Moby Dick è davvero il protagonista di Moby Dick?

Moby Dick, illustrato da Tony Millionaire

Sto leggendo Moby Dick, sono a pagina 300[1], ma finora della famosa balena bianca non c’è alcuna traccia: non sembra proprio essere la protagonista, nonostante il titolo e le mie aspettative.

Sì perché Moby Dick è uno di quei fatidici “mattoni” di cui tutti parlano e quando finalmente senti che anche per te è arrivato il momento di affrontarne la lettura, arrivi talmente carica di pregiudizi (nel senso di giudizi dati in anticipo) che è difficile approcciarsi al testo e godersi il romanzo come invece possiamo fare con la narrativa contemporanea o meno conosciuta.

Mi trovavo a Genova e sbirciando in una libreria dell’usato mi sono imbattuta in una copia di Moby Dick molto semplice: pelle marrone, autore e titolo nella parte alta, in leggera sovrimpressione dorata, nient’altro, copertina vuota, spazio libero per immaginare ciò che contiene. Mi ha attirata immediatamente e, colpa forse anche dell’aria marina che stavo respirando, non solo l’ho preso, ma ho anche iniziato la lettura subito dopo, nel bel mezzo del frastuono della stazione di Piazza Principe.

Eppure Ismaele mi ha subito trascinata nel suo mondo, con la sua ironia e la sua sagacia. Ecco, primo pregiudizio da sfatare: mi aspettavo un mattone serio e pesante (ero anche reduce da Delitto e castigo quindi di umore non proprio allegro), invece mi sono persino ritrovata a sorridere, anzi a ridere proprio. Ismaele e il cannibale Queequeg che condividono amorevolmente il letto, come una coppia innamorata o due amiche che fanno un pigiama party, svegli tutta la notte a chiacchierare: questo nessuno me lo aveva mai anticipato, e invece per me è diventata una delle parti più belle del libro.

William Turner, Whalers, olio su tela, 1845, Metropolitan Museum of Art, New York.
William Turner, Whalers, olio su tela, 1845, Metropolitan Museum of Art, New York.

Per le prime cento pagine non ci siamo ancora nemmeno imbarcati, Moby Dick è lontanissima. Ecco che ci viene presentato Achab, lui sì è abbastanza come me l’aspettavo, anche se non del tutto. Ma anche lui non è affatto il protagonista, ci viene accennato qualcosa della sua storia ma poi scompare rapidamente e quasi ci si dimentica della sua presenza a bordo.

I veri protagonisti sono Ismaele e i suoi compagni, la nave, la storia della baleneria. Avete di fronte un vero e proprio trattato, interessante e coinvolgente, dove un ottocentesco Piero o Alberto Angela vi guida alla scoperta dell’affascinante mondo sottomarino: conosciamo ora tutta la famiglia dei cetacei, le balene, i capodogli, ecc… Perché sì, oltretutto Moby Dick non è nemmeno una balena (altro pregiudizio!), non come la intendiamo noi, quella con i fanoni che si nutre di plancton e krill. No, Moby Dick è un capodoglio, proprio come quell’animale terrificante che inghiotte Pinocchio nel film d’animazione Disney del 1940 (trauma infantile)[2]. Ma Ismaele ci descrive questa specie in modo così adorante, talmente pieno di ammirazione e meraviglia, che arriva addirittura a divinizzarla:

Se in futuro qualche popolo di alta e poetica cultura riuscirà a richiamare ai loro diritti di primogenitura gli antichi allegri dèi di Calendimaggio, e li rimetterà vivi in trono nel cielo ora egoistico, sul monte ormai deserto, allora state certi che il gran capodoglio, elevato all’alto seggio di Giove, farà vita da re[3].

I riferimenti colti, dotti e letterari si sprecano: Melville pesca a piene mani dalla Bibbia, dalla storia antica, dalla filosofia e dalla letteratura di tutti i tempi, è una continua citazione, tutto lo scibile umano viene collegato a qualcosa che non vi assocereste mai, un cetaceo. Si va da semplici paragoni (le balene che fuggono come le navi di Cleopatra ad Azio) a profonde riflessioni sul senso della vita, forse le vere protagoniste del libro: illuminanti le pagine in cui i concetti di “pesce libero” e “pesce legato”, le uniche regole fondamentali nella baleneria, si scoprono in realtà parte della nostra esperienza di ogni giorno.

Whalers (Boiling Blubber) Entangled in Flaw Ice, Endeavouring to Extricate Themselves, olio su tela, 1845, Tate Britain, Londra.
Whalers (Boiling Blubber) Entangled in Flaw Ice, Endeavouring to Extricate Themselves, olio su tela, 1845, Tate Britain, Londra.

Il rapporto uomo-animale è continuamente analizzato da ogni punto di vista, come ad esempio il fatto di uccidere e infliggere sofferenze per cibarsi di carne: nonstante stia scrivendo un libro sulla caccia alla balena per ottenerne principalmente olio, l’autore ci invita a considerare il fatto che un povero cannibale affamato non sia poi tanto peggio di un ricco borghese che banchetta a paté de fois gras.

Ma proseguiamo con la lettura. Pagina 350, nulla, pagina 400, ancora niente: sarà forse l’attesa di Moby Dick essa stessa Moby Dick? È protagonista non del libro ma dei nostri pensieri, anche noi siamo in continua attesa che finalmente sbuchi dal mare davanti a noi. Ismaele cerca in tutti i modi di deviare la nostra attenzione e ci riesce anche bene; se ci limitassimo a seguire la sua storia noi in verità non ci penseremmo minimante, se non fosse il titolo in copertina a ricordarcelo, e il fatto che ogni tanto spunti fuori Achab a interpellare le navi di passaggio: Avete visto la balena bianca? Risposta: no. Le conversazioni vanno sempre così, al che lui sempre più impaziente lascia perdere l’altra baleniera e prosegue fino al mar del Giappone…

Altro pregiudizio! Chissà per quale motivo, mi sono sempre immaginata la caccia a Moby Dick in mari freddi e cieli cupi, invece quando finalmente arriviamo oltre la pagina 450 (vi ricordo che il libro finisce a pagina 502) ci troviamo in un mare limpido e placido, su cui risplende il cielo più azzurro che abbiate mai visto.

Eccoci, alla fine ci siamo: inizia la caccia nelle ultime frenetiche pagine e ci domandiamo come farà l’autore a concludere la sua storia in così poco spazio, dopo aver tergiversato così a lungo. Frenetiche? In parte sì, ma al contempo anche lente e cariche di attesa, perché per la maggior parte del tempo veleggiamo seguendo solo una labile scia e anzi ad un certo punto la nave supera addirittura Moby Dick senza accorgersene.

William Turner, Whalers, olio su tela, 1845, Tate Gallery, Londra.
William Turner, Whalers, olio su tela, 1845, Tate Gallery, Londra.

Mi interrompo un attimo solo per distruggere un altro pregiudizio: parliamo dell’autore. Per quanti dettagli e riferimenti precisi e citazioni da fonti e documenti possiate trovare in queste pagine, non immaginatevi solo un Salgari chiuso in biblioteca chino su libri e trattati, ma anche un uomo con le mani sporche di grasso di balena: Melville c’è stato, in prima persona, per quasi cinque anni, su una baleniera! Aveva vent’anni, era senza un soldo e deluso dal mondo, e dopo aver tentato varie professioni si butta a capofitto in un’esperienza che sarà poi fondamentale per la sua carriera di scrittore: i primi libri infatti li scriverà al ritorno dalla lunga traversata e trattano proprio di ciò che ha visto con i suoi occhi e ascoltato con le sue orecchie nel lungo periodo trascorso in mare.

Ma non è questo il momento per approfondire la sua biografia e bibliografia. Dove eravamo rimasti? Riprendiamo il libro, siamo alle ultime pagine, tutto si chiude improvvisamente e rimane un po’ l’amaro in bocca per quella lunga caccia e quella acerrima rivalità che ci eravamo immaginati e che invece per gran parte del tempo è stata solo nella nostra testa e in quella di Achab. Moby Dick è solo un animale che giustamente cerca di non farsi uccidere. Fine. Nessuna morale, nessun commento, il libro si chiude così, lasciandoci orfani come il suo narratore.

Ma è stata davvero una grande avventura e l’umanità che mi aspettavo di trovare in un modo l’ho ricevuta in un altro, migliore e più profondo: ciò che ricorderò non è affatto una cattiveria diabolica, ma nonostante tutto, chissà perché, una insperata sensazione di armonia con il mondo.

E così, benché circondate da cerchi e cerchi di costernazioni e di terrori, queste inscrutabili creature del centro si davano liberamente e senza paura a tutte le occupazioni pacifiche, perfino godevano serenamente di amplessi e piaceri. Ma allo stesso modo, in mezzo all’Atlantico burrascoso del mio essere, io pure mi rallegro sempre nella calma silenziosa del centro; e mentre pianeti pesanti ed eterni di dolore mi ruotano attorno, giù nel profondo e nell’entroterra io continuo a bagnarmi in un’eterna soavità di gioia[4].

 

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In copertina: Illustrazione per l’edizione Penguin di Moby Dick, 2009, realizzata dall’illustratore statunitense Tony Millionaire.

Erica Rinaldi
Erica Maria Rinaldi

Classe 1993, sono cresciuta a Novara dove ho frequentato il liceo classico, poi mi sono trasferita a Pavia per studiare Lettere e mi sono laureata in Filologia Moderna con una tesi su Mario Pomilio; amo leggere (ovviamente, sennò che ci starei a fare qui), mangiare, vedere film e quando possibile spettacoli teatrali, fare sport ed essere estremamente pigra a fasi alterne. Il mio motto: Il mondo è bello perché è vario!