Lo sguardo antropologico di Michela Murgia

Michela Murgia

In questi giorni, sono rimasta come tante, tantissime altre persone spiazzata dalla dipartita di Michela Murgia. Non si è mai preparati alla morte, per quanto preannunciata possa essere. È stato scritto molto su di lei, motivo per cui avevo deciso di astenermi dall’aggiungere ulteriori parole al fiume impetuoso di articoli, ricordi e opinioni che ha inondato i media. Poco dopo ho cambiato idea. Sei anni fa, ascoltandola durante un’intervista, ero rimasta folgorata da questa donna gentile e profonda con un eloquio incantevole. L’esigenza di condividere qualcuna delle sue parole ha prevalso sul timore del conformismo.

Di tanto in tanto mi capita di benedire il giorno in cui, ispirata da mia zia, ho iniziato a tenere un diario. Ne posseggo ormai una pila ordinata. Sono tutti uguali: formato tascabile e copertina nera. I primi hanno però la copertina tappezzata di adesivi, scotch e glitter e sono scritti con penne multicolore. Gli ultimi sono minimalisti, con copertine spoglie e penna rigorosamente blu. Questi diarietti sono stati negli anni compagni inseparabili su cui annotare riflessioni adolescenziali, frasi di romanzi che non volevo dimenticare, e parole delle persone che sentivo parlare a conferenze di vario genere.

Ho ripescato allora uno dei miei quadernini. La copertina non ha adesivi: avevo appena compiuto diciannove anni. Ero certa che mi sarei imbattuta negli appunti della conferenza con Michela Murgia, organizzata dall’associazione letteraria della mia università, Bocconi d’Inchiostro. E in effetti, sfogliandolo, ho trovato una pagina che iniziava così: «Michela Murgia – ventidue novembre duemila diciassette». Ricordo nitidamente che, mentre parlava, cercavo di catturare frammenti delle sue risposte sagaci, dei suoi consigli di lettura, delle sue esperienze di vita. Vorrei condividerne alcune con voi, mettendole in relazione ad alcuni dei suoi libri, senza pretese di completezza. Catturarne la poliedricità sarebbe infatti missione ardua. Non troverete quindi nessuna recensione, quanto piuttosto un collage di frammenti senza un ordine particolare.

Michela Murgia, il mondo deve sapere

L’ironia è una sfumatura della lucidità, ma anche della rabbia.

Partiamo dalle origini. Siamo agli inizi degli anni duemila e Murgia lavora in un call center, raccontando le storture di questo sistema in un blog, i cui racconti confluiranno poi in un romanzo intitolato Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria. Per poter sopravvivere nel ruolo precario di telefonista in cui deve tentare di vendere un aspiratutto dalle mille funzioni, serve un certo distacco, che permette di avere una lucidità tale da poter raccontare la giungla del marketing con ironia e spregiudicatezza. Il mondo deve sapere è una denuncia caricaturale che permette di addentrarci nei meccanismi di un’industria votata alla persuasione e che vi consiglio se volete conoscere la voce più sarcastica dell’autrice.

Assumere uno sguardo antropologico include anche osservare il minuscolo e trarne l’assoluto.

Facciamo un salto nel tempo fino al suo ultimo romanzo, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi. Murgia ci dona uno sguardo antropologico sul mondo attraverso dodici racconti, che parlano di amori che finiscono, accettazione della malattia, bizzarre vie di fuga dalla ripetitività del quotidiano. Le distinte identità dei personaggi, i microcosmi delle loro esistenze, a tratti collidono, con dettagli dei racconti precedenti che si ritrovano nei successivi, quasi a voler sottolineare che siamo tutti in qualche modo uniti o accomunati dalla ricerca di un equilibrio. Tutti i personaggi narrati sono infatti fragili e cercano vie di fuga o soluzioni per navigare i periodi di cambiamento che devono affrontare. Ecco quindi che dal minuscolo – le storie individuali – si riesce a trarre l’assoluto, ossia la capacità umana di trovare una via di uscita.

Michela Murgia, Viaggio in sardegna

Andarsene è l’unico modo serio per restare.

Parlava tanto della sua Sardegna, Michela Murgia, spesso in relazione al delicato equilibro tra l’andare e il venire dal proprio luogo di nascita o di appartenenza. Durante la sua intervista spiegò la differenza tra identità e appartenenza. L’identità di ciascuno di noi ha bisogno di essere ibridata, sporcata, e questo spesso può accadere andandosene.

L’appartenenza invece è ciò che spinge a tornare, è «sentirsi responsabili di un destino», che sia di un luogo o delle persone amate. Il rapporto viscerale con l’isola emerge in vari romanzi, ed è anche il soggetto di un libro diverso dagli altri, Viaggio in Sardegna. Undici percorsi dell’isola che non si vede, in cui mette in relazione dieci parole a dieci mete isolane. In realtà sono dieci più una, undici, numero dispari per trasmettere l’indefinitezza delle cose che non possono essere mai del tutto comprese. La Sardegna è tradizioni e magia, e questo libro regala la possibilità di scoprirla attraverso gli occhi e la prosa poetica di Murgia.

Michela Murgia Accabadora

Insegnare che forma dare a un desiderio, lo sguardo da dare sul mondo: è una forma di onnipotenza.

Il fulcro del romanzo Accabadora, acclamato dalla critica e vincitore del premio Campiello, è il concetto di “Fillus de anima”, ovvero «bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra[1]». Avere un fill’e anima, ossia crescere un figlio salvandolo dalla miseria o da una situazione di vita sfavorevole, è un’esperienza formante e deformante, secondo Murgia, che permette di guardare le cose con occhi nuovi.

Ciascuno cresce solo se è sognato, dice ancora Murgia. È fill’e anima Maria, presa con sé da Tzia Bonaria, vecchia sarta del paese e accabadora, ultima madre che si fa carico del desiderio di morte delle persone agonizzanti, così come lo sono stati i figli d’elezione dell’autrice durante la sua vita. Murgia ci introduce così a un’usanza sarda che racchiude tutta la potenza di mettersi generosamente a disposizione nell’accogliere un’altra persona e guidarla tra le tortuose strade del mondo.

Scrivo libri con il desiderio che li legga qualcuno che non è ancora nato.

Immagino che questo sia il desiderio di ogni scrittore (o forse addirittura di ciascuno di noi): far giungere ai posteri la propria voce, non cadere nell’oblio. In questo caso però credo che questo non sia una speranza vana. L’esplosione mediatica a cui abbiamo assistito nelle scorse settimane, i ricordi commossi di chi ha conosciuto Murgia, e il dispiacere diffuso di chi ha potuto apprezzarla come scrittrice, attivista ed intellettuale, sono segni inequivocabili del solco che ha lasciato e di una ricca eredità che verrà auspicabilmente tramandata alle generazioni che verranno.

 


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Vittoria Pauri
Vittoria Pauri

Alla domanda “Qual è il tuo motto?" non avrei esitazione a citare una frase di Gandhi: il miglior modo per trovare se stessi é perdersi nel servizio degli altri. Le due cose di cui non posso fare a meno sono la curiosità di capire ciò che mi capita intorno e un quadernetto su cui scrivo tutto quello che mi passa per la testa e su cui colleziono frammenti di libri, poesie e conversazioni.