La graphic novel Stitches è tra le opere dell’autore americano David Small, il suo lascito autobiografico. In quest’opera ci accompagna infatti tra le pieghe più recondite della sua infanzia, aprendo agli occhi del lettore una finestra che si affaccia prominente sulle sue ferite e ricordi più intimi. A fare da cornice alla narrazione è la quotidianità di una casa, quella della sua famiglia a Detroit, dove regna un linguaggio mistificato: tutti i personaggi (riproducendo fedelmente la realtà vissuta da Small) sono cinti entro un silenzio insieme simbolico e visceralmente materico, funzionale ad occultare il loro malessere esistenziale.
La madre, lesbica costretta a reprimere la propria omosessualità, bofonchia continuamente con quella che l’autore chiama la “tossettina” e in cucina sbatte piatti e armadietti; il padre dopo le giornate lavorative come radiologo in ospedale si sfoga su un punchball in cantina, infine il fratello si rinchiude nello scantinato a battere tutto il giorno le percussioni. E anche il piccolo David ha una propria peculiare forma di resistenza a questo silenzio rabbioso che aleggia totalizzante tra le mura di casa: semplicemente, si ammala.
Nato con problemi respiratori, David è un bambino che è certo incline ad ammalarsi, ma la febbre in cui ricade periodicamente è anche altro: il suo ammalarsi, per ammissione dello stesso autore adulto, corrisponde a un’inconscia ricerca d’affetto. Affetto che sarà corrisposto al bambino sempre e solo vagamente, in rari momenti di distensione e tenerezza familiari, e la cui mancanza diventerà manifesta man mano che la narrazione svela il suo fulcro centrale: l’operazione che subisce alla gola all’età di quattordici anni.
A undici anni e mezzo, medici amici di famiglia diagnosticano infatti a David quella che sembra presentarsi come una cisti di poca rilevanza al collo, estirpabile con un’operazione di routine. I genitori di David si ripromettono di pagargliela non appena avranno sufficiente disponibilità economica, salvo poi spendere i soldi di una promozione al lavoro in vestiti e mobili, e riservare al ragazzino (nel caso della madre) occhiate accigliate e infastidite quando la protuberanza svia a una festa l’attenzione della donna da lei desiderata, e forse amata. Quasi il piccolo David avesse nella sua innocenza la natura di un capro espiatorio su cui poter raccogliere il male per prima scrutarlo a fondo e quindi rifuggirlo, distanziarlo. Intanto il tempo passa, e i genitori dopo tre anni e mezzo dalla prima diagnosi decidono che è arrivato il momento di far operare il figlio.
David viene operato e si sveglia: ma qualcosa è andato storto. I suoi genitori lo avvisano che dovrà subirne una seconda, e sono stranamente gentili; sua madre gli recupera persino Lolita di Nabokov, libro che gli aveva bruciato ritenendolo inadatto alla sua educazione. E così di nuovo sonno profondo sotto l’anestesia, di nuovo occhi che pian piano discernono la luce: anche la seconda operazione è andata. Ma questa volta un lascito tremendo aspetta David. Il ragazzino si risveglia infatti senza una corda vocale e per qualche mese sarà in grado di proferire solo un “ack” secco. La “cisti” era in realtà un cancro alla gola, fatto che David sarà costretto ad apprendere da solo, per caso, leggendo una lettera della madre. Cancro alla gola cagionato dallo stesso padre, che gli confesserà una sera in riva al fiume di essere stato inavvertitamente la causa della malattia, avendolo sottoposto da piccolo a centinaia di radiazioni secondo la prassi che prescriveva allora ai medici di curare così i bambini affetti da problemi respiratori.
Così David adolescente, ridotto a un silenzio che fino a quel momento era stato una scelta soltanto, fronteggia il trauma con pazienza ma anche con forza e ribellione, facendosi espellere più volte da scuola e ritrovando la pace in lunghe fughe nel vortice di pedoni circolante in città. E nell’arte.
David disegna fin da piccolo, dotato di una fervida immaginazione che permea tutto il tessuto dell’opera, in un piccolo miracolo attuato dall’autore: quello di riuscire a raccontarci le fantasie di un bambino, dal suo fingersi Alice nel Paese delle Meraviglie correndo con una bandana in testa, al suo immaginarsi i feti nelle ampolle dell’ospedale del padre uscire per rincorrerlo, agli schizzi che mostrerà al dottor Davidson quando inizierà a quindici anni un percorso di psicoterapia.
Mentre gli altri abitanti della casa sembrano fluttuare sull’orlo di quel precipizio che è il loro stesso silenzio, David riempie i fogli di schizzi immaginando forme e trasmutandone altre, calandosi tra personaggi fittizi che si sovrappongono a quelli reali e talvolta li rimpiazzano. Immagini che hanno la delicatezza di una poesia e la forza espressiva di una cinepresa, e che ci insinuano in sussulti tra gli stati mentali del ragazzino, come quando il lettore è calato in quella sensazione di claustrofobia data dal mutismo forzato, che ritroviamo nel disegno in cui David è trincerato nella propria bocca. Trincea di cui il ragazzino con il tempo saprà scardinare le inferriate, imparando ad abitare l’arte come una casa in grado di suturare le proprie ferite interiori ed emancipandosi presto, sia fisicamente che psicologicamente, dal proprio ambiente familiare; per ritrovare in se stesso e negli altri nuovi intensi aneliti di vita.
L’opera di Small, che sembra dialogare tanto con il Faulkner de L’urlo e il Furore per il suo ritmo sinfonico in atti e con un regista come Andrey Zvyagintsev che in Loveless dispiega quella spietata “banalità del male” di cui si macchiano gli adulti che non amano i bambini, ci parla di conflitto, di incomunicabilità profonda, di dissidi tanto insanabili quanto occultati. Ma è prima di tutto un inno: all’innocenza dei bambini e all’immenso potere che risiede nella loro immaginazione. E all’arte, che come ci mostra Small in questa commistione perfetta di contenuto e forma, rintracciando il potere immaginifico del proprio sé bambino non si semplifica, s’accresce soltanto.