto si combina con equilibrio dando vita ad un film tra i più importanti dell’epoca, inserito nel 2016 nel National Film Registry presso la biblioteca nazione degli Stati Uniti.

    Al suo trentacinquesimo anniversario dall’uscita nelle sale, non possiamo che guardare Breakfast Club con la consapevolezza che dopo tutti questi anni riusciamo ancora ad immedesimarci nei cinque protagonisti della storia, rappresentanti di valori e atteggiamenti tutt’oggi molto sentiti da adolescenti e post-adolescenti, desiderosi di migliorare il mondo migliorando prima di tutto se stessi.

  • I luoghi infiniti di Escher

    I luoghi infiniti di Escher

    È da poco uscito il film Escher – Viaggio nell’infinito, un documentario con cui Robin Lutz ci mostra la vita dell’incisore e disegnatore olandese Maurits Cornelis Escher, con grande maestranza e artisticità nella regia.

    Il film, della durata di novanta minuti, presenta in modo del tutto originale la vita dell’artista, accompagnata da una colonna sonora che scandisce il ritmo dei periodi della sua esistenza, costantemente rappresentati nelle sue opere, stranianti e quasi oniriche, e con una voce fuori campo (l’idea è che Escher stesso si racconti) alternata alle interviste rivolte ai figli dell’artista e al musicista Graham Nash, membro del gruppo Crosby, Still, Nash and Young, suo grande ammiratore, dopo aver visionato una raccolta di opere donatagli in forma di libro dal cantante degli Animals Eric Burdon.

    Negli anni Sessanta Escher era molto apprezzato dai giovani hippie e le sue opere ben si integravano con le atmosfere psichedeliche dell’epoca, nonostante l’artista fosse costantemente sorpreso del suo successo, ancor di più dell’ammirazione di Mick Jagger che per molto gli richiese una sua illustrazione per la copertina di un album dei Rolling Stones, senza successo.

    «La paura di non riuscire stare al passo è il problema». Questo è un sentimento costante durante l’infanzia di Maurits, che trova conforto solo nel disegno nei soggiorni in località di mare. All’Università di Harlem conosce e sviluppa il suo talento per le arti grafiche e l’intaglio del legno.

    Maurits Cornelis Escher, Superficie increspata, 1950
    Maurits Cornelis Escher, Superficie increspata, 1950

    «Desidero godermi i minimi dettagli, voglio provare a disegnare nel modo più accurato possibile. La bellezza è così terribilmente difficile».

    Escher voleva imprimere nei suoi disegni la semplicità e allo stesso tempo la complessità della natura, dei fiori, delle rocce e degli animali.

    La vita di Escher è segnata da viaggi in luoghi d’ispirazione per la sua arte, prima tra tutte l’Italia, in cui abita per molti anni e conosce la sua futura moglie Jetta Umiker, che sposa a Viareggio nel 1924. Si trasferiscono a Roma (città molto amata da Maurits soprattutto per l’architettura e le linee barocche che «sbiadiscono nelle ore notturne») dove nascono i suoi due figli: la famiglia abita in Italia fino al 1935 circa, da cui poi si allontana per evitare influenze fasciste sui figli, che stavano crescendo con le idee imposte dal regime mussoliniano.

    Vanno così a vivere in Svizzera, da cui si allontanano solo per un breve soggiorno in Spagna, da cui l’artista coglie grandissima ispirazione, soprattutto per i mosaici geometrici degli edifici visitati, in particolar modo nell’Alhambra di Granada.

    Mauritis Cornelis Escher, Uccello/Pesce, 1938. Disegno e acquerello
    Mauritis Cornelis Escher, Uccello/Pesce, 1938. Disegno e acquerello

    «È la scoperta di un motivo che continua a ripetersi, secondo un determinato sistema».

    L’obiettivo di Escher è di sistematizzare, di riempire completamente gli spazi vuoti sullo sfondo, ripetendo all’infinito il soggetto primario e andando oltre la sola geometria degli spagnoli e disegnando pesci, uccelli, rettili.

    Durante il periodo vissuto in Belgio, nonostante le difficoltà portate dal Secondo conflitto mondiale, Escher crea le sue opere più famose, pur con nostalgia verso i paesaggi italiani che molto amava.

    Il documentario, animando le opere di Escher, coinvolge enormemente il pubblico, immergendolo in questi spazi a più dimensioni e multiformi, creando un senso di straniamento e allontanamento dalla realtà osservabile in superficie.

    Possiamo osservare le Metamorfosi, mosaici a scacchiera bidimensionali e tridimensionali.

    Maurits Cornelis Escher, Metamorphosis II, 1939-40
    Maurits Cornelis Escher, Metamorphosis II, 1939-40

    «Per la prima volta mi permetto di creare composizioni basate sul problema di esprimere l’infinitezza, in un piano delimitato».

    L’interesse per la precisione matematica supera la volontà di fare arte. Attraverso associazioni logiche esprime visivamente i suoi pensieri, ad esempio associando l’esagono all’alveare e poi alle api; un pesce il cui sfondo diventa un uccello; lucertole di diversi colori, l’una lo sfondo dell’altra. Per Escher si tratta di giochi per bambini; «la gente ragionevole può considerarlo banale e noioso»

    Il regime hitleriano e le leggi razziali impongono agli artisti visivi l’iscrizione alla Camera della Cultura (Reichskulturkammer) per poter esporre in pubblico le loro opere. Escher non vuole cedere al compromesso smettendo di rendere note le sue opere e cancellandosi dalle associazioni di cui faceva parte. Iniziano anni difficili, sia moralmente (persero alcuni amici ebrei) che economicamente, per poi ricadere sulla salute della famiglia, in particolar modo su Jetta, denutrita ma felice di poter crescere i suoi figli, nonostante i primi disturbi mentali la infastidissero. Durante questo periodo Escher da’ vita all’opera in cui ottimisti e pessimisti si incrociano in un cammino circolare infinito.

    Dopo la fine della guerra i coniugi Escher continuano a condurre una vita isolata e i figli progressivamente iniziano ad occuparsi di loro.

    Maurits Cornelis Escher, Buccia, maggio 1955
    Maurits Cornelis Escher, Buccia, maggio 1955

    Maurits crea in questi anni il ritratto di Jetta come una buccia, ma non soddisfatto proprio perché la buccia presenta un inizio e una fine, decide così di rappresentare in un circolo infinito sua moglie con lui accanto. La malattia della moglie non è un ostacolo all’amore che Maurits prova per lei, e la vecchiaia non gli impedisce di continuare a disegnare, stampare e incidere su legno. È proprio in questo periodo che realizza i suoi primi mosaici a scacchiera in forma sferica, per dare un maggiore senso di infinitezza. Anche la salute di Escher viene meno a causa di un cancro al colon. I coniugi alla fine degli anni Sessanta, pur rimanendo in Svizzera, si dividono: Jetta viene portata in una clinica per la cura della sua malattia mentale, Maurits rimane a casa fortemente debilitato e costretto a ricevere visite dei suoi ammiratori, sempre più numerosi in questi anni.

    Oggi l’arte di Escher è fortemente apprezzata da un pubblico sempre più vasto: ne è dimostrazione la realizzazione di questo film, che magistralmente ci narra l’originalità del grande e controverso artista Escher.

  • Artivism: l’attivismo si fa creativo

    Artivism: l’attivismo si fa creativo

    Artivism. Un neologismo che indica la forma d’arte dedita all’attivismo, non semplicemente riferito al cambiamento climatico, ma esteso alle forme di discriminazione, al pacifismo, ai diritti umani, di cui sempre più sono piene le nostre giornate. In occasione del terzo sciopero mondiale per il clima, svoltosi ieri, a cui ha partecipato un numero di persone costantemente in crescita, vi parlo di questa nuova corrente di pensiero a cui approdano sempre più artisti.

    Oggi l’arte visiva non si esprime più solo attraverso canali materiali, come quadri, fotografie, teatro, ma soprattutto attraverso il virtuale. I social network permettono la rapida circolazione di contenuti, rendendo questi ultimi intangibili, in grado di invadere ogni nodo della rete a livello planetario. Nel caso dell’Artivism la caratteristica social può rivelarsi un vantaggio, proprio perché tali opere possono essere accolte in breve tempo da un numero potenzialmente illimitato di individui.

    L’Artivism si sviluppa però a partire dal 1997, grazie ad un raduno di artisti e musicisti tra Chicago e Los Angeles, con alcune influenze provenienti anche dal Messico, in grado di realizzare opere pop a sfondo sociale. Questo tipo di arte si sviluppa dunque inizialmente attraverso la street art (di cui ancora oggi possiamo vederne traccia), la culture jamming, una forma di boicottaggio della cultura dei media e dei contenuti o ideali mainstream, il subvertising – parola che va a sovvertire il senso di advertising (pubblicità) parodiando le campagne politiche e promozionali -, forme di protesta e attivismo vero e proprio, per poi seguire sempre più i mutamenti della società, adeguandosi ad essi per continuare ad emergere. Come si è detto oggi l’Artivism di fa strada lungo gli infiniti percorsi del web.

    Lo scrittore americano MK Asante, nel suo libro It’s Bigger Than Hip Hop (2008, St. Martin’s Press), una riflessione sul valore della cultura pop come veicolo di valori sociali e politici, a dare un’ esaustiva definizione di Artivism:

    The artivist use her artistic talent to fight and struggle against injustice and oppression, by any medium necessary.

    Ci sono molte iniziative che annualmente raccolgono gli obiettivi di molti artivist all’interno di festival o manifestazioni. L’Artivist Film Festival & Awards ne è un esempio. Si svolge annualmente sotto forma di tour nonostante la sede di organizzazione sia a Hollywood, riguarda principalmente i registi che nelle loro produzioni pongono come temi centrali i di diritti umani, i diritti sui minori, i diritti animali e la preservazione ambientale.

    Vi riporto inoltre due esempi di Artivism veicolato attraverso i social network. Si tratta di Steffen Kraft e di Viktor Hertz.

    Steffen Kraft, conosciuto come ICONEO, è un artista tedesco sensibile alle tematiche sociali, in particolar modo all’ambiente. Attraverso uno stile minimalista e a tratti retrò, riesce a dare al pubblico un’idea chiara di ciò che vuole esprimere. Spesso la società si comporta in modo del tutto superficiale e contradditorio, con estrema ingenuità attua pratiche dannose nei confronti dei propri simili e della Terra. Inoltre i valori che oggi aleggiano su di noi risultano quasi del tutto vacui, soffocati dalla vita parallela che una consistente percentuale di individui è stata in grado di costruirsi e curare con molta dedizione – trattasi dei nostri account social.

    Viktor Hertz è un artista svedese che ha iniziato come hobby il mestiere del graphic designer, per poi intraprendere la carriera nel 2010. Oggi ha già realizzato libri e partecipato a esibizioni. Mi sento di poter dire che la sua collezione “Honest Logos” si ispira al subvertising. Troviamo infatti nelle sue illustrazioni digitali una sottile ironia in grado di mostrarci la vera essenza dei brand mondiali su cui poggia il consumismo della società moderna. Hetz risveglia le nostre coscienze, mostrandoci ciò che davvero i colossi mondiali ci stanno dicendo, senza volerlo.



    Leggi anche: Sei con tutti e con nessuno: la poesia di Nené Giorgadze

  • Musica e natura, quando l’uomo le fa litigare

    Musica e natura, quando l’uomo le fa litigare

    La musica e l’ambiente naturale sono ciò che di più maestoso la vita può donarci per rendere i momenti dell’esistenza ricchi di emozioni. Due entità tanto diverse ma simili nel ritmo: così come un suono diventa musica se articolato in pause e tonalità, la natura definisce cadenze e mutamenti in base al tempo, allo spazio, alle relazioni che le forme vitali in essa inserite definiscono. La musica esiste grazie alla natura così come i musicisti in quanto gli esseri umani esistono grazie ad essa, eppure negli ultimi decenni sembra che ci sia un particolare disprezzo, o meglio, un fraintendimento, nei confronti di questo dono speciale che ci è stato dato.

    Il Jova Beach Party è solo l’ultima questione emersa a riguardo, ma percorrendo la storia degli ultimi trenta, quarant’anni possiamo delineare un quadro generale della situazione. Come ci spiega già Mirco Calvano in un articolo di iCompany del febbraio scorso, organizzare un concerto ha un impatto sull’ambiente a prescindere dal livello di attenzione posto alla questione. A cominciare dall’inquinamento sonoro per passare ai rifiuti prodotti durante la serata dall’ingente numero di spettatori, che durante il momento di estasi nel seguire con anima e corpo i propri idoli, poco pensano a dove riporre la lattina e la bottiglietta della bevanda appena finita.

    Pensiamo al concerto dei Pink Floyd del 1989 organizzato in laguna a Venezia: oltre ad un’installazione non propriamente semplice da ottenere a livello tecnico (palco e attrezzature sono state poste su una chiatta galleggiante) piazza San Marco ha avuto serie difficoltà a contenere una folla impressionante di spettatori quale era, proprio perché il promoter Fran Tomasi aveva scelto di rendere l’evento gratuito per concludere il tour della band con una data italiana. Quando il pubblicò rincasò e la band si incamminò per il ritorno in Inghilterra, Venezia rimase con il volto stanco e sporco.

    Le opere di pulizia furono intense e laboriose, anche per la poca organizzazione a monte a livello di igiene e sicurezza. Il giorno successivo al concerto il Gazzettino di Venezia propose una prima pagina su cui dominava la scritta “Mai più così” con lo sfondo di piazza San Marco ricoperta di rifiuti ed escrementi. Significativa parentesi in cui interessi economici e politici hanno portato musica e ambiente verso lo scontro.

    Molto più recentemente, come si diceva, ha acceso dibattiti la questione del tour di Jovanotti organizzato sulle spiagge italiane. Analizzando il web troviamo davvero molte sfumature sulla questione. Appare evidente che la moltitudine di punti di vista può confondere il giudizio del comune lettore che scorre social network, siti, riviste, giornali, ponendolo in difficoltà nel distinguere ciò che è vero da ciò che è falso.

    Testate giornalistiche che trovano assurdo cancellare concerti per qualche sprazzo di fauna e flora presente nelle zone limitrofe o altre che definiscono l’evento totalmente sostenibile; associazioni ambientaliste che minimizzano i danni, altre profondamente realiste, altre ancora dai toni allarmanti, tanto da entrare in contrasto. Ne abbiamo esempio leggendo su Facebook il post di WWF Italia a cui prontamente risponde la Lipu in un commento. Definire l’evento ripetendo alcune frasi (in inglese perché, si sa, è una lingua smart) come Plastic Free, Green e via discorrendo non pone davvero l’accento sulle priorità da affrontare.

    La questione profonda stanzia nel modo in cui l’uomo pensa all’ambiente. Se facessimo il gioco delle associazioni mentali molti a questa parola risponderebbero di getto “turismo” o “divertimento”, ed è qui il problema. L’ambiente non sta aspettando il nostro passaggio, la nostra impronta dettata dal “fare esperienze”, dallo sperimentare ogni emozione possibile. La natura non vuole essere esperita, vuole essere luogo accogliente per ogni forma di vita.

    Aspetto cruciale è la sovrabbondanza di informazioni che la nostra epoca è in grado di contenere, legata alla scarsa qualità delle informazioni stesse. Soprattutto riferendoci ai problemi ecologici, i dati a nostra disposizione sono vari e talvolta nebulosi: esprimono punti di vista e sfuggono all’oggettività, oppure definiscono complesse questioni senza fonti certe o volutamente false.

    Riguardo il tour estivo di Jovanotti le notizie prolificano giorno dopo giorno, ma per contenere il discorso prendiamo un solo esempio. Leggiamo un esposto del 7 luglio 2019 scritto da AsOER (Associazione Ornitologi Emilia Romagna), Italia Nostra, Lipu, Legambiente riguardo la data del 10 luglio del Jova Beach Party a Rimini e Riccione, per la tutela di quattro pulcini di fratino (Charadrius alexandrinus), in cui vengono spiegate approfonditamente le ragioni della preoccupazione delle associazioni nei confronti di questa specie di cui in Emilia-Romagna rimangono trenta, quaranta coppie, un decimo rispetto agli anni Ottanta.

    Prontamente l’organizzazione del concerto ha riferito di monitorare la zona di nidificazione attraverso volontari, infine l’11 luglio AsOER ha comunicato che uno dei pulcini è morto per cause da accertare, i restanti sono sopravvissuti e hanno intrapreso i primi brevi voli. Il monitoraggio è avvenuto solo nel giorno del concerto, durante il montaggio e lo smontaggio purtroppo l’osservazione delle aree interessante non è stata garantita. Dopo tutto ciò possiamo leggere sul sito de “Il Foglio” un articolo di Antonio Pascale in cui da un iniziale tono ironico prosegue definendo il contesto intriso di «purezza ambientale».

    Foto aerea del concerto di Rimini (credits: Corriere Romagna)
    Foto aerea del concerto di Rimini (credits: Corriere Romagna)

    Il problema in realtà è molto più ampio del caso delle famiglie di fratino disturbate dal tour di Jovanotti, se pensiamo all’impatto ambientale che eventi di tale portata possono avere. Il comunicato stampa del 17 luglio di cinque associazioni ornitologiche descrive un quadro esaustivo: «Le direttive comunitarie 43/92/CE “Habitat” e 147/2009/CE “Uccelli” nonché le convenzioni di Bonn e Berna vietano espressamente il disturbo delle specie protette» e ancora «La costa e le sue spiagge sono oggetto di specifica tutela paesaggistica in base al D.lgs.42/2004 “Testo Unico dei Beni Culturali”, che ha conosciuto una pesantissima trasformazione negli ultimi decenni e continua a subire una pressione del tutto insostenibile».

    Dunque, tornado alla questione etica che sta sopra ogni altro avvenimento più o meno recente, l’utopica proposta è tacere per un attimo il nostro vociferare continuo, il nostro polemizzare qualsiasi frase con altre ugualmente contestabili, mettere in pausa il nostro passaggio sulla Terra per ascoltare il silenzio e i suoni che esso contiene: potremmo accorgerci che musica e natura vivono in perfetta armonia. La cultura ci insegna di poter dare il nostro contributo attraverso strumenti musicali e le loro melodie, come già da secoli facciamo, per questo è opportuno legare le nostre azioni al rispetto. Molti artisti si impegnano già in questo, lo stesso dovrebbero fare gli spettatori e ancor di più i politici.

    Una semplice e concreta proposta è di proseguire i concerti all’interno di teatri, palazzetti, stadi indoor, dove l’acustica è certamente stupefacente e l’organizzazione può essere di certo maggiore su tutti i fronti.

    Propongo dunque una riflessione. Saremmo in grado di scegliere consapevolmente cosa è meglio, anteponendo alla nostra distorta voglia di benessere il vero benessere basato sull’equilibrio degli ecosistemi che solo la specie umana ha la capacità di alterare? Saremmo obiettivi se si trattasse della nostra band preferita?

    Ogni prodotto umano riferibile all’arte ha il diritto e il dovere di esistere per il bene della cultura, a patto che il pubblico ne possa usufruire senza recare danni.

  • Quella notte in cui Truman Capote volle dare una festa

    Quella notte in cui Truman Capote volle dare una festa

    Avete mai sentito parlare del Black and White Ball? Storie d’altri tempi che vengono narrate e ritornano alla mente come una vecchia pellicola rumorosa e tremolante, cullata dal proiettore che la rende magica ai nostri occhi. Ecco, io quell’episodio lo immagino proprio così: silenzioso, fatto solo di due colori, di bianco e di nero.

    Nel 1966 Truman Capote dopo una travagliata lavorazione, dà alla luce In cold blood (A sangue freddo), romanzo basato su una vicenda realmente accaduta in Kansas: l’omicidio dei Clutter, una famiglia di agricoltori nella profonda provincia statunitense. Il romanzo esce prima a puntate sul New Yorker, poi finalmente rilegato e edito dalla Randhom House. Per la realizzazione dell’opera è stata fondamentale la collaborazione di Harper Lee, cara amica di Capote, autrice di To Kill a Mokingbird (Il buio oltre la siepe).

    Il romanzo lo porta al successo, ricompensandolo con ingenti somme di denaro, tanto che Truman preso dall’entusiasmo decide di festeggiare organizzando un evento senza precedenti, coinvolgendo la cosiddetta cafè society, in quegli anni chiamata jet-set, la cerchia di pochi eletti appartenenti alla classe agiata, al mondo dello spettacolo e degli affari. Passa molto tempo a definire meticolosamente la lista degli inviati, che sarebbero stati accolti in una location di tutto riguardo, il Grand Ballroom del Plaza Hotel di New York.

    Frank Sinatra e Mia Farrow al Black and White Ball di Truman Capote
    Frank Sinatra e Mia Farrow

    Tre mesi per scegliere con attenzione chi avrebbe “decorato” con la sua presenza quella festa che già dal mattino successivo era entrata nella storia. Ancora oggi viene considerata tra gli eventi più importanti del XX secolo.

    Gli invitati ricevono alcune indicazioni riguardo il look da mantenere durante la serata: abiti in bianco e nero, maschere eleganti per coprire il volto. Quel che accadde fu davvero strabiliante. Le cinquecentoquaranta persone che avevano seguito al dettaglio le disposizioni di Capote diedero un misto di eleganza e di esuberanza, di magia e sfarzo a quella sera del 28 novembre del ‘66.

    Così come viene ricordato dal sito Dagospia, l’obiettivo di Capote con il Black and White Ball è di celebrare la sua incoronazione, il suo ingresso nel mondo degli intellettuali. Nato in un famiglia povera, inizia la sua scalata sociale facendosi spazio grazie alle opere Colazione da Tiffany e A sangue freddo, raggiungendo poi la vetta grazie a questa serata. Ma nel nostro mondo è soprattutto l’apparenza che viene ricordata e giudicata, così Truman decide di organizzare la festa non esplicitamente in suo onore ma dedicandola alla proprietaria del Washington Post Katharine Graham, per sollevarla dal dolore della perdita del suo coniuge avvenuta pochi mesi prima. In questo modo Capote viene premiato oltre che per la sua bravura anche per la sua modestia e il suo altruismo.

    Truman Capote e Katherine Graham
    Katherine Graham e Truman Capote

    L’evento ha nell’immediato una risonanza pazzesca: l’autrice Deborah Davis realizza “Party of the Century”, libro che documenta la serata insieme a meravigliose foto che narrano questa piccola parentesi storica; innumerevoli sono le recensioni e le critiche in merito, alcuni apprezzando ed esaltando l’idea dello scrittore, come alcune famose testate giornalistiche statunitensi, altri esprimendo il loro disappunto riguardo la bizzarra intenzione di voler associare una festa dispendiosa e appariscente all’uscita di un’opera la cui trama è di toni tutt’altro che allegri.

    Sono davvero molti gli ospiti famosi, tra questi ricordiamo Giovanni e Mirella Agnelli, lei con uno sfarzoso copricapo di piume bianche, Mia Farrow e Frank Sinatra, con due maschere a coprire gli occhi, Henry Fonda, Andy Warhol, Greta Garbo, i Kennedy, i duchi di Windsor, Cecil Beaton, quest’ultimo fotografo che per il cinema aveva creato una scena di My Fair Lady (1964) che ispirò il tema bicromatico della serata, la modella statunitense Penelope Tree che scandalizzò molti altri invitati per il suo completo eccentrico, composto da collant semitrasparenti e un abito che lasciava scoperti i fianchi, ovviamente corredato di maschera, a forma triangolare. In quel breve lasso di tempo hanno avuto modo di crearsi, aneddoti, storie, leggende che spesso ancora oggi tornano alla mente, così come in una fiaba breve ma memorabile.

    L’evento viene ricordato negli anni successivi e ad ogni importante anniversario se ne organizza uno simile in memoria del prezioso originale. Solo nel 2016 sono stati festeggiati i cinquant’anni. In ogni caso è certo che qualsiasi imitazione non potrà eguagliare quel 28 novembre 1966, per vari motivi: perché la jet-set non esiste più, perché gli invitati cambiano e non fanno più parte del “libro nero di Capote”, così definito per la molta riservatezza con cui lo scrittore custodì quella lista prima degli inviti ufficiali, perché il fascino di una società in crescita, rigogliosa e decisa a creare un mondo nuovo dalle ceneri dei conflitti mondiali è lontana da molto tempo. Il fascino persiste se per un po’ ci si perde in quegli istanti tremolanti in bianco e nero.

     


    Per approfondire: Antonella Amapane, Black&White, in “La Stampa”, sabato 12 novembre 2016. Curtis Gathje, At the Plaza: An Illustrated History of the World’s Most Famous Hotel, St.Martin Press, 2000.

  • Bukowski, ultimo atto

    Bukowski, ultimo atto

    Capita molte volte che nell’ultima parte di esistenza un essere umano intraprenda un colloquio con se stesso per formulare una sorta di calcolo finale, stilare un resoconto definitivo catalogando il proprio passato al fine di rendersi cosciente di averlo vissuto e infine di accettarlo. Così si suddividono i ricordi, per comprendere ciò che di buono c’è stato, facendo riaffiorare immagini piacevoli alla mente, ma anche riflettendo sulla parte negativa. Tutti abbiamo un fardello, chi più pesante, chi meno, di ricordi spiacevoli: eventi definiti da scelte personali che si sarebbero potuti evitare oppure da ciò che siamo stati costretti a vivere per volontà altrui.

    Gli ultimi dieci anni trascorsi da Charles Bukowski prima di spegnersi a San Pedro nel 1994 sono differenti da tutta la sua vita precedente: l’incontro con Linda Lee Beighle sembra essere la sua redenzione, lui stesso disse: “Linda era stata mandata dagli dei per salvarmi la vita”. Nel 1976 infatti la quotidianità di Charles viene stravolta da questa persona esteticamente semplice, salutista e affascinata dal misticismo, capace di attrarre lo scrittore a sé più di tutte le altre donne frequentate prima.

    Per fare chiarezza su chi sia Linda Beighle possiamo ricordaci del documentario di Matteo Borgart “You Never Had It” , un’intera serata di chiacchiere tra la giornalista Silvia Bizio e Bukowski, nella sua casa in California insieme ad alcuni amici, tra cui Linda sempre al suo fianco sul divano. Correva l’anno 1981 e il tutto è stato registrato grazie ad una Super8 su videocassette rinvenute solo poco tempo fa, distribuite poi grazie al gruppo Feltrinelli. Questo perché spesso il passato si mescola e offusca la verità: Linda Beighle viene confusa talvolta con Linda King, altra importante figura nella vita di Bukowski, ma distante dalla donna di cui parliamo qui.

    Charles Bukowski con Linda King
    Charles Bukowski con Linda King

    Bukowski grazie a lei riduce il consumo di alcool, migliora la sua dieta e grazie a Linda guadagna dieci anni di vita. Nel 1985 viene celebrato il matrimonio di Charles e Linda dal filosofo e autore canadese Manly Palmer Hall e solo tre anni dopo Bukowski si ammala di tubercolosi, evento che segna l’inizio di una lenta discesa fino alla leucemia, causa della sua morte. Nel frattempo si avvicina alla dottrina buddhista, rito con cui verrà svolto il suo funerale.

    Questo intenso decennio trascorso con Linda fa scoprire a Charles il lato felice dell’esistenza umana, un argomento da sempre al centro delle sue riflessioni, di cui discorre in ogni sua opera con uno stile tremendamente schietto e cinico. Ma il motivo di questo crudo realismo è semplice: l’uomo dietro quelle parole è sempre stato oppresso dal susseguirsi di situazioni spiacevoli sin dall’infanzia, di cui racconta amaramente in “Panino al prosciutto”, per poi proseguire durante l’esperienza lavorativa alle Poste e la totale perdizione tra sesso, alcool e scommesse. La scrittura, si può dire, è stata l’ancora di salvezza insieme a Linda. Gli unici due approdi sicuri in un mare in tempesta. Prima che arrivasse lei, il solo battere a macchina per imprimere i pensieri riusciva a mantenerlo in vita, concedendogli di superare l’ennesimo evento travagliato nello scorrere degli anni.

    Si dice che la raccolta di poesie di Bukowski più rilevante è quella che nasce dopo la morte di Jane Baker, il suo primo grande amore con cui trascorre un decennio burrascoso, ma la cui perdita provoca in lui un forte dolore, tanto da spingerlo più volte a tentare il suicidio. Ma anche in questo caso la possibilità di scrivere e di poter pubblicare lo trattengono. Le poesie per l’appunto vengono pubblicate nel 1962 con il titolo “ It Catches my Heart from my Hands”, tradotte in italiano solo in parte e pubblicate nel 1986 dalla Mondadori in “Poesie” di Charles Bukowski . Poco dopo Charles diventa padre di una bambina avuta con una giovane poetessa e la sua vita riprende a scorrere altalenante come sempre.

    Il suo pubblico di lettori si amplia, ma lui rimane fedele a se stesso, rifiutando di comportarsi come qualsiasi altro scrittore.

    Charles Bukowski con Linda Lee Beighle
    Charles Bukowski con Linda Lee Beighle

    L’incontro con Linda addolcisce però il suo animo, dopo moltissimi rifiuti accetta nel 1987, poco prima di ammalarsi, di scrivere soggetto e sceneggiatura per il film “Balfly – Moscone da Bar” un film diretto da Barbet Schroeder e prodotto da Francis Ford Coppola. La storia narra una delle tante vicende di Henry Chinaski, alterego di Bukowski. Lo stesso scrittore parla della rocambolesca e travagliata creazione del film nell’opera “Hollywood Hollywood”, dove inoltre Sara è il personaggio che rappresenta Linda.

    Il suo puzzle composto da centinaia di tessere malinconiche ha potuto completarsi con un ultima tessera fondamentale, fatta di amore e serenità. Bukowski ha trovato comunque un lieto fine che di certo né a lui né tantomeno a quel che scriveva poteva attribuirsi.

    Se paragonassimo la sua vita ad un suo romanzo potremmo scrivere come explicit quel che leggiamo sulla sua lapide, ovvero Don’t try: il consiglio che era solito a dare ai giovani scrittori, perché secondo lui l’arte dello scrivere non doveva svolgersi a tentativi, ma seguendo precise linee di ispirazione. Charles mostra infatti grandi doti creative e di scrittura fin dagli anni di scuola, dove il suo stile già si presenta realista e sincero: quando viene assegnato alla classe lo svolgimento di un tema che doveva essere il resoconto di una gita il suo risulta essere il migliore, nonostante lo abbia scritto confessando di non aver partecipato alla gita.

    Tenta negli anni di gioventù di pubblicare racconti su alcune riviste e romanzi presso case editrici, eppure alle persone la verità non piace, le sue frasi buttate addosso ad una società molto spesso ipocrita non lo portano al successo fino ai cinquant’anni, dopo anni vissuti come impiegato postale. Lui stesso in quel lasso di tempo non aveva più considerato l’idea di pubblicare quel che scriveva. La sua creatività persisteva, in un mondo troppo semplice per accoglierla, così da condurlo a mostrarsi silenzioso e cinico, coltivando nell’intimo le migliaia di parole che oggi compongono le sue opere.

    Secondo Charles è importante non fingere per piacere, per essere accettati dagli individui con cui si ha a che fare ogni giorno. Proprio nel documentario “You Never Had It”, afferma di odiare chi fa lo scrittore di mestiere, non potendo essere sufficientemente realista nel descrivere l’esistenza umana e tutti i fatti ad essa correlati. Bukowski non si è mai definito scrittore professionista, per l’appunto, aggiungendo inoltre che l’artista di successo è colui che viene apprezzato dopo la sua morte, perché esprime concetti estremamente complessi da comprendere dalla generazione presente, così evoluti e geniali da potersi adattare solo ad una società futura.

     


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