Per elfica malia: il Piccolo Popolo (non così tanto) Leggiadro

Elfi Piccolo popolo

Elves are wonderful. They provoke wonder.
Elves are marvellous. They cause marvels.
Elves are fantastic. They create fantasies
Elves are glamorous. They project glamour.
Elves are enchanting. They weave enchantment.
Elves are terrific. They beget terror.
The thing about words is that meanings can twist just like a snake,
and if you want to find snakes look for them
behind words that have changed their meaning.
No one ever said elves are nice.
Elves are bad.

Gli elfi sono meravigliosi. Incutono meraviglia.
Gli elfi sono stupefacenti. Provocano stupore.
Gli elfi sono fantastici. Creano fantasticherie.
Gli elfi sono maliardi. Emanano malia.
Gli elfi sono incantevoli. Fanno incantesimi.
Gli elfi sono pazzeschi. Inducono alla pazzia.
Il problema con le parole è che i significati si attorcigliano come serpenti;
se vuoi trovare dei serpenti cercali dietro
le parole che hanno cambiato il loro significato.
Nessuno ha mai detto che gli elfi sono buoni.
Gli elfi sono cattivi.

Terry Pratchett, Lords and ladies / Streghe da una notte di mezz’estate

Si dice che il marchio dei grandi autori sia di riuscire a racchiudere in due parole simboli e significati che ad altri richiederebbero pagine intere per essere illustrati adeguatamente. Solo questo basterebbe a tributare il titolo di grande a sir Terry Pratchett, straordinario e compianto autore britannico dalla prosa ad un tempo arguta e profonda. La sua opera più vasta e conosciuta è la serie del Mondo Disco, una pietra fondamentale per la letteratura fantastica degli anni ‘80 e ‘90, da cui proviene la citazione in esergo. In effetti, le parole di Pratchett riassumono la questione in maniera assai migliore di quanto io potrei mai fare, quindi potremmo anche congedarci qui con soddisfazione di tutti. A chi volesse proseguire va il mio avvertimento: potente è la meraviglia di Feeria, e pochi viaggiatori ne hanno fatto ritorno.

Negli ultimi duecento anni ci siamo voluti ingannare, e abbiamo dipinto gli elfi con toni rassicuranti ed aspetto grazioso. L’errore originale, come molti dei fraintendimenti in materia di fiabe e folklore, sorge nella letteratura e si consolida in epoca vittoriana: è lì che le fiabe vengono relegate alla nursery, considerate materia di esclusiva pertinenza dei bambini e destinata ai bambini, creature pure e immacolate, esattamente in virtù della propria natura pura e immacolata. Niente di più sbagliato: le fiabe non sono e non hanno mai voluto essere leziose letture a scopo di diletto ma, come ha dimostrato a suo tempo J.R.R. Tolkien nel suo fondamentale Sulle fiabe, godono dello stesso statuto di verità dei miti, e costituiscono uno dei pochi modi per rendere comprensibile ciò che sfugge alla ragione, racchiudendo in una forma rappresentabile quei concetti oscuri che abitano dentro di noi, uno specchio sulla verità dell’anima.

John Bauer, illustrazione tratta dalle Storie d'Inverno sulla capra Goat, la classica illustrazione dei libri di fiabe, con elfi minuti calzati di rosso, che vivono in armonia con le forze della Natura.
John Bauer, illustrazione tratta dalle Storie d’Inverno sulla capra Goat: la classica illustrazione dei libri di fiabe, con elfi minuti calzati di rosso, che vivono in armonia con le forze della Natura.

Quando al giorno d’oggi il pubblico sente la parola “elfi”, due sono le tipiche immagini che ha per riferimento. La prima vede la sua origine in alcune opere inglesi a cavallo tra Cinquecento e Seicento, in particolare la Nymphidia di Michael Drayton, e ottiene la sua consacrazione egemone nel XIX secolo, con la grande fioritura delle raccolte di fiabe e la loro assegnazione tanto definitiva quanto ingiusta come esclusiva dell’infanzia. Da questi poemi viene codificata la figura degli elfi come creature gracili e graziose, dal fisico minuto e dalla statura ridotta, tipicamente circondati di oggetti delicati come fiori e zampe di ragno, fili d’erba e gocce di rugiada. Gli elfi e le fate vennero spogliati del timore reverenziale che un tempo li accompagnava, e col venir meno del timore scomparve anche il rispetto: i loro nomi furono accostati a fiori e semi, gli furono conferite le ali, fino allora inedite, e all’aspetto delicato e lezioso fu giustapposto un carattere altrettanto dolce e privo di malvagità.

Il professor Tolkien conosceva benissimo quest’immagine degli elfi e della fiaba, e l’avversava con tutto il cuore. Per la sua formazione di filologo e il suo gusto letterario, ridurre gli elfi a creature gentili e carine era quasi altrettanto grave di ridurre le fiabe a semplice trastullo per gli infanti e spogliarle del loro significato simbolico e poetico. E poiché il professore era solito affermare, con il suo collega C.S. Lewis, di scrivere le storie che gli avrebbe fatto piacere leggere, non ci deve stupire che gli elfi di Tolkien si distacchino in maniera drastica dall’immaginario vittoriano. Nel suo Legendarium, gli elfi erano protagonisti di imprese straordinarie e capaci di passioni smisurate e feroci, né più né meno che gli eroi delle ballate nordiche cui si era ispirato, e nella cui mitologia gli elfi erano creature più amichevoli, ma non meno temibili di altri mostri. Ecco sorgere così la seconda raffigurazione a noi familiare: creature di statura ed aspetto umano, ma lievemente diversi, calati nel contesto di guerre eterne.

Il successo ottenuto da Il Signore degli Anelli, un romanzo talmente influente da aver sostanzialmente diviso il campo della letteratura fantastica in un prima e un dopo, non fece altro che cementare questa rinnovata immagine elfica, sia per il proprio successo sia tramite i numerosi imitatori ed epigoni che all’ombra di Tolkien hanno popolato gli scaffali delle librerie; accade così che, dopo aver scalzato dall’immaginario popolare un’iconografia, un’altra viene a prenderne il posto imponendosi quanto la precedente, e da cinquant’anni risulta arduo non concepire gli elfi come alti guerrieri dalle lunghe chiome e le orecchie a punta, maestri delle più svariate arti e depositari di antica saggezza, combattenti inflessibili e arcieri impareggiabili.

Alan Lee Gondolin
Alan Lee, E diede ordine che la sorveglianza fosse rafforzata, triplicandola in ogni luogo, illustrazione per La caduta di Gondolin di J.R.R. Tolkien, 2018. Alan Lee è uno dei più apprezzati illustratori del Legendarium tolkieniano, ed è stato conceptual artist per la premiata trasposizione cinematografica di Peter Jackson.

Tristemente, la vera anima degli elfi è assai più oscura e terribile di quanto entrambe le versioni successive abbiano lasciato intendere, e lasciarsi accecare da questo equivoco vuol dire perdere ogni speranza di scoprire la verità dietro numerose leggende, racconti e storie. Se ci accontentiamo dell’immagine familiare e rassicurante degli elfi sorridenti e delle fate radiose, come potremmo comprendere la vastità del potere e dell’ira di Oberon e Titania, l’ineluttabilità della Belle Dame sans Merci, o il vendicativo sdegno di Carabosse?

Abbiamo chiamato in causa William Shakespeare, e non possiamo certo cavarcela con una semplice menzione: sua è l’opera che ci permette di capire a fondo sia la vera natura degli elfi sia l’origine di questo mortale fraintendimento. Al lettore digiuno di folklore e allo spettatore disattento, Sogno di una notte di mezz’estate potrebbe sembrare proprio l’iniziatore di quest’iconografia degli elfi graziosi: da questo spettacolo Drayton trasse i nomi di Oberon e Titania per la sua Nymphidia, e al loro seguito attendono i cortigiani Peaseblossom “Fior-di-Pisello”, Cobweb “Ragnatela”, Moth “Falena” e Mustardseed “Grano-di Senape”. In questo tuttavia si svela una delle innumerevoli dimostrazioni della sottigliezza del Bardo di Stratford-upon-Avon , e della sua impareggiata abilità di rispettare le sue fonti pur nell’adattamento e soprattutto di costruire una pluralità di livelli nei propri drammi, perfettamente credibile e coerente pur nelle reciproche differenze.

Se andiamo appena più in là del Dramatis Personae, scopriamo che questi agresti cortigiani interagiscono soltanto col tessitore Bottom, durante la sua trasformazione in asino[1]: vale a dire, sono personaggi comici che interagiscono in una scena comica con il più iconico dei clown shakespeariani. Dal canto loro, Oberon e Titania sono più raffinati e terribili: al loro ordine si muovono venti e tempeste, il bosco obbedisce ai loro comandi, il mondo degli uomini è sconvolto dalla furia della loro lite e i quattro giovinetti che hanno tentato la fuga nel bosco cadono preda dei loro sortilegi, assolutamente inermi e addirittura inconsapevoli di ciò che accade loro. Shakespeare è maestro nel modellare livelli diversi a seconda delle trame e delle scene, e nel far parlare i suoi personaggi con il linguaggio che è proprio del loro mestiere, e non quello ricercato e uniforme che comunemente hanno le creature letterarie. È dunque appropriato che i cortigiani comici rispondano ad immagini rassicuranti e delicate, mostrando così di converso la tremenda maestà dei loro sovrani e la noncuranza con la quale potevano riscrivere a piacimento le vite dei mortali.

Elfi: John Henry Fuseli, Robin Goodfellow - Puck
Johann Heinrich Füssli, Robin Goodfellow – Puck, 1787-1790, olio su tela, Museum zu Allerheiligen, Sciaffusa. L’arte di Füssli, rinomata per le suggestioni oniriche e orrorifiche, rende alla perfezione la doppia natura del Sogno shakespeariano, cui saranno ispirati altri quadri. Qui Puck è mostrato chiaramente nel suo aspetto diabolico

Questa è difatti la natura profonda di quello che viene collettivamente indicato come il Popolo Leggiadro: una sostanziale alterità rispetto al mondo umano, che si esprime nel distacco, nella lontananza e nella superiorità. Elfi, fate e tutti i loro fratelli non sono creature di questo mondo, ma appartengono a Feeria, la terra che più di tutte ha meritato il titolo di Reame Periglioso, e si manifestano nei luoghi marginali e liminali della terra illuminata dal sole: i cerchi di pietra, i crocicchi e le radure nei boschi.

Il tempo è un concetto loro straniero, e troppi viaggiatori sono tornati dalle sale degli elfi per scoprire che cento anni erano passati in un sol giorno, per crollare in polvere dopo aver toccato nuovamente la terra dei vivi. Alcuni hanno accostato gli elfi alle anime dei morti, ma per la maggior parte delle tradizioni non è così: essi sono altro. La loro bellezza è impareggiabile e affascina chiunque la ammiri, ma spesso questa non è che una coltre della quale ammantano la loro sembianza inumana. Come il loro aspetto, così il loro cuore: le fate non comprendono la ragione degli uomini, e di essa si fanno beffe. Agli occhi dei fatati, gli uomini sono cose effimere e senza necessità di attenzione maggiore di quella da dedicare ad un insetto, e il loro interesse non va mai oltre la mera curiosità, o la gioia sfrenata di avere un giocattolo al quale infliggere ogni impulso che passi per la loro mente, senza timore di conseguenza.

Perché dunque tributare onore a creature così pericolose, chiamandoli sempre con appellativi elogiativi? Perché l’unica cosa più grande della loro ira e del temperamento vendicativo è il loro orgoglio e la considerazione di sé. “Popolo Leggiadro” è il modo in cui si cerca di tenere placide e bendisposte creature in grado di seminare sconvolgimento e rovina solo per un momentaneo divertimento, e distruttive persino nei loro rari momenti di benevolenza. Torniamo a Shakespeare e ne avremo un quadro lampante: Oberon non si fa alcun problema a rapire e circuire Bottom e a privarlo della sua umanità, solo allo scopo di sbeffeggiare la moglie con cui è adirato; fatto ciò che doveva, lo si abbandona senza alcun ripensamento. Quando poi il re degli elfi prende a cuore i tormenti di Elena che si strugge per l’amore non corrisposto di Demetrio, la sua soluzione è di forzare il giovane a innamorarsi di lei con la magia, e il suo servitore Puck non si sente assolutamente nel torto nell’aver colpito i bersagli sbagliati, perché ai suoi occhi un umano vale l’altro.

Non solo la loro giustizia è sproporzionata, ma non si adatta nemmeno al nostro metro: quando in tempi più recenti Walt Disney ha raccontato la storia de La Bella Addormentata nel Bosco, ha dato all’antagonista il nome di Malefica appunto per giustificare in qualche modo il suo spregevole agire, tanto perfido da condannare a morte una bambina solo per non essere stata invitata ad una festa. Ma la sua ispirazione, la fata Carabosse del balletto di Čajkovskij e della fiaba di Perrault, è ancor più meschina: l’affronto imperdonabile non è tanto non aver ricevuto l’invito – mai esteso, perché da cent’anni Carabosse non lasciava il suo castello, e tutti l’avevano creduta morta – ma scoprire una volta presentatasi lì che per lei non è stato preparato un piatto ed un calice d’oro come quelli riservati alle altre fate. Anche l’Incantatrice che maledice il principe ne La Bella e la Bestia, seppur non sempre indicata come tale, ha spesso alcune caratteristiche fatate: era una fata nel romanzo originale di Madame de Villeneuve del 1740, nonché la madre adottiva del principe, e la maledizione è la sua vendetta per il rifiuto che questi ha opposto alle sue profferte amorose; nelle versioni successive, codificate a partire dalla riduzione di de Beaumont del 1756 nella storia che tutti conosciamo, è una fata in tutto meno che nel nome[2], e il suo punire tutti i servitori del castello trasformandoli in oggetti senzienti, come avviene nelle versioni cinematografiche di Cocteau e Walt Disney, è una tipica manifestazione delle punizioni indiscriminate che il Piccolo Popolo ama scatenare su chi lo ha offeso o ne è prossimo.

malefica
Malefica, particolare del film La bella addormentata nel bosco di Walt Disney (1959), regia di Clyde Geronimi, Eric Larson, Wolfgang Reitherman e Les Clark, animatore responsabile Mark Davis. L’adattamento Disney enfatizza, a partire dal nome, la natura diabolica di Malefica, corredandola di un’iconografia infernale e tributandole il titolo di “Signora di ogni Male”. Questo rafforza il suo status di antagonista e rende credibile per un pubblico moderno ed ignaro la sua malvagità, allontanandola dalla perfidia amorale della sua controparte fiabesca.

Ora che abbiamo scoperto dietro quali maschere si nascondono le creature fatate e di quali travestimenti si sono ammantate negli ultimi secoli, ci resta da indagare quale ragione le abbia condotte ad occultarsi dietro le tinte sfumate e i toni soffusi dell’immaginario infantile. Essa probabilmente va ricercata nella naturale corruzione che subisce un messaggio durante una trasmissione, specialmente se questa avviene tramite mezzi volatili come i racconti. Il progressivo riraccontare delle storie procura una naturale erosione di alcuni dettagli, o il loro mutamento per venir incontro alla memoria dei narratori o ai gusti del pubblico. Nel riportare la fiaba senza mettere a parte il nuovo ascoltatore del necessario contesto – in origine perché era superfluo, e in seguito perché era stato dimenticato – i titoli rispettosi delle fate divennero progressivamente delle lodi sincere e non più il timoroso tentativo di non attirarne l’attenzione; la loro bellezza divenne indiscussa e naturale, e non più artefatta dalla loro malia soprannaturale. I dettagli più sanguinosi ed oscuri vennero progressivamente espunti nel nome dei bambini, e senza più comportamenti amorali gli elfi ed i folletti non potevano più essere ritenuti ambigui, ma dovevano corrispondere senza contraddizione al loro ritratto radioso.

La confusione più grande arrivò con il fraintendimento dello scopo delle fiabe: nel corso dell’età moderna si smise di guardare alla fiaba come una forma distillata di saggezza popolare, al folklore come enciclopedia di ammonimenti e fonte di accesso all’inconscio della comunità; quando furono i letterati e gli eruditi, formatisi di modelli classici, a guardare alle storie videro soltanto il facile gioco e il racconto disimpegnato, e così di raccolta in raccolta le fiabe furono smorzate ed addolcite, generando così quello stesso stereotipo per cui i personaggi di quelle storie non potevano certo essere cupi o maligni. Le parole arrivarono così a cambiare significato, e col passare del tempo la terra degli elfi rimase soltanto come luogo di sogno, senza che nessuno più notasse che i sogni facilmente possono tramutarsi in incubi.

 

Leggi tutti i nostri articoli sulle fiabe.


Per approfondire: 
J.R.R. Tolkien, On Fairy Stories, ed. italiana Sulle fiabe in Albero e foglia.
William Shakespeare, A Midsummer Night’s Dream, ed. italiana Sogno di una notte di mezz’estate.
John Keats, La Belle Dame sans Merci.
Lord Dunsany, The King of Elfland’s Daughter, ed. italiana La Figlia del Re degli Elfi.

In copertina: Moritz von Schwind, Erlkœnig, circa 1830, olio su tavola, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna. Il soggetto è tratto dall’omonima ballata di Goethe musicata da Schubert: l’Erlkœnig, il Re degli Elfi, è una figura presente nel folklore germanico, uno spirito maligno e vendicativo che vive nei boschi e attira alla morte i bambini.

Alessandro Sergio Martino Gentile, autore di Storie Sepolte
Alessandro Sergio Martino Gentile

Quando ero bambino, chiedevo che mi raccontassero delle storie. Mi affascinavano tutte, dai miti greci ai racconti dei cavalieri, dalle fiabe alle avventure di pirati. L'esito inevitabile era finire a studiare la Storia, con la s maiuscola, per tentare di capire da dove veniamo. Nel frattempo sono stato maestro di scuola e volontario del servizio civile, e collaboro dentro e fuori il palco del teatro con Associazione Studio Novecento. Amo il silenzio e la musica classica, la lettura e le camminate, la buona cucina di mano mia o altrui.