Tra i generi letterari la fiaba è insieme uno dei più antichi e dei più recenti. Da un lato, i temi e gli episodi, e talvolta le storie stesse, che ritroviamo nelle fiabe a noi più prossime e familiari possono essere scoperti fin dagli albori della tradizione letteraria dell’Occidente. Dall’altro, la fiaba vera e propria, come la conosciamo, ha visto la luce solo a partire dall’età moderna, e nessun autore antico l’avrebbe mai considerata con una categoria a sé stante. Questo paradosso trova soluzione nel momento in cui riconosciamo che la fiaba si compone di due elementi divergenti, in apparente contrasto l’uno con l’altro, e solamente la loro unione dà vita al racconto fiabesco in purezza.
J.R.R. Tolkien, tra i massimi esperti di letteratura e folklore del XX secolo, definisce la fiaba come una particolare fattispecie del mito, e più precisamente come quella parte di mito che ha per tema l’incontro dell’uomo con la dimensione del fatato e del sovrannaturale:
Come dicevo, l’accezione “storie di fate” è troppo ristretta. Tale, anche se rifiutiamo la statura minuscola, perché le storie di fate, nell’uso corrente del termine, non sono storie su fate o elfi, bensì vicende in cui si narra del mondo fatato, cioè di Feeria, il reame o stato in cui le fate conducono la loro esistenza. È un reame che contiene molte cose accanto a elfi e fate, oltre a gnomi, streghe, trolls [sic], giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo, e la terra e tutte le cose che sono in essa, alberi e uccelli, acque e sassi, pane e vino, e noi stessi, uomini mortali, quando siamo vittime di un incantesimo.
Racconti che riguardano soprattutto le “fate”, vale a dire quelle creature che potrebbero anche meritare il nome di “elfi”, sono relativamente rari e di regola di scarso interesse: gran parte delle “fiabe” parlano di “avventure” di uomini nel Reame Periglioso o nelle sue incerte marche di frontiera[1].
La fiaba racchiude in sé ogni contatto e contaminazione tra la sfera dell’umano, con le sue leggi regolari e la sua tangibilità, e quella del fantastico, dove predomina il potere dell’immaginario. Tuttavia, nel corso dei secoli la sensibilità e l’accettazione verso il fatato sono andate scemando, finché si è smesso di concepirli come parte possibile della nostra realtà. Quando questi temi sono stati infine riscoperti, lo sguardo dei nuovi letterati era velato da un’ombra ineludibile di scetticismo, che li ha portati a circoscrivere la potenza smisurata del fantastico, prendendone le distanze e racchiudendoli nella cornice del racconto per bambini.
Proprio dall’incontro di questi due componenti antitetici – un contenuto mitico e fantastico rappresentato attraverso una cornice scettica – nasce la fiaba propriamente detta. È per questa ragione che non può esistere un’autentica fiaba del età antica o del Medioevo: benché molto più vivo e fecondo, il sostrato di materia fantastica recava frutti che venivano impiegati in altre opere, inserendo temi fantastici in altri generi. Possiamo metaforicamente presentare la fiaba come una pianta che per lungo tempo non è mai stata coltivata per sé stessa, ma solo come innesto per altre piante; questo arbusto ha iniziato a venire valorizzato, ed allevato nella sua forma più pura, solamente quando i suoi semi hanno smesso di essere considerati pregiati e i suoi fiori non sono più stati ritenuti eleganti quanto quelli di altre piante.
L’antichità: le origini della materia fiabesca
Parlando dell’antichità, si è soliti fare il nome del greco Esopo e del latino Fedro come possibili padri fondatori della tradizione fiabesca. Benché vissuti a distanza di secoli, le loro vite sono accomunate dalla condizione di schiavitù, e furono gli autori di un vasto corpus di storie brevi caratterizzate da uno stile semplice e quotidiano e da un espresso insegnamento morale: i loro racconti sarebbero presto entrati nell’immaginario collettivo della cultura occidentale, tramandati da numerosi epigoni e imitatori e radicatisi persino nel linguaggio comune. Tuttavia, Esopo e Fedro furono autori non di fiabe, bensì di favole: benché entrambe le parole derivino dal latino fabula, si tratta di due generi affatto differenti, anche se spesso accostati in virtù del linguaggio semplice e della destinazione ad un pubblico di bambini[2].
Tracce più autentiche della pura materia della fiaba si trovano invece in opere differenti,a volte insospettabili: è fiabesco l’incontro di Odisseo con il Ciclope – e molti altri episodi che Omero affronta in minor spazio – così come il viaggio degli Argonauti raccontato da Apollonio Rodio; germi di fiaba si trovano nelle tragedie di Euripide come nei carmi di Pindaro. In certi casi, nella letteratura degli antichi si trovano le versioni aurorali, ma già riconoscibili, di alcune tra le fiabe più note ed amate del repertorio contemporaneo: le Storie di Erodoto sono la prima opera di storiografia e cronaca dell’Occidente, eppure lì compare Rodopi – la schiava vessata dalle altre serve e salvata dal faraone che si innamora di lei – secoli prima della più nota Cenerentola; nel suo romanzo Le Metamorfosi, già pieno di episodi mirabolanti, il romano Apuleio si prende il tempo per raccontare di Amore e Psiche, celebre storia d’amore considerata la matrice per La Bella e la Bestia.
Il Medioevo e il fiabesco
Il Medioevo si rivela ancor più proficuo e generoso per far sbocciare il seme della fiaba in altre opere, e forse non è un caso che nell’immaginario comune la fiaba sia ambientata in una cornice medievale. Proprio nell’Età di Mezzo vengono a formarsi tutti quegli elementi storici che presto diverranno inscindibili dal canone fiabesco: castelli remoti, cavalieri in armatura splendente, fitte foreste popolate di creature mostruose e sfuggenti. Di tutto questo troviamo racconto nei romances, opere di narrativa d’intrattenimento rivolte al pubblico colto e cortese, che si rispecchia nei nobili protagonisti di questi racconti. Il romanzo cavalleresco, in prosa o in versi, porta inoltre a rielaborare e recuperare nella letteratura alta una copiosa messe di leggende e racconti popolari, cui gli autori si ispirano per illustrare imprese sempre più grandiose per i propri eroi.
La parte del leone, come è noto, tocca alla materia di Britannia: attorno al mitico re Artù e ai suoi impavidi cavalieri si costruisce un vasto mondo di storie, popolato di maghi e fate, di draghi e giganti, di spade portentose e pozioni magiche. Nello stesso periodo, i letterati islandesi iniziano a mettere per iscritto il passato mitico della loro comunità, consegnandoci le saghe dei re e degli eroi, e un anonimo poeta tedesco canta la tragica morte di Sigfrido, uccisore del Drago. Insospettabilmente, toccherà agli italiani di scrivere la conclusione di questa stagione compositiva, accompagnando il poema cavalleresco al suo canto del cigno: Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto daranno dignità artistica alla tradizione del cunto popolare e porteranno il senso del meraviglioso nella materia di Francia, precipitando il prode Orlando e gli altri paladini di Carlo Magno in un turbine di peripezie e incanti, tra principesse fuggiasche e castelli incantati, stregoni pagani e mostri inumani; Torquato Tasso si spingerà oltre, intessendo di magia e portenti gli avvenimenti storici della conquista di Gerusalemme nella prima crociata.
Netta è invece la cesura che opera Miguel de Cervantes, padre nobile della letteratura spagnola ed ultimo autore di romanzi cavallereschi: il suo Don Chisciotte, scritto con affetto nondimeno sincero, rese impossibile prendere sul serio i racconti che l’avevano preceduto; tramite l’ignara follia del protagonista, Cervantes metteva in burla tutti i suoi antecedenti, ponendo la pietra tombale sulla letteratura cortese. Ma, come abbiamo rilevato all’inizio, la fiaba può esistere solo raccontando la meraviglia tramite una cornice scettica. Il tramonto della cavalleria e dei suoi ideali, e l’impossibilità di scriverne ancora nella letteratura alta, portò così la materia fantastica a fiorire in una nuova forma.
Giambattista Basile: la nascita della fiaba moderna
Non stupisce quindi la breve distanza che intercorre tra Cervantes e Giambattista Basile. Questi vanta la distinzione di essere il primo tra i moderni scrittori di fiabe, e il codificatore del genere fiabesco come lo intendiamo oggi. Basile, intellettuale napoletano vissuto a cavallo del Seicento, trascorse gli ultimi anni della sua vita raccogliendo le fiabe della tradizione popolare, che consegnò così all’eternità della pagina scritta, in maniera non dissimile da quanto avevano fatto i compilatori ateniesi che misero per iscritto l’Iliade e l’Odissea, fino ad allora tramandate solo oralmente e soggette alle modifiche di ogni narratore.
Il frutto delle ricerche di Basile fu compendiato in un’opera – pubblicata postuma per interessamento della sorella Adriana, celebre cantante dell’epoca – dal titolo eloquente: Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenimento de peccerille[3] Qui sono riassunti due capisaldi della nostra concezione della fiaba, che essa sia un racconto di fantasia e per diletto e che si rivolga ad un pubblico di infanti. Nondimeno, questo è un equivoco: il testo di Basile è sottile e raffinato, pieno dei guizzi della letteratura barocca, e rivolto al pubblico di corte. Il Cunto de li cunti sprizza di sagacia e sarcasmo, adopera le sue storie come mezzo per esaltare le buone morali e satireggiare sui vizi, con confidenza alquanto adulta; il suo pubblico è quello dei cortigiani, che vi assistono in messe in scena e rappresentazioni nella nicchia del teatro di corte del Rinascimento, per un intrattenimento collettivo e non individuale.
L’altro titolo con cui è noto, il Pentamerone, lo colloca nell’alveo di Boccaccio e della novellistica medievale, di cui riprende lo schema narrativo di un racconto cornice al cui interno compaiono i narratori delle singole storie; tuttavia, Basile si distacca dai suoi predecessori, proponendo racconti unicamente di genere fiabesco e facendo confluire la cornice nell’ultima storia, trasformando così un pretesto narrativo in un artificio di trama. Del pari, la scelta di adoperare il dialetto napoletano in luogo dell’italiano serve a ricercare la spontaneità e la vicinanza, rendendo il racconto più prossimo e familiare al lettore/spettatore. Tra le pagine del Cunto possiamo ammirare le prime versioni di fiabe immortali come La Gatta Cenerentola e Sole, Luna e Talia, che più in là diventeranno celeberrime come Cenerentola e La Bella Addormentata.
Charles Perrault: il conte de fées alla corte del Re Sole
Passiamo ora le Alpi per recarci in Francia, dove la fiaba più che mai si radicherà nell’ambiente cortigiano e si rivestirà dell’abito di intrattenimento disimpegnato anche se provvisto di un insegnamento morale. Gli autori di fiabe ora sono gentiluomini e dame di corte a loro agio tra le ville e i giardini del Re Sole, pronti a riscoprire il gusto del meraviglioso mantenendo tuttavia il garbato distacco di osservatori smaliziati. La fiaba riceve qui il nome con cui forse è più nota, quello di conte de fées, racconto delle fate, quasi a circoscrivere il suo oggetto, come avrebbe lamentato Tolkien, alla sola presenza di fate e folletti dall’aspetto grazioso; le trascrizioni di questi cortigiani renderanno immortali i racconti della tradizione popolare, ma cominceranno a spogliarli di quell’aura di venerazione e timore che li animava, e solo la presenza di una morale esplicita riscatterà questo trastullo innocente.
Come successo al principio di questa cavalcata per Esopo e Fedro, dobbiamo menzionare, al fine di espungere, il loro unico grande erede: Jean de La Fontaine, che nei suoi racconti in versi portò nuova vita alla favola di animali, recuperando la tradizione del racconto morale di epoca classica; ma, appunto, La Fontaine fu un favolista, e non un narratore di fiabe, e dunque non ha posto in questo catalogo. Tocca invece ad un suo collega erudito e pressoché contemporaneo di inaugurare la folta schiera dei contes de fées: si tratta di Charles Perrault, il cui nome è quasi sinonimo di fiaba. Fine letterato ed uomo dell’amministrazione del regno come La Fontaine, Perrault fu membro dell’Acadèmie Française, dove si distinse nella celebre Querelle des Anciens et des Modernes[4] – incredibile a dirsi, nelle vesti di alfiere dei moderni – e deve la sua fama al suo lascito più celebre: Les Histoires ou Contes du temps passé, avec des Moralités, noti anche con il titolo originario di Les Contes de ma mère l’Oye[5].
A differenza di Basile, ingiustamente dimenticato dal grande pubblico, Perrault è ancora ben noto e ricordato: non solo la sua opera ha trasformato la popolare Mamma Oca nella narratrice archetipica dei racconti per l’infanzia, ma si è ritagliata un ruolo di modello esemplare; le sue versioni, raccontate con gusto sottile e ironia, si candidarono a diventare canoniche, mantenendo il proprio intreccio stabile e pressoché inalterato in tutti i successori. Come Basile, Perrault raccoglie storie di lunga tradizione, le ripulisce dai particolari più irrazionali ed osceni e lascia al suo posto immagini vivide ed imperiture – dalla mantella rossa di una bambina nel bosco alla barba blu di un sanguinario nobiluomo – con cui presenta al re e alla corte una lettura elegante, per risollevare gli animi e svagare i pensieri.
Ma Perrault non è il solo tra gli aristocratici di Francia a dedicarsi con gusto all’arte di intessere racconti di fate: molti altri nobili ci hanno consegnato raccolte di fiabe nello stile del grande precursore; un numero sorprendentemente alto di queste fiabe è pubblicato da donne, lasciate libere di dedicarsi ad un genere tanto disimpegnato, e tra esse è doveroso ricordare Gabrielle-Suzanne de Villeneuve e Jeanne-Marie Leprince de Beaumont, autrici rispettivamente della prima versione e della forma classica di una delle fiabe più illustri, La Bella e la Bestia. Del pari, il Settecento vide l’arrivo in Europa – sempre ad opera di un francese, l’arabista Antoine Galland – di una delle raccolte più antiche ed emblematiche del mondo fiabesco, Le Mille e una Notte: celebre silloge di storie, composte a più riprese e in diverso tempo, avvolte da una cornice narrativa tra le più famose – la novella sposa Shahrazād che intrattiene il crudele sultano avvincendolo con i suoi racconti per rimandare la propria esecuzione – che si conquistò un posto d’onore nel cuore dei letterati europei, stregati dal suo esotismo e dalla vitalità vibrante.
I Fratelli Grimm ed Elias Lönnrot: la riscoperta del folklore nordico
Dopo i molti autori francesi del XVIII secolo per la fiaba si impone un cambio di passo, tanto nel luogo quanto nello scopo. La prossima tappa del nostro viaggio è la Germania di inizio Ottocento, e i nuovi personaggi due professori universitari, studiosi di diritto e letteratura: i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm. Non è solo la nazionalità differente o l’estrazione borghese a distinguerli dai loro predecessori di là del Reno, ma una missione ardente che permea tutta la loro attività letteraria e politica: i fratelli Grimm trascorsero la loro giovinezza in una Germania divisa in una miriade di staterelli separati e gelosi della propria indipendenza, per poi venire travolti dalla stagione delle guerre napoleoniche, in cui bruciò quel mondo aristocratico e in qualche misura cosmopolita di Perrault. Di fronte all’invasione e all’annessione da parte di Napoleone, il mondo tedesco scoprì il concetto di nazione, una comunità unita non dalla fedeltà dinastica ma da una comune identità linguistica e culturale; e fu proprio quest’impeto a muovere i fratelli Grimm.
Per servire l’ideale di una patria comune, Jacob e Wilhelm non solo studiarono le origini della lingua tedesca – il loro dizionario è tutt’oggi considerato la fonte più autorevole sull’etimologia – ma raccolsero tutti i racconti, le leggende e le storie tradizionali tramandate oralmente nelle campagne, allo scopo di preservare un patrimonio di conoscenza tradizionale e sapienza popolare che iniziava a disperdersi. Con le Kinder- und Hausmärchen[6] pubblicate tra il 1812 e il 1815, i fratelli Grimm diventano i più prolifici ed importanti autori del genere fiabesco, e assieme impongono definitivamente due caratteri che oggi ci paiono inscindibili dalla fiaba. Da un lato, sono i Grimm a presentare, per la prima volta sinceramente, la fiaba come lettura destinata ad un pubblico di bambini, contrariamente all’immagine oscura e violenta cui è più spesso associata; difatti, le edizioni successive delle Fiabe, curate dal solo Wilhelm, avrebbero presto ingentilito i racconti ed espunto i particolari più grandguignoleschi, per renderle meno spaventose e più apprezzabili da lettori più giovani.
Dall’altro, le Fiabe dei Grimm si sono dimostrate preziosissime per lo studio del folklore, poiché il racconto fantastico aveva preservato, sia pur in forma sbiadita, un patrimonio vastissimo di indizi, segreti e motivi ancestrali, testimonianza vivente di una tradizione etnoantropologica, di valori e sensibilità su cui il Volkgeist, lo spirito del popolo in costruzione, trovava un nuovo fondamento. E non è certo un caso che negli stessi anni un medico finlandese si adoperasse nel medesimo compito, trascrivendo – o forse riscrivendo – i racconti del passato mitico della sua terra: il suo nome era Elias Lönnrot, e l’opera che ci ha consegnato il Kalevala, la grande epopea della Finlandia; un poema epico permeato dello stesso spirito delle Fiabe dei fratelli Grimm e costituito della medesima materia, che non è divenuto fiaba solo perché il suo compilatore lo presenta con immedesimazione sincera, e senza quella presa di distanza ironica e scettica che costituisce la fiaba.
Hans Christian Andersen: l’inizio della fiaba d’autore
L’ultimo tassello del nostro mosaico è Hans Christian Andersen, scrittore danese di una generazione più giovane dei fratelli Grimm. Il suo contributo è tanto semplice quanto dirompente, poiché Andersen riporta l’autore nella fiaba. Questa infatti, nella forma con cui si era strutturata in Occidente e nel resto del mondo, non aveva un autore, ma sembrava sorgere così, senza padre o madre, dalle storie tramandate dalla comunità, una creazione collettiva e impersonale che recava valori di gruppi estesi nel tempo e nello spazio.
Tutti i nomi che abbiamo incontrato finora erano collezionisti e compilatori, che avevano selezionato e riunito i frutti di un panorama assai vasto e li avevano intrecciati e rifiniti per presentarli, ma non potevano vantare la titolarità della creazione artistica. Hans Christian invece è autore in toto, ideatore di storie fin lì inesistenti, con cui racconta i drammi della vita e le sue peripezie in forma semplice e affascinante, senza timore di tragedia. Infatti, contrariamente al canone che vedeva necessario il lieto fine, le fiabe di Andersen spesso finiscono nel dolore e nella perdita, venata di una dolceamara consolazione assai più malinconica dell’usuale trionfo.
Dopo Andersen, molti altri autori troveranno nella fiaba il mezzo per raccontare le proprie storie. Ma la fiaba d’autore gode di vita e regole proprie, distinte dalla fiaba classica, e per questo la nostra rassegna termina qui. Passiamo a volo di uccello tra gli epigoni più noti degli autori che qui abbiamo incontrato, e troveremo Lewis Carroll e James Barrie, che ci hanno donato nuove icone britanniche quali Alice e Peter Pan; il toscano Carlo Collodi, creatore di Pinocchio ma anche storico traduttore di Perrault; Lyman Frank Baum e il suo meraviglioso mago di Oz; Walt Disney, che ha accompagnato le fiabe dalla pagina scritta al grande schermo, e le ha rese eterne di nuova vita; e poi Tolkien, Ende ed altri ancora. Di ognuno tra questi, e dei molti che non ho potuto menzionare, ci sarebbe così tanto da scrivere e da scoprire. Ma – proprio come ci ha detto uno di loro – questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta.
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In copertina: John Collier, La Bella addormentata nel bosco, 1921, olio su tela, collezione privata. La Bella addormentata è un’altra candidata al titolo di fiaba per eccellenza. La sua prima versione classica risale all’adattamento di Basile, ma il tema di una principessa condannata ad un sonno incantato e destinata a venir ridestata da un impavido eroe si può ritrovare fin nella Saga dei Volsunghi.