Ha senso leggere The Game Unplugged senza aver letto The Game?
Spoiler: sì, molto.
The Game, edito da Einaudi nell’ottobre 2018, è l’ultima fatica letteraria di Alessandro Baricco. Si tratta di un’opera saggistica il cui obiettivo è sviscerare l’epoca in cui viviamo, sconvolta dalla rivoluzione digitale. È un libro che ha fatto parlare molto di sé, generando numerosi articoli, dibattiti e interviste. È anche un libro che, raccolto da uno scaffale della Feltrinelli, ho preso in mano, soppesato, rigirato, sfogliato velocemente rimesso a posto. Nel pieno delle mie facoltà mentali, ho deciso che no, non valeva la pena di leggere The Game
Qualche mese più tardi, nel 2019, è stato pubblicato The Game Unplugged: una raccolta di saggi curata (o meglio dire “mixata”) da Valentina Rivetti e Sebastiano Iannizzotto, una sorta di appendice o continuazione del saggio di Baricco. Questa volta a prendere la parola sono 12 “giovani” autori del panorama intellettuale italiano: chi, citando la quarta di copertina, “nel Game è nato e cresciuto”. Questa volta, ritrovandomi nella stessa Feltrinelli, ho deciso di non rimettere il volume al suo posto e di dirigermi, invece, alla cassa. Ecco perché.
Perché ho deciso di non leggere The Game?
Cominciamo col ribadire un’ovvietà: non è possibile leggere tutto.
Che tu sia il CEO di una multinazionale o un principe felice che può permettersi di vivere di rendita, che tu sia un divoratore di libri da 50 titoli all’anno o, come me, un lettore lento (la mia media si attesta attorno alle 3 pagine ogni 10 minuti), il tempo a disposizione per leggere non è infinito[1]. Ad un certo punto ti ritroverai a scremare o a ri-prioritizzare la lista delle tue letture, oppure ad inventare originali escamotage per leggere di più in meno tempo. È noto come il sociologo della comunicazione Marshall McLuhan usasse leggere solo una facciata delle pagine dei libri, in modo da dimezzare il tempo di lettura. Conosco persone che hanno letto Il Signore degli Anelli saltando tutte le descrizioni, o la saga di Game of Thrones evitando tutti i capitoli dedicati ai personaggi che ritenevano noiosi.
Essendo io una persona con tendenze vagamente ossessivo-compulsive, che soffre terribilmente ogni volta che decide di saltare anche solo un’introduzione o i ringraziamenti finali, preferisco scegliere meglio a monte i titoli a cui dedicarmi e selezionare letture che, in un modo o nell’altro, mi arricchiranno. Dopo avere letto un paio di recensioni, dopo avere ascoltato un’intervista a Baricco al Wired Next Fest e avere guardato questo interessante video di Wesachannel, ho deciso che questo non era il caso di The Game.
Ci sono molti aspetti di The Game che avrebbero potuto convincermi a leggerlo. Innanzitutto la tematica: la rivoluzione digitale è, insieme al cambiamento climatico, alle loro connessioni spesso insospettabili e ai loro effetti sulla società, uno dei temi caldi del momento, sia all’interno del dibattito accademico-filosofico che, sempre più, di quello mainstream. Dall’altra parte, proprio per la loro importanza e attualità, è fondamentale affrontare questi argomenti con la dovuta preparazione. In caso contrario, il rischio è quello di scrivere un libro inutile, che non aggiunge nulla al discorso in atto o, nel caso peggiore, di scrivere addirittura un libro dannoso, che riduce questioni aperte ed attualissime a elementi di secondaria importanza o di semplice soluzione, da rimandarsi a un futuro non meglio definito.
Alessandro Baricco è un autore con cui tante persone (me compreso) hanno un rapporto controverso, non solo per ciò che scrive, ma per ciò che rappresenta. Baricco incarna alla perfezione un certo tipo di scrittore: il professionista della penna, in grado di padroneggiare con abilità e intelligenza tutti i segreti di quell’arte arcana che è la scrittura. Stregati da un uno stile cesellato nei minimi dettagli e da una costruzione narrativa perfetta, è difficile chiudere un suo libro, saggio o romanzo, e dire “non mi è piaciuto”. Baricco è il vate italiano dello storytelling, dove spesso “storytelling” va in coppia con “marketing”, tanto da avere fondato una scuola dedicata proprio alla trasmissione di quest’arte.
Nella finzione libresca, la voce narrante di Baricco si traveste da archeologo del futuro che, attraverso una serie di reperti di un mondo lontano, ad esempio un vecchio iPhone, cerca di ricostruire il nostro mondo, scrivendone la storia e cercando di tracciarne una mappa[2]. Un escamotage narrativo originale e intrigante. Insomma, non avevo dubbi che The Game sarebbe stata una lettura interessante, forse addirittura avvincente. Eppure, sapevo anche che per capire se quella lettura mi sarebbe stata davvero utile avevo bisogno di scavare sotto la superficie: non tanto quali fossero le tesi dell’autore, ma il suo metodo di indagine, la prospettiva da cui guardava il mondo.
Mentre, in occasione del Wired Next Fest, seduto sull’erba dei giardini Indro Montanelli (Vale sempre la pena di citare Indro Montanelli anche solo per ricordare il blastaggio più epico della storia della televisione italiana. Esaltiamoci pure per Mentana, Baby Yoda o Greta Thunberg, ma l’anonima signora del pubblico li batte tutti), ascoltavo l’autore compiacersi della scelta del termine “verità veloci”, molto più di buon gusto del così parziale “fake news”, mentre decantava con gli occhi persi oltre le teste del pubblico la favola della Silicon Valley e delle magnifiche sorti e progressive che attendono l’umanità negli anni a venire, ho capito che io e Baricco viviamo in due mondi paralleli, separati dallo spazio ma, soprattutto, dal tempo. The Game è un libro nato vecchio: proprio come l’iPhone di cui ci parla il cartografo del futuro, è un reperto di un’epoca che non esiste più.
Guardate la copertina di The Game. Il pianeta Terra, grande come una biglia, che si staglia su uno sfondo blu compatto. Questo è Il Gioco che ci ha lasciato in eredità Steve Jobs: il mondo è un oggetto semplice, a portata di mano, le distanze non esistono più perché ogni luogo, ogni contatto, ogni desiderio, può essere raggiunto con un tocco sullo schermo del nostro smartphone. Questo è il punto di vista di Baricco: impara le regole del gioco e il mondo è nelle tue mani. Easy peasy. Come se Trump non fosse stato eletto anche grazie al contributo dei memer legati ai movimenti dell’alt-right. Come se il caso Cambridge Analytica non fosse mai scoppiato, come se l’economia mondiale fosse ancora in mano a trader in carne e ossa e non ad algoritmi senza anima (e senza cervello), come se guerre e interessi nazionali non avessero iniziato a mettersi in moto proprio in quegli stessi paesi in cui si ricavano le materie prime per realizzare i componenti degli schermi che ci permettono di osservare il mondo, da lontano.
Baricco è un narratore talmente bravo da essere diventato vittima del suo stesso storytelling: ha finito per innamorarsi del suo stesso racconto e confonderlo con la realtà. La Terra non è una sfera perfetta da contemplare dall’alto, la sua superficie è ruvida, piena di irregolarità che producono attriti e frizioni. Storytelling significa unire i puntini, mettere in ordine elementi, episodi e persone per dare un senso alla realtà. Tralasciare alcuni dettagli fa parte di questo processo, è necessario al fine di costruire un modello che funzioni. Ma se, con la pretesa di fare tornare tutto all’interno di un grande disegno unitario, si semplifica troppo, quello che si costruisce non è una storia, ma una frottola per bambini. E potrà anche essere una bugia a fin di bene, come Babbo Natale, ma sempre una menzogna rimane. O forse dovremmo dire una “verità veloce”?
Perché leggere The Game Unplugged?
Con queste premesse, potete immaginare il mio scetticismo nel momento in cui mi è capitato tra le mani The Game Unplugged (da qui in avanti solo “Unplugged”). Scetticismo, però, che è venuto meno nel momento in cui ho letto i nomi degli autori dei saggi della raccolta, molti dei quali avevo già visto o intravisto sulle pagine dell’ei fu Prismo, Not, Il Tascabile, Eschaton e tante altre testate/magazine online/pagine social che hanno contribuito a rendere il panorama intellettuale italiano degli ultimi anni più aggiornato, dinamico e divertente, almeno sul Web. Una volta iniziata la lettura, le mie aspettative sono addirittura state superate.
I 12 saggi sono presentati come altrettante tracce di un ipotetico album “feat.” Alessandro Baricco (che però del libro ha scritto solo la postfazione): piccole scelte stilistiche e dettagli grafici volti a richiamare alla memoria del lettore i vecchi LP[3], e in cui si riconosce la mano di chi sa fare marketing culturale di qualità. 12 pezzi diversi l’uno dall’altro ma che, presentati assieme, ricostruiscono un quadro coerente del presente, con le sue dinamiche post-umane e spesso imperscrutabili, le sue ansie, i suoi giochi di ruolo e di potere. 12 pezzi che, per fortuna, hanno poco o nulla a che vedere con The Game, se non qualche allusione di circostanza.
Raffaele Alberto Ventura, partendo da alcune idee sulle dinamiche di accumulo del capitale simbolico già affrontate nel suo Teoria della classe disagiata e, in parte, ripercorrendole, arriva a elaborare una teoria di come gli esseri umani tendano ad elaborare interfacce per manipolare i simboli e così agire sulla realtà. Francesco Guglieri si sofferma sulla retromania, la tendenza ad inserire riferimenti agli anni ’80 e ’90 nei prodotti culturali contemporanei, e non dimentica di citare Bandersnatch tra i suoi esempi.
Marina Pierri parla del fenomeno della serialità e, benché si tratti di un argomento ormai ampiamente trattato, la sua ricostruzione della storia e dell’evoluzione delle serie (TV e post-TV) è una delle più complete e coerenti che mi sia capitata di leggere fino ad ora. Alessandro Lolli ci parla di come nel giro di pochi anni Internet sia passato dall’essere il luogo dell’anonimato per eccellenza a un gigantesco palcoscenico, e di chi cerca di ritagliarsi uno spazio al riparo dalla luce accecante dei riflettori. È di Davide Coppo una delle immagini più potenti dell’intero libro: la tigre, un animale moltiplicato all’infinito sul Web, presente nei loghi di numerosi brand, nei documentari di Netflix e nei tatuaggi sui nostri avambracci, è in realtà un animale quasi estinto, di cui esistono in tutto il mondo meno di 4.000 esemplari. A Elisa Cuter il compito di parlare di femminismo e di femminilizzazione dell’immaginario attraverso la rivoluzione digitale.
Miniere di litio e di cobalto, Antropocene, forbice sociale divaricata da algoritmi ingiusti, il lato oscuro dei santoni della Silicon Valley… Unplugged ci racconta il gioco a cui stiamo giocando (e cosa c’è in palio) molto meglio di quanto non faccia The Game. È un libro che sembra pensato apposta per chi, magari dopo il liceo o una triennale in discipline umanistiche, abbia voglia di provare a volgere lo sguardo dagli autori del passato verso le questioni etiche e filosofiche del nuovo millennio, perché nella sua frammentarietà fornisce una visione a 360 gradi sui temi caldi del presente e del futuro prossimo. L’entry level perfetto, direbbe qualcuno.
Una volta terminato Unplugged, mi sentivo talmente soddisfatto che per un istante mi è balenato il pensiero di dare una seconda chance a The Game. Per fortuna, poi ho letto la postfazione di Baricco.
Perché ho deciso (per la seconda volta) di non leggere The Game?
La postfazione di Baricco a Unplugged, intitolata “Nota. Scritta dopo aver letto”, esprime alla perfezione tutti i motivi per cui ho deciso di non leggere The Game. Non potendo copiarla qui per intero, mi limiterò a citare qualche estratto particolarmente illuminante.
Dato che schierarsi con forza contro il lavoro di uno scrittore famoso non sembra più essere di moda[4], tanto più per un libro che si è deciso di non leggere, avrò bisogno di un fedele alleato per supportare le mie tesi, uno spirito guida che infonda in me forza e coraggio. Scelgo per questo compito Baby Yoda.
Baby Yoda, pur avendo fatto la sua comparsa verso la fine dell’anno, è uno dei personaggi più memorabili di questo 2019. Oltre ad essere tenero, coccoloso e dotato di poteri psichici, il piccolo alieno è l’incarnazione di quello che è il meme indiscusso dell’anno: “Ok, boomer”. Ormai i meme sono diventati oggetti famigliari, anche i nostri zii, genitori e, in alcuni casi, nonni, sono abituati a scambiarseli sulle chat di Facebook o Whatsapp e a riderne sommessamente, con un piccolo sbuffo dalle narici. I meme sono una lente attraverso cui leggiamo la realtà, proprio come i romanzi o le serie TV, i servizi del TG o le vignette di satira sui giornali, e un meme come “Ok, boomer” può raccontarci tanto sulla nostra società.
L’enciclopedia dei meme Know Your Meme non riesce ad attribuire una data esatta per la nascita di “Ok, boomer”, ma riporta alcuni interessanti dati sulla sua diffusione e i più celebri casi di utilizzo, come quando, lo scorso novembre, venne impiegato da una parlamentare neozelandese venticinquenne del partito green per zittire un politico più anziano che stava cercando di interrompere un suo intervento. “Ok, boomer” ci parla dell’incomunicabilità tra due generazioni cresciute in periodi storici completamente diversi: quella dei nati in un periodo di grande benessere ed espansione economica, i baby boomer appunto, e quella di chi è cresciuto con lo spettro di una crisi economica e lavorativa permanente, i millennial e la generazione Z.
Se i primi pensano di saperla più lunga perché hanno vissuto di più e hanno accumulato più esperienza, spesso non tengono conto che il mondo è cambiato notevolmente negli ultimi 20-30 anni. Di fronte a questa impossibilità di trovare un terreno di dialogo comune, l’unica risposta da parte delle nuove generazioni è un accondiscendente “Ok, boomer”.
Ora riporterò alcune righe della postfazione di Baricco a Unplugged. Dopo ogni citazione, vi prego di immaginare Baby Yoda comparire e recitare la frase “Ok, boomer”.
C’era giusto una cosa che mi mancava. Una cosa che credo di avere desiderato dalla prima volta che mi sono messo lì a scrivere una pagina di ‘The Game’: mi mancava qualcuno che continuasse a scriverlo… Non è che tutti quelli che hanno scritto in questo ‘The Game Unplugged’ vadano matti per ‘The Game’: a prima vista ce n’è almeno un paio che, anzi, lo devono proprio detestare…
Qui si vede la maestria di un grande retore. In preda ad una crisi di delirio megalomane, Baricco riesce in un colpo solo ad accentrare e fare sue non solo tutti gli articoli e le tesi a favore del suo The Gamehh, ma anche tutte quelle opposte. Seguendo i peggiori modelli delle scienze della comunicazione, di The Game si può dire tutto e il contrario di tutto, l’importante è parlarne (e accrescere così l’ego già piuttosto rigonfio del suo autore).
Ok, boomer.
…Ma in qualche modo tutti – io, e tutti loro – stiamo guardando lo stesso punto, abbiamo accettato una certa idea di longitudine e latitudine, abbiamo un tavolo da gioco comune, e forse perfino delle regole base che abbiamo convenuto di rispettare.
Penso che sia esattamente l’opposto. Una cosa è godersi la partita dall’alto, o dalla distanza fittizia di un futuro lontano, un’altra è ritrovarsi, volenti o nolenti, a rotolare nel fango e a prendersi pedate negli stinchi per correre disperatamente verso la meta. È esattamente il punto di vista che separa di anni luce gli autori di Unplugged da quello di The Game. Ma se a Baricco fa piacere sentirsi sodale dei giovani autori di nuova generazione, non possiamo che rispondere: Ok, boomer.
Inizia poi un lungo mea culpa durante il quale Baricco ha quanto meno il buon gusto di ammettere la sua ignoranza su tutta una serie di temi trattati in The Game, di cui però non aveva la benché minima conoscenza. Nessun problema per l’ego dell’autore, che etichetta tutte queste nuove nozioni come amene curiosità:
Mentre mi deliziavo a scoprire che Amazon “vede” i brani più sottolineati dei libri e sa a che pagina i lettori hanno piantato lì un romanzo, qualcun altro mi ha riportato alle cose serie chiarendomi quel fenomeno fantastico che è l’Inversione: mi ha obbligato a concludere che il rapporto tra mondo e oltremondo è un rapporto anche più incasinato di quanto mi fossi immaginato
Che delizia scoprire come funzionano gli algoritmi di una delle più importanti tech company del mondo solo dopo avere scritto un libro di 325 pagine sulla rivoluzione digitale! Si può solo immaginare in quale brodo di giuggiole andrebbe Baricco se si degnasse di leggere qualcosa come Nuova era oscura di James Bridle o 6|5-La rivolta delle macchine di Alexandre Laumonier. Per quanto riguarda il rapporto incasinato tra mondo e oltremondo, che poi è il neologismo pomposo scelto da Baricco per identificare la realtà virtuale, la bibliografia è talmente sterminata che non vale nemmeno la pena di parlarne.
Al fatto che circoli nel Game un nostro doppio – una nostra copia assemblata con i dati che ci lasciamo dietro – non avevo dato l’importanza che si merita. Che a generarlo sia sostanzialmente la somma degli innumerevoli sistemi di sorveglianza in cui siamo a mollo, è una cosa a cui avevo pensato solo in modo distratto.
Una frase che potremmo tradurre con “Ops, non sapevo che Benjamin Bratton avesse scritto un tomo di 502 pagine intitolato The Stack – On Software and Sovereignty“.
Di sicuro, conoscendola come adesso la conosco, avrei fatto un uso massiccio della categoria di Antropocene, ideale per etichettare il Game.
Si parla di Antropocene dagli anni ’80, e da talmente tanto tempo che c’è chi già lo considera un termine datato e ha iniziato a proporre nuove alternative per definire l’epoca in cui viviamo.
Infine arriviamo alla parte che preferisco, cioè quella in cui Baricco risponde alle accuse di chi vede nel suo meraviglioso Game non il mondo nuovo creato da una volontà “libertaria e antisistema” (leggi: la filosofia della Silicon Valley a cui l’autore si sente tanto vicino), ma “il capolavoro finale del capitalismo”:
In ‘The Game’ la parola ‘capitalismo’ non compare neanche una volta. Esistono lettori per cui questo equivale a scrivere ‘Moby Dick’ senza la balena. Lo capisco. Ma sulla questione nutro le mie convinzioni, che non chiamo certezze solo per buon gusto. La prima riguarda il metodo’.
E via a snocciolare un’interessantissima teoria su come l’analisi degli effetti del capitalismo sia più efficace se non si prende in considerazione il capitalismo stesso (ma allora Baricco sta ammettendo che il capitalismo e il Game sono la stessa cosa?). Approccio che posso anche comprendere: ricordo quando frequentavo l’università e molti tra professori e studenti parlavano di capitalismo e anticapitalismo quasi sottovoce, per paura di essere etichettati come politicamente schierati.
È un fenomeno che sta cambiando solo negli ultimissimi anni, per non dire mesi, sulla scia dei nuovi movimenti ambientalisti e critici nei confronti della società attuale. A me sta bene che Baricco non voglia utilizzare la parola “capitalismo” per paura di essere tacciato come anti-liberal dai suoi amici boomer[6]: può chiamarlo The Game o anche Peppa Pig, per quanto mi riguarda. Quello che non mi sta bene è che consideri la rivoluzione digitale come mera innovazione tecnologica e un’evoluzione del pensiero intrinseca nella storia della specie umana, senza considerare i rapporti di potere tra le parti e, soprattutto, chi questo gioco non può permettersi o non vuole giocarlo.
Nel Game, come nel gioco del trono, o vinci o muori. Per Baricco, chi fallisce è il dinosauro di un’epoca passata, troppo vecchio o troppo pigro per imparare nuove regole. Basta così poco per sbancare: l’ispirazione del momento per fondare una start-up milionaria, un po’ di capacità di self-branding per diventare influencer e vivere di like per tutta la vita. Ma cosa succede se una persona nasce senza una mente brillante o spirito imprenditoriale? O se, sfortuna vuole, non ha nemmeno i soldi per pagarsi triennale, magistrale e master? Vogliamo davvero costruire una società in cui gli unici a prosperare siano i ricchi di famiglia e geni di natura? E cosa dire di chi, magari anche con le possibilità per farlo, decide di non giocare al Game e di seguire ideali diversi dal successo personale e dal profitto?
Forse è giunto il momento di prendere Baricco da parte e dirgli “Ok, boomer, hai parlato abbastanza. Ora lascia che ti racconti un’altra storia”.