Eugène Burnand

Mario Meléndez: il rapporto tra il poeta e la poesia

Arte Poetica

Una mucca pascola nella nostra memoria
il sangue scappa dalle mammelle
il paesaggio è ucciso da uno sparo.

La mucca insiste nella sua routine
la sua coda spaventa la noia
il paesaggio risuscita al rallentatore

(…)
la nostra memoria adesso pascola
In quell’immensa solitudine.

(…)
Ora la mucca pascola nel vuoto
Le parole stanno sulla sua groppa
Il linguaggio si burla di noi.

Come si può parlare di poetica e pensare a un paesaggio di campagna dove nel bel mezzo pascola una mucca? Che nesso trova il poeta tra il linguaggio e il paesaggio giocando con le consonanti? Il linguaggio umano è ben rappresentato da un paesaggio sconfinato, ormai insudiciato e svuotato della sua bellezza, dove la poesia, come una mucca, continua a ruminare tranquilla, nonostante l’erba si sia tramutata in aria.

«Il linguaggio si burla di noi», dove quel “noi“ racchiude i poeti e le loro parole messe a dura prova. Centinaia di versi hanno già detto tutto e alla mucca poetica resta solo di pascolare nel vuoto.

L’arte delle parole, però, non si esaurisce nel conosciuto e nel già detto e come recita Mario Meléndez, poeta cileno nato a Linares nel 1971, nei bellissimi versi de La portatrice: «Essa portò a passeggio le parole», dove essa è la Morte del libero pensiero che si burla delle parole e della poesia per ridurle al nulla, al silenzio.

Prigione Mario Melendez
Prigione Mario Melendez

Emerge di continuo, nelle liriche di Meléndez, lo spettro della dittatura cilena di Pinochet, che ha segnato la sua infanzia. E in esse, un tema così spinoso come la morte, diventa quasi motivo di burla.

E venne la morte allora
coi suoi migliori indumenti
(…)
e gli tese le braccia
per fargli le condoglianze.

Perché dove finisce la libertà di pensiero, il poeta muore.

Pur trattando il serissimo tema dello svilimento della poesia e del poeta nel mondo contemporaneo, Meléndez gioca sul doppio senso. Nella poesia Precauzioni dell’ultima ora c’è una simpaticissima presa in giro di tutto quel baraccone di falsità che è il genere umano; l’incipit della lirica non avrà quasi bisogno di commenti:

Dovrò stare attento ai vermi
Quando mi seppelliranno
La cosa più sicura
È che parlino male di me
Che sputino sulle mie poesie (…)

Soggetto è sempre il poeta, personaggio scomodo, verso il quale i “vermi“ tramano alle spalle per rosicchiargli anche gli ultimi brandelli di ossa.

Mario Melendez Foglie

Vi segnalo un’altra poesia, forse un po’ blasfema fin dal titolo, perché s’ispira al Vangelo e s’intitola L’ultima cena.

E il verme mi morse il capo
E rendendo grazie
Lo spartì tra i suoi dicendo
“Fratelli
Questo è il corpo di un poeta
Prendete e mangiatene tutti
Ma fatelo con rispetto.”
[…]

Qui il poeta è dato in pasto ai vermi, che lo dilaniano senza violenza. Bevono il suo sangue, perché le religioni con i loro dogmi succhiano linfa vitale al poeta:

(…)
Questo è il sangue d’un poeta
(…)
Per il godimento delle vostre anime (…)

La scritta sulla lapide dell’immaginaria tomba è una denuncia della solitudine e delle prevaricazioni che subisce un pensatore/poeta; ma il garbo e l’ironia attutiscono la drammaticità:

Qui giace Mario Meléndez
Un poeta
Le parole non vennero a salutarlo
da adesso noi vermi parleremo per lui.

Migranti in grecia (credits: The New York Times)
Migranti in grecia (credits: The New York Times)

Nella poesia Sangue nell’esilio il simbolo dell’Uomo libero è l’Uccello migratore. Come gli uccelli che volano verso le mete calde, così gli uomini fuggono dall’orrore della violenza.

Quando arrivò l’inverno in Cile
migliaia di uccelli volaro

no con la prima pioggia.
Erano impauriti tra l’ombra e la morte
E preferirono emigrare con le loro vite verso altre vite
(…)

Chi non vede i migranti sui barconi della morte che popolano il Mar Mediterraneo di questi tempi? Chi si può ritenere al sicuro dalla violenza? E perché l’uomo, animale inquieto e controverso, non trova pace se non nella sopraffazione? Inutile costruire ideologie e religioni per elevarlo dal suo stato animale, perché le stesse perle di saggezza in mani umane diventano strumenti di tortura e simboli di morte e distruzione.

L’uomo è un verme, un pidocchio, un uccello migratore nel migliore dei casi, ma non è Dio, al quale superbamente crede di assomigliare. Il poeta canta il suo tempo e quello che fu e che verrà. Il poeta canta l’uomo nell’uomo che è.

Chiudo questa piccola conversazione su Mario Meléndez con l’incipit di un’altra poesia superba dal titolo Confessioni:

Non sto, non sono, non appartengo
vago da una parte all’altra come un grande verme nero.
Il mio cuore ha i suoi pidocchi
la mia storia è un collage di cani vecchi
che non abbaiano per paura di scomparire.

La mia infanzia m’insegue con un coltello
m’insegue con un bastone senza colpirmi
m’insegue con ritratti e fiori
che si appiccicano alla mia ombra soffocandola.

 


Mario Meléndez, che ha studiato Giornalismo e Comunicazione sociale, attualmente vive in Italia, nelle Marche a Pesaro. In rete è possibile trovare diversi siti che riportano nutrite sillogi di poesie.

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