Autore: Salvatore Ciaccio

  • Rais di Simone Perotti: un romanzo di romanzi possibili

    Rais di Simone Perotti: un romanzo di romanzi possibili

    «Qual è il contrario della solitudine, Kadir?»
    «Il mare, Rais»

    Sono nato e cresciuto in una città di mare. Davanti ai miei occhi, per molti anni e adesso, quando ritorno occasionalmente in Sicilia, si apre il Mediterraneo in tutti i suoi azzurri e verdi che si confondono con l’orizzonte lontano. Forse è per questo che la lettura di Rais di Simone Perotti mi ha particolarmente affascinato, perché è un racconto sul Mediterraneo e sulle persone che lo hanno attraversato.

    Il romanzo narra le vicende di Dragut Rais, ancora oggi salutato come “la spada vendicatrice dell’Islam”, considerato uno dei maggiori pirati ottomani mai esistiti. Simone Perotti inserisce la sua storia, sconosciuta ai più, nella cornice più ampia della prima metà del Cinquecento, secolo in cui il Mediterraneo perde la sua centralità come fulcro degli scambi politici e commerciali a favore di nuove rotte come quelle americane.

    L’autore riesce così a delineare il fermento di un’epoca e gli enormi cambiamenti a cui dovettero abituarsi gli uomini di quei decenni, consegnando al lettore il ritratto di figure storiche – come quella di Andrea Doria – con grande naturalezza. Il suo è un lavoro frutto di ricerche che lo hanno condotto in tutto il mediterraneo per un lasso di tempo di circa nove anni.

    Dragut rais
    Dragut Rais

    In particolare ricostruisce la storia del Kitab-i-bahriye, ovvero il Libro del mare vergato da Piri Rais nel 1513 per conto di Selim I, sultano dell’impero ottomano. Quest’opera aveva lo scopo di ridimensionare l’importanza della scoperta di Cristoforo Colombo e di riaffermare l’egemonia ottomana che era stata rimessa in discussione dall’apertura delle rotte atlantiche.

    Tra le pagine del romanzo emergono i ritratti di personaggi complessi, molto distanti tra loro. Di Dragut Rais è ricostruita la tumultuosa vicenda biografica fin da quando è bambino. Nell’apertura del romanzo lo vediamo correre sulle alture verso il villaggio in cui è nato, ne seguiamo i pensieri fino a quando non viene rapito dagli ottomani e da lì inizierà la sua storia. Ai ricordi di quei primi giorni si intreccia poi, nel corso del romanzo, la voce disincantata del vecchio Dragut che racconta la propria storia al suo servo Kadir. Il racconto così da romanzo di formazione si trasforma in una serie di riflessioni, di massime che ricordano la scrittura di Marguerite Yourcenar.

    Ma il personaggio che forse si staglia di più su tutti gli altri è Bora, l’unica presenza femminile della vicenda. Schiava di origini balcaniche, bella, di quella bellezza che richiama i canoni estetici propri dell’epica classica, vive confinata per tutto l’arco della sua esistenza su un’isola, dove ad un certo punto incontra Dragut Rais. La sua storia ricorda molto da vicino Didone, la regina di Cartagine che venne amata e poi abbandonata da Enea.

    Bora, però, a differenza della figura virgiliana, non si abbandona a nessun atto tragico, ma attraversa un’epoca e la osserva, da lontano. L’autore, come ha dichiarato sia in alcune interviste che in occasione delle presentazioni del romanzo, ha sentito la sua figura come la più vicina, prossima, alla quale ha sacrificato diverse pagine che inizialmente voleva dedicare agli altri protagonisti dell’epopea mediterranea.

    Rais di Simone Perotti

    Quello di Simone Perotti, come lui stesso lo ha definito, è “un romanzo di romanzi possibili”, un romanzo-mondo in cui non solo si delinea un’epoca storica ma un intero universo, un modo di esserci e di esistere dei personaggi. È un romanzo di avventura che però non si limita al gusto dell’avventura per l’avventura. Il centro del romanzo infatti è la libertà. Rais è un pirata ma anche un uomo libero, Bora è costretta in un’isola, è privata della libertà, ma allo stesso tempo la sua curiosità le dà una libertà anche maggiore.

    Nonostante sia stato pubblicato ormai diversi anni fa, Rais mantiene intatta la sua forza espressiva e ci sembra importante recuperarlo anche alla luce di romanzi molto recenti come Ferrovie del Messico, per esempio, che mostrano sia un’enorme varietà stilistica sia un’enorme capacità di delineare mondi e universi.

    Forse è per questo che dopo anni ho deciso di rileggere il romanzo di Perotti, per immergermi di nuovo in un mondo fatto di isole, di barche e pirati, per sentire di nuovo, anche a chilometri di distanza, il rumore del mare.

     

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    Simone Perotti è nato a Frascati nel 1965. Autore di numerosi saggi (Adesso basta – Lasciare il lavoro e cambiare vita, Chiarelettere 2009) e romanzi (Uomini senza vento, Garzanti Libri 2010) è inoltre l’ideatore e il co-fondatore di Progetto Mediterranea, spedizione nautica, culturale e scientifica con cui sta viaggiando in tutto il Mediterraneo.

     

  • Le menzogne della notte: Bufalino e il sogno della memoria

    Le menzogne della notte: Bufalino e il sogno della memoria

    «A pancia vuota non sarà un bel morire» si lamentò.
    «Così di buon mattino, poi! Quando la luce ci appassiona di più…»[tooltip tip=”Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte, Bompiani, 1988, p. 7″][1][/tooltip]

    Un piccolo gruppo di uomini si racconta delle storie stretto attorno a un fuoco. Al di là del cerchio di luce la notte è fredda, spaventosa, e loro si fanno coraggio parlando del passato, dei loro sogni.

    Raccontare storie è ciò che fanno i personaggi delle Menzogne della notte di Gesualdo Bufalino, uno dei maggiori autori siciliani del Novecento, ma non lo fanno attorno ad un fuoco, bensì all’interno di una cella. Alla luce di una lampada, con nelle orecchie il lontano rumore delle onde che s’infrangono sulla costa, i cinque condannati a morte protagonisti del racconto iniziano a parlare dei momenti felici della loro vita, ricordano il passato lontano, arricchendolo con dettagli fantasiosi, confondendo gli altri ascoltatori. Tutti sono intrappolati nella stessa rete, ma nessuno sembra conoscere realmente l’altro. È come se si fossero incontrati quella notte per la prima volta. Nessuno di loro vuole ammettere di essere stato un uomo crudele o codardo, e al contempo vuole incantare il proprio uditorio, persuaderlo che quanto sta raccontando sia la verità.

    Per Gesualdo Bufalino l’atto dello scrivere, e del raccontare, passa attraverso la memoria: anche Diceria dell’untore, la sua opera più celebre, è incentrato sul ricordo. Per Bufalino ricordare significa sottrarsi alla morte, sottrarre delle parti della propria vita all’oblio e consegnarle a un racconto che le possa eternare e cristallizzare e quindi renderle migliori rispetto a come sono state davvero. I personaggi di Bufalino quando raccontano mentono e non possono sottrarsi alla menzogna perché farlo significherebbe accettare la morte.

    La morte infatti si lega in modo duplice al raccontare: da un lato quest’atto permette di sottrarre all’oblio i ricordi, ma dall’altro chi racconta, chi ha più ricordi da raccontare è più vecchio e quindi più vicino alla morte stessa.

    Emil Nolde
    Emil Nolde, Nuvole rosse, acquerello su carta, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid.

    I personaggi di Bufalino quindi raccontano prelevando dalla loro memoria, reinventandola e così facendo trasformano le loro storie in fiabe inquiete. Come in un piccolo Decameron i personaggi sono costretti in una situazione da loro non voluta, ma provano piacere nel raccontare la storia della loro vita. Lo fanno giocando, seminando menzogne che alterano la realtà, la trasformano in un sogno ad occhi aperti, il sogno della memoria, cioè fantamemoria.

    Questo è il nome con cui più volte Bufalino definisce questo modo di raccontare che non è solo quello dei suoi personaggi, ma anche il suo. Nella sua opera più conosciuta, Diceria dell’untore la fantamemoria è già presente. In quell’occasione infatti lo scrittore siciliano parte da una sua esperienza per scrivere un racconto in cui sogno e morte si sovrappongono che resta sempre profondamente personale. Con Le Menzogne della notte, invece, il racconto non è più autobiografico, ma diviene pura invenzione romanzesca e la fantamemoria non è più un mezzo usato dall’autore, bensì dai personaggi.

    La fantamemoria nasce da un gusto per il racconto che ritroviamo anche altrove nella letteratura e nell’arte e anche in luoghi tanto distanti dalla letteratura di Bufalino, come in Tim Burton. La poetica di un film come Big Fish può raccontare molto da vicino la fantamemoria perché il protagonista del film ama ricordare mischiando realtà e fantasia al punto che noi e nemmeno lui sanno più distinguere tra realtà e fantasia. Lo vediamo attraversare boschi, parlare con giganti e con bellissime dame, lo vediamo costruire la sua storia come una bellissima fiaba e forse non è nemmeno così determinante sapere se ciò che ci racconta è vero oppure no.

    In Tim Burton c’è la menzogna, la diceria, questa memoria che è fantastica ma anche fantasmatica perché non riusciamo mai ad afferrarla compiutamente. Se, probabilmente, Bufalino aveva in mente il Decameron come modello di affabulazione, Burton presenta tutt’altro orizzonte culturale: Big fish ha come modello le Tall Tales, che sono un elemento fondamentale del folk americano

    Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte, copertina

    Alcuni esempi di Tall Tales sono i racconti dei pescatori (il titolo di Big Fish fa prorpio riferimento a questo) o le storie di pernsaggi avventurosi, come Davy Crockett o di Calamity Jane. Le loro vite, legate all’epopea del Far West, si prestano infatti al fiorire di storie e leggende, al punto da diventare patrimonio della cultura popolare. Le storie su di loro sono tante e tali, infatti, che diventa difficile distinguere il vero dal falso.

    Il punto di vista di Tim Burton è, in questo, del tutto sereno: per lui la Tall Tale, l’invenzione, non toglie verità , ma al contrario ne è un moltiplicatore, in quanto ne accresce il fascino. La verità dei fatti non è, per Burton, il criterio con cui valutare il mondo, ma al contrario il modo con cui valutare il mondo è la sua capacità di affascinarci.

    Per Bufalino noi possiamo giocare con l’immaginazione, con la fantasia e con la capacità di affabulare, ma la verità delle cose è sempre lì, anche se noi facciamo finta di non vederla, e a dimostrarlo è la morte stessa. Nel momento in cui giunge la morte i giochi sono chiusi, il futuro che sognavi non è mai arrivato, e non puoi più cambiare la tua vita. Puoi al massimo venderla bene agli altri, ma non a te stesso.

    I personaggi di Bufalino sono dei congiurati che hanno tentato di cambiare la realtà, ma sono stati sconfitti. è la vita stessa ad averli sconfitti: sono state sconfitte le loro speranze, sono state sconfitte le loro idee, e adesso, durante la loro ultima notte, l’unico modo per vendicarsi è ingannare a loro volta la vita.

    Le Menzogne della notte è un libro sul raccontare, sul raccontarsi e sull’affabulazione ma, come scriveva Ella Imbalzano «L’obiettivo non è la pura stupefazione, ma l’adeguamento della scrittura a quel labile velo che congiunge e confonde “verità” e “menzogna”»[tooltip tip=”Ella Imbalzano, Di cenere e d’oro. Gesualdo Bufalino, Milano Bompiani, 2008″][2][/tooltip].  Questo strano limitare è il centro dell’opera: il vero e il falso, l’illusione, il sotterfugio. È l’inganno di queste storie venate di giallo, di noir iperreale: un inganno che i personaggi si fanno a vicenda, che fanno a se stessi, e l’inganno che l’autore ha preparato per noi, consegnandoci questo libro.

     


    Leggi anche: Diceria dell’untore: Bufalino e il dolore di sopravvivere

  • Giorgio De Chirico e l’enigma dell’arte metafisica

    Giorgio De Chirico e l’enigma dell’arte metafisica

    Durante un chiaro pomeriggio d’autunno ero seduto su una panca in mezzo a Piazza Santa Croce a Firenze. Non era certo la prima volta che vedevo questa piazza. Ero appena uscito da una lunga e dolorosa malattia intestinale e mi trovavo in uno stato di sensibilità quasi morbosa.

    È il 1910 e i fratelli Giorgio de Chirico e Alberto Savinio si sono trasferiti a Firenze solo da pochi mesi; sino all’anno precedente avevano studiato a Monaco di Baviera, ma a causa di alcuni problemi di salute di Giorgio erano partiti in cerca di una città dal clima più caldo e che fosse altrettanto appetibile sotto il profilo culturale.

    I primi mesi fiorentini dei fratelli de Chirico sono un dedalo intricatissimo di letture di diverso genere: entrambi leggono molto di storia greca, di mitologia e spiritualismo. Quel tipo di studio porterà Savinio ad avvicinarsi a Bontempelli, uno dei maggiori esponenti del realismo magico in Italia, e a coltivare una narrativa di tipo fantastico; in Giorgio questo studio, invece, inizia a prendere una via leggermente diversa e particolare.

    Il grande studio di quei mesi infatti lo guida verso una nuova lettura della realtà in cui il quotidiano e il mistico si sovrappongono: nelle cose di tutti i giorni, in ciò che vediamo abitualmente, c’è per De Chirico un nucleo nascosto, arcano, qualcosa che ci sfugge, e che affiora in momenti particolari, epifanici. Il pittore descrive questa sensazione in uno scritto del 1912:

    La natura intera, fino al marmo degli edifici e delle fontane, mi sembrava convalescente. In mezzo alla piazza si leva una statua che rappresenta Dante avvolto in un lungo mantello, che stringe la sua opera contro il suo corpo e inclina verso terra la testa pensosa coronata d’alloro. La statua è in marmo bianco, ma il tempo gli ha dato una tinta grigia, molto piacevole a vedersi. Il sole autunnale, tiepido e senza amore illuminava la statua e la facciata del tempio.

    Giorgio de Chirico, Enigma di una giornata (1914; olio su tela; San Paolo, Museu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo)
    Giorgio de Chirico, Enigma di una giornata, 1914, olio su tela, San Paolo, Museu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo.

    In queste righe il pittore ricorda la prima volta in cui ha provato quest’esperienza straniante. La sua condizione di malato gli provoca una “sensibilità quasi morbosa” che trasferisce in ciò che lo circonda. La realtà gli appare malata, consunta perché è una realtà vecchia, che non riesce a incarnare lo spirito della classicità. La statua di marmo bianco attrae ancora con il suo fascino decadente, ma non è più un simbolo. È una cosa tra le cose, è qualcosa di sperduto e abbandonato. Quello che è il passato, l’antichità, l’ingegno umano diventa semplicemente parte di una natura senza volto.

    C’è, in De Chirico, la stessa stanchezza che percepiamo, per esempio, leggendo un romanzo come Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, in cui il protagonista, convalescente in sanatorio, vede la sua condizione rispecchiarsi nella malattia del mondo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ciò che vive è molto simile: la società dei primi anni del Novecento è sì un mondo tumultuoso, in fermento, ma è anche una realtà esausta, convinta di aver visto tutto. Come Bufalino anche De Chirico è consapevole di vivere in un momento di esaurimento storico, in cui un’intera epoca si sta concludendo.

    In quella piazza il pittore vede le cose sotto uno sguardo nuovo ed è questo sguardo che rende così particolari e così influenti le sue opere. La prima che dipinge, frutto di quell’esperienza, è Enigma di un pomeriggio d’autunno.

    Già qui possiamo vedere tutti gli elementi caratteristici dell’arte metafisica, solo ancora un po’ acerbi: su uno sfondo azzurro emergono un tempio, una statua e la colonna di un edificio che vediamo solo in parte; tutti questi elementi sono legati da un muro che limita l’orizzonte. Al di là di quest’ultimo si intuisce quella che potrebbe essere la vela di una barca, anche se non ne siamo totalmente sicuri. Nel vuoto della piazza stanno due piccole figure che sembrano delle maschere della commedia dell’arte, oppure delle statue lignee o ancora semplicemente due persone che parlano.

    L’apparente realismo della composizione ci illude di poter capire l’opera al primo sguardo: in fondo siamo in una piazza; ma poi, man mano che notiamo i dettagli, ci rendiamo conto di quanto il significato delle diverse figure non sia così immediato. Anche solo capire ciò che stiamo guardando è tutt’altro che semplice.

    Giorgio De Chirico, Enigma di un pomeriggio d'autunno, 1910, olio su tela.
    Giorgio De Chirico, Enigma di un pomeriggio d’autunno, 1910, olio su tela.

    Questa ambiguità è l’enigma del titolo dell’opera e l’enigma di quel senso di straniamento a cui si aggiunge quella sensazione così forte di mistero che permea tutta la metafisica di De Chirico.

    Lui stesso diceva che da quel momento gli sembrava di vedere le cose per la prima volta. E vedendole per la prima volta gli sembrano belle, affascinanti ma anche inquietanti, non più familiari. Il tedesco ha una parola molto particolare per descrivere ciò che prova De Chirico: unheimlich, che vuol dire proprio “non-familiare”, un termine ripreso da Freud nel suo saggio Sul perturbante.

    Ognuno di noi compiendo gli stessi gesti ogni giorno, attraversando gli stessi spazi sviluppa delle abitudini che hanno la funzione di rassicurarci e quindi ci permettono di regolare la nostra vita. Ciò è vero sia per i gesti più banali, più semplici ma è vero anche per le nostre convinzioni, per le nostre relazioni sociali sino addirittura alle leggi fisiche della realtà. Le società, le comunità, le religioni si basano su abitudini condivise. Tutto questo è heimlich, familiare.

    Ma la realtà non è sempre familiare. C’è il pericolo, l’inaspettato, ed è qui che nasce l’opposto dell’heimlich, cioè l’un-heimlich, il non-familiare: il dubbio che le leggi e le abitudini che ci siamo dati non funzionino più. Questa è per Freud la radice del perturbante: l’idea, per esempio, di svegliarci e di non riconoscerci più allo specchio o l’idea che il sole che non sorga più o di non riconoscere più gli spazi dove viviamo. Tutto questo è perturbante perché mina nel profondo le nostre convinzioni di identità, l’idea che il mondo continui a rimanere lo stesso nonostante i cambiamenti e il tempo che scorre.

    Negli stessi anni, e negli anni immediatamente successivi, Montale condivide la stessa inquietudine. L’atmosfera degli Ossi di seppia è assolata ed estatica, un’atmosfera che ricorda molto da vicino le opere di De Chirico. La realtà è rappresentata come immobile e in attesa al punto da diventare impalpabile: nel sole di mezzogiorno le figure diventano fantasmatiche, irreali e il poeta le guarda con una meraviglia triste e disincantata. In particolare Montale teme che la realtà abbia un momento di rottura, un momento in cui le leggi della fisica vengono meno e lasciano intuire la loro falsità:

    Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
    arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
    il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
    di me, con un terrore di ubriaco.

    Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
    alberi case colli per l’inganno consueto.
    Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
    tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto[tooltip tip=”Eugenio Montale, Ossi di seppia, 2023 Mondadori, pag. 96.”][1][/tooltip].

    Giorgio de Chirico, Ettore e Andromaca 1917
    Giorgio de Chirico, Ettore e Andromaca, 1917, olio su tela.

    Sia Montale che De Chirico intuiscono la possibilità che il mondo sia falso, hanno la sensazione che da un momento all’altro questo possa scomparire per qualche secondo, un battito di ciglia, e poi ricomparire. In entrambi questa sensazione però non è spiacevole. Se in Freud il non-familiare genera il perturbante, quindi un senso di spaesamento e paura, nei due artisti invece c’è un sentimento malinconico, e in De Chirico una vera fascinazione per questa realtà più vera della realtà in cui viviamo.

    Negli anni successivi il nostro pittore sviluppò l’arte metafisica abbandonando sempre di più il dato realistico. I quadri di quegli anni si aprono su enormi piazze deserte delimitate nella maggior parte dei casi da un muro o da un elemento che ostruisce il nostro sguardo; gli edifici che si affacciano sulle piazze sono classicheggianti ma mai realistici, un po’ come le figure – o parti di figure, di statue – che fanno capolino in molte tele.

    Statue, ombre e manichini divengono col tempo sempre più vuote e irreali proprio perché rappresentano quella realtà inaccessibile all’uomo. Man mano che De Chirico va avanti con la sua arte, sempre più si avvicina al mondo delle idee di Platone: più che rappresentare la realtà, De Chirico cerca sempre di più di rappresentare ciò che vi sta dietro, e si fa aiutare da statue antiche, dai ritratti dei poeti. L’arte del passato diventa l’eco di un altro mondo, che viene rappresentato con tinte penetranti, luci stravolte, prospettive impossibili.

    L’arte metafisica colpì molto profondamente alcuni artisti suoi contemporanei per la forza onirica e allucinatoria nei suoi quadri. Soprattutto i surrealisti, in particolare Ernst, Tanguy e Magritte. Tanguy decide di dedicarsi alla pittura proprio perché vede un quadro di De Chirico in una galleria, e l’influenza è molto evidente nelle sue opere, che riprendono elementi come i manichini, ambienti allucinati e ombre molto insistenti.

    La ripresa di De Chirico però non coglie l’essenza dell’arte metafisica: laddove questi ritiene di rappresentare la realtà vera, quella che si nasconde dietro al velo di Maya, i surrealisti invece cercano di rappresentare il sogno, l’irrazionale. Queste due visioni dell’arte differenti, pur parlando un linguaggio in apparenza simile, non potevano che divergere. Riprendendolo, i Surrealisti di fatto lo tradirono e, d’altro canto, proprio De Chirico fu accusato di tradimento quando abbandonò l’arte metafisica.

    Giorgio De Chirico, Tulipani, seconda metà anni '40, olio su tela
    Giorgio De Chirico, Tulipani, seconda metà anni ’40, olio su tela

    L’arte del nostro poeta ha attraversato infatti diverse fasi, ma sono stati due i momenti cruciali: il primo negli anni Venti, quando progressivamente ritornò al realismo e poi negli anni Quaranta, quando il suo realismo si fece molto più compiuto ed evidente.

    Ancora negli anni Trenta attuò una commistione tra elementi realistici ed elementi della sua arte precedente, mentre invece a partire dagli anni Quaranta questi elementi si fecero sempre più rari. Con tutta probabilità aveva giocato un ruolo determinante l’avvicinamento ad un gruppo di pittori che si definiva movimento dei Pittori Moderni della Realtà di cui facevano parte Pietro Annigoni, i fratelli Antonio e Xavier Bueno, Giorgio Scilitan e diversi altri, e che predicavano un ritorno alla pittura rinascimentale e criticavano duramente l’astrattismo.

    Non è semplice né immediato capire le ragioni di queste trasformazioni dello stile di De Chirico al punto che non solo i Surrealisti ma molti critici e molti pittori della sua epoca criticarono duramente questo suo ritorno a un’arte di tipo accademico pensando che non volesse più sperimentare e che si fosse chiuso in una sorta di sogno reazionario. Dal suo punto di vista, però, non ci fu né un tradimento né un abbandono dell’arte metafisica.

    Come ebbe a dire in alcuni articoli, il pittore infatti si era reso conto che tutta l’arte in realtà è metafisica; che un Caravaggio, un Leonardo, un Tiziano non sono meno metafisici perché dipingono la realtà in modo più realistico: al contrario, è l’afflato, l’intento del pittore a rendere metafisiche le proprie opere. Dunque l’arte non deve far altro che continuare la sua opera nei modi che le sono più tradizionali; inoltre, De Chirico polemizza anche con l’arte moderna e la critica dell’arte moderna che ritengono la tecnica pittorica qualcosa di secondario e di non immediatamente utile per un artista. Ritornare all’accademia significa quindi far valere le ragioni della complessità tecnica dell’arte.

    Nonostante l’allontanamento dallo stile delle sue prime opere, quella visione che aveva vissuto da giovane in piazza a Santa Croce continuò a sedurlo per tutta la vita. Passata la parentesi dell’arte più compiutamente realista, non resistette più alla tentazione di dipingere quel mondo che gli era apparso da giovane e senza provare più a nasconderlo nelle pieghe del realismo. Il tentativo di fermare sulla tela quel momento di rottura delle leggi conosciute, della realtà familiare è ciò che caratterizza tutta la sua opera, il suo nomadismo, il continuo tornare sugli stessi temi. E forse è questo il vero enigma della sua arte.

     


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  • Tucidide e Lucrezio: la peste nell’antichità

    Tucidide e Lucrezio: la peste nell’antichità

    La morte e la malattia nella cultura contemporanea, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale, sono state relegate ai margini della nostra vita. Per quanto ovviamente continuino a far parte del nostro quotidiano, la spinta verso un mondo eternamente giovane è fortissima: lo vediamo nell’industria antiage, lo vediamo nelle pratiche di bio-hacking, e lo vediamo in quello che è a tutti gli effetti un vero e proprio culto del corpo. 

    Anche se il fashion e la moda hanno da un po’ di tempo reagito alla mentalità omologante che imperava nei decenni precedenti proponendo canoni e corpi “non-conformi”, ancora nel pensiero comune, nella pubblicità mainstream e in generale nella società vediamo spesso una non accettazione della malattia come fatto ineliminabile dalla vita, e ancora parlare, per esempio, di tumore in pubblico viene considerato un “fatto coraggioso”, perché nella maggior parte del tempo pensiamo la vita come un eterno presente in cui ognuno deve aspirare, come una sorta di dovere sociale, alla bellezza e alla salute. 

    La pandemia di Covid-19 ha incrinato, per un momento, questa illusione: anche se oggi siamo tornati a vivere le nostre normali esistenze, in quel momento è diventato chiaro, lampante, che come specie non possiamo controllare tutto. Esiste qualcosa che non riusciamo ancora a definire, a ingabbiare, e questo qualcosa bussa alla porta, e probabilmente diventerà sempre più pressante: come sappiamo, infatti, la scorsa pandemia potrebbe non essere l’ultima, e anzi, maggiore è la distruzione degli habitat ambientali, maggiore è il rischio di nuove epidemie. Non solo: è recente la notizia della prima comunità costretta a spostarsi a causa dell’innalzamento del livello del mare

    Abbiamo visto, in un altro articolo, come nel medioevo la risposta alle catastrofi fosse sostanzialmente di tipo religioso: l’idea di una punizione divina era funzionale alla regolazione della società e a un’epoca fortemente instabile. Ma forse è ancora più interessante, per noi contemporanei, vedere come si affrontavano questi fenomeni in un contesto maggiormente laico, spostandoci nell’antichità.

    La tragedia, in questo caso, fu la peste di Atene, che ha coinvolto l’Attica durante la guerra del Peloponneso, e che ci viene raccontata da due autori, Lucrezio e Tucidide, con metodi e finalità differenti. Partiamo da Tucidide, che è stato testimone degli eventi e che sarà modello e fonte non solo di Lucrezio, ma di tutti gli autori che d’ora in poi parleranno di peste.

    Evelyn de Morgan, L'angelo della morte,1881
    Evelyn de Morgan, L’angelo della morte,1881

    Ciò che differenzia Tucidide dai suoi predecessori, primo fra tutti l’illustre Erodoto, è il tentativo di porre le basi per quella che oggi chiameremmo una storiografia “scientifica”. Ciò non vuol dire che i suoi racconti siano sempre attendibili, ma la sua opera è molto più sorvegliata in questo senso, a partire dalla scelta dell’argomento: mentre Erodoto raccoglie storie ed eventi da quasi tutto il mondo allora conosciuto, e spaziando tra le epoche, in modo da creare una sorta di storia universale, Tucidide sceglie di concentrarsi sulla guerra del Peloponneso, un fatto contemporaneo, sulla cui veridicità può avere maggiore controllo.  

    Anche stilisticamente, Tucidide è ben diverso dall’altro grande storico di Atene: Erodoto aveva uno stile prettamente affabulatorio, volto a stupire e affascinare il suo uditorio, anche perché declamava in pubblico le sue opere; Tucidide invece è asciutto, preciso, e questo lo pone agli antipodi rispetto a un Erodoto, il cui “bello stile” è inscindibile da ciò che ci racconta, al punto che alcuni delle sue storie non sono affatto credibili, e valgono al più come esempi, o come simboli. In Tucidide, invece, l’avvenimento non è mai analizzato alla luce di un’idea metafisica, né è usato come esempio edificante, o con intenti manifestamente didattici o edificanti. 

    Io dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che uno potrà considerare e tenere presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati[tooltip tip=”Tucidide, Storie, traduzione a cura di Franco Ferrari, 1985, Rizzoli, p. 341. “][1][/tooltip].

    Non solo: Tucidide interpreta anche i fatti alla luce di una nuova razionalità (quella della sofistica, del rinnovamento ateniese del V secolo, ma di cui parleremo un’altra volta), mettendo in questione le opinioni e le credenze dei suoi contemporanei. Uno dei passi più esemplari è quello che segue:

    E, come era naturale, in quella sventura si ricordarono anche di questo verso, che, secondo le parole dei più vecchi, era stato cantato una volta: «verrà la guerra dei Dori e la pestilenza con lei».  In quell’occasione la gente era in preda alla discordia, perché si sosteneva che in quel verso non era stato detto dagli antichi «pestilenza», ma «fame»; pure, data la sventura in cui si trovavano, ovviamente vinse l’opinione di quelli che pensavano che era stato detto «pestilenza». Giacché gli uomini adattavano i ricordi ai mali sofferti[tooltip tip=”Tucidide, Storie, traduzione a cura di Franco Ferrari, 1985, Rizzoli, pp. 349, 351.”][2][/tooltip].

    Michiel Sweerts, La peste in una città antica, 1652
    Michiel Sweerts, La peste in una città antica, 1652

    Qui vediamo come la tradizionale idea che i mali e le calamità arrivino per punizione divina o per una profezia, venga messa in discussione e demistificata. Tra “pestilenza” e “fame” la gente, il popolo, è più propenso a scegliere la seconda interpretazione, perché adattavano la frase alla situazione che stavano vivendo. Il passato viene cambiato in funzione del presente. La profezia, infatti, ha la funzione di spiegare l’inspiegabile, e crederci diventa dunque un atto consolatorio: ci conforta nella credenza di un ordine superiore, con cui quindi possiamo misurarci, e che possiamo in qualche modo controllare. Ma in realtà la profezia nasce a posteriori, e diventa chiara solo col senno del poi.

    Tucidide, invece, accetta che l’uomo non possa controllare in toto la realtà, e dunque opera una definizione dei limiti della conoscenza, e in questo mostra una modernità sorprendente. Se da un lato l’imponderabile diviene in Tucidide una forza quasi soprannaturale, in grado di determinare i fatti umani al di là della nostra volontà, dall’altro però diventa l’ammissione dei propri limiti di studioso, dell’impossibilità di dare sempre una spiegazione, e anzi, il dovere di scartare tutte le ipotesi facili e consolatorie, come le profezie o l’idea che la peste sia stata portata apposta dagli spartani.

    Il fine di Tucidide, infatti, non è inserire l’evento all’interno di un ordine naturale, o trovare una spiegazione edificante, ma cercare di comprendere le concatenazioni tra gli eventi, i loro nessi: in questo caso, quale sia stato il ruolo della peste all’interno del conflitto, e quanto abbia pesato nella sconfitta ateniese, dato, anche, che ha portato alla morte di Pericle, il leader politico che ha plasmato Atene e la sua politica per più di trent’anni.

    Molto diverso è invece il punto di vista dell’altro autore che, alcuni secoli dopo, ci racconta lo stesso evento: Lucrezio, che conclude il suo De rerum natura (La natura delle cose) proprio con la descrizione della peste. Per molti versi le due descrizioni si somigliano: entrambi si attardano a raccontare gli effetti della peste sul corpo, in descrizioni tremende, estremamente dettagliate; entrambi parlano della paura e della disgregazione sociale che questa comporta. Ma in Lucrezio la peste prende delle vie più particolari e misteriose.

    Lucrezio infatti è un poeta, ma un poeta-filosofo. Un poeta che scrive della realtà per esporre la teoria di Epicuro, una dottrina di tipo materialistico, ma dalla spiccata valenza etica. Per Epicuro infatti il fine è il raggiungimento della serenità: la comprensione del mondo serve a trovare uno stato di pace, di armonia. Ci aspetteremmo dunque che Lucrezio ci descriva la realtà così come la vede Epicuro. E invece le cose sono leggermente diverse.

    Michelangelo, Giudizio Universale, l'Inferno, affresco della Cappella Sistina, Roma, 1508-1512
    Michelangelo, Giudizio Universale, l’Inferno, affresco della Cappella Sistina, Roma, 1508-1512

    Come è stato ampiamente osservato, le esigenze poetiche di Lucrezio sembrano contrastare con il suo essere filosofo; in particolare, se per Epicuro l’essere umano deve raggiungere uno stato di tranquillità e serenità dell’animo, Lucrezio in molti passi è tutt’altro che pacato e sereno. Questo è uno dei casi più emblematici: quando Lucrezio si sofferma sulle sofferenze, sull’orrore che genera la peste, lo fa con versi estremamente macabri, truculenti, anche più di Tucidide, arrivando ad abbandonare la terza persona per rivolgersi direttamente al lettore. 

    Molti corpi, consumati dalla sete lungo le strade e stramazzati
    vicino alle fontane, giacevano distesi per terra, con il respiro
    soffocato dal piacere eccessivo che aveva provocato il gesto di bere.
    E nei luoghi pubblici potevi vedere qua e là per la strada
    una grande quantità di corpi semivivi con le membra disfatte:
    morivano in mezzo agli stracci e in una sporcizia nauseante,
    morivano luridi e sulle ossa avevano soltanto un velo di pelle
    che ormai era quasi sepolta sotto il lerciume e le piaghe spaventose[tooltip tip=”Milo de Angelis, De Rerum Natura di Lucrezio, 2022, Mondadori, pp.505-507,  vv. 1263-1271″][3][/tooltip].

    A differenza di Tucidide, che rifugge dal dare spiegazioni metafisiche agli eventi, per Lucrezio la peste è soprattutto un simbolo: rappresenta l’instabilità del mondo, la sua sofferenza, e anche l’insensatezza dell’attaccarsi alle cose terrene, in quanto effimere. Al contrario, distaccarsi da esse porta l’uomo a una vera serenità: il piacere per Epicuro, infatti, non è godimento fine a se stesso, ma godimento delle cose nell’immediatezza, con quel distacco che ci permette di apprezzarle senza esserne schiavi.

    Lucrezio, tuttavia, mostrandoci le disgrazie del mondo, finisce – un po’ come è accaduto, mutatis mutandis, al Dante dell’Inferno – per esaltarle. In ogni punto in cui il nostro esprime la sua critica alla realtà, quasi a disprezzarla, si lancia in descrizioni così ricche di pathos che finiscono per farcela amare ancora di più, per interessarci ad essa. La poesia, in un certo senso, esonda rispetto la filosofia. 

    Peter Van Halen, La peste tra i filistei ad Ashdod, 1661, olio su tela, Wellcome Collection Museum, Londra
    Peter Van Halen, La peste tra i filistei ad Ashdod, 1661, olio su tela, Wellcome Collection Museum, Londra

    Eppure, non risulta tanto tremendo quanto Tucidide: 

    E il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; le parti interne ardevano a tal punto da non poter sopportare il rivestimento di vesti leggere o di lini, né altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda. E molte persone non curate facevano questo, gettandosi nei pozzi, prese da sete insaziabile; tuttavia il bere molto o poco dava lo stesso risultato[tooltip tip=”Tucidide, Storie, traduzione a cura di Franco Ferrari, 1985, Rizzoli, pp. 343″][4][/tooltip].

    Probabilmente perché Tucidide racconta qualcosa che ha visto con i suoi occhi, riesce con la sua prosa fredda e analitica ad andare addirittura oltre la poesia di Lucrezio. Tucidide non pretende di sconvolgere, di suscitare una reazione nel lettore, e questo lo rende più vero, più inquietante, perché immaginiamo quanto potrebbe dirci e non ci dice: il non-detto di Tucidide pesa molto di più di quanto ci viene detto in Lucrezio. 

    Forse è proprio l’assenza di spiegazioni allora che ci rende oggi più vicino alla nostra sensibilità lo storico greco: oggi, infatti, non abbiamo un sistema all’interno del quale incasellare le tensioni a cui siamo sottoposti ogni giorno. In Lucrezio la malattia e l’ansia per la morte sono descritte con tanta insistenza perché hanno un valore catartico: il lettore, attraversando l’opera, e quindi vivendo tutte le meraviglie, e tutto l’orrore nel mondo, si può emancipare da esso, e superarlo.

    In Tucidide, invece, la malattia colpisce senza alcun preavviso e, come molti altri eventi della vita, rimane senza giustificazione, senza una ragione, ed è per questo che ci fa ancora paura. 

     


    Leggi anche: il Covid di Atene e la fine della Storia

  • La peste nel medioevo: affrontare l’imponderabile

    La peste nel medioevo: affrontare l’imponderabile

    Circa millecinquecento anni dopo la celebre peste di Atene, un cronista di origini francesi dall’animo inquieto ci racconta la dissoluzione e la rovina del suo mondo, ormai destinato ad essere soppresso dai peccati dell’uomo. Il suo nome è Rodolfo il Glabro.

    Nei suoi Historiarum libri quinque, scritti intorno alla metà dell’XI secolo probabilmente all’Abbazia di Cluny, narra le vicende del popolo franco dal 900 al 1044, quindi descrivendo eventi a lui contemporanei che interpreta alla luce di aneddoti che vengono interpretati come segni premonitori.

    Nel nostro autore tutto diviene simbolo: calamità, carestie ed epidemie. Tutti questi eventi sono trasfigurati nell’ottica del cristiano: le eclissi sono mancanza di luce divina, indizi all’avvento delle tenebre infernali; le carestie e le malattie, punizioni propinate da Dio per redimere gli uomini dai peccati. Per questo Rodolfo il Glabro non è interessante in quanto storico, ma per capire come gli uomini del medioevo si rapportassero ad un evento come un’epidemia.

    Siamo infatti in un’epoca che si sente lontana dai fasti dell’impero carolingio e nello stesso tempo è percorsa da un afflato di rinnovamento. Lo stesso Rodolfo il Glabro ci racconta come proprio in quegli anni l’Europa inizia a rivestirsi di un candido manto di chiese e di come ci sia un rinnovamento nella società. Questo rinnovamento però viene interpretato dall’intellettualità dell’epoca in maniera contraddittoria: da un lato si ha la sensazione di una rinascenza, ma dall’altro ogni evento negativo mostra la paura di un’imminente fine dell’umanità e di una irrimediabile corruzione dell’uomo.

    Al contrario di quanto crederanno gli storici dell’Ottocento la credenza che la popolazione europea fosse terrorizzata per la fine del mondo nell’anno Mille è falsa, ma comunque quello era un mondo che credeva fortemente alle Scritture, e le Scritture, nell’Apocalisse ci dicono esattamente come sarebbe finito il mondo: l’intellettualità dell’epoca era quindi estremamente attenta ad ogni indizio che ne rivelasse l’avvento.

    Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo
    Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo

    Un esempio di questo lo possiamo vedere, qualche secolo dopo, con una delle figure più particolari e più affascinanti dell’epoca medievale e cioè Federico II, un sovrano talmente diverso dagli altri, indipendente e anticonformista che più di un intellettuale pensò che potesse davvero essere l’anticristo. Addirittura, quando nel 1250 morì, Fra Salimbene da Parma, una delle nostre maggiori fonti dell’epoca, confessò di esserci rimasto molto male: era così convinto che il mondo sarebbe finito che il fatto di essere stato smentito era peggio della fine del mondo stessa.

    Tuttavia la pestilenza più importante e anche conosciuta di epoca medievale è la peste nera che colpì l’Europa a metà del Trecento. La peste fu così ampia e generalizzata che morì un terzo della popolazione europea e per questo è considerata uno spartiacque nella storia medievale. Non solo perché fu un episodio catastrofico, ma anche perché in realtà portò a un rinnovamento della società europea come è stato evidenziato da alcuni anni. Ciò non toglie che fu un evento traumatico per la generazione che lo visse.

    Tuttavia in un autore come il Boccaccio vediamo una presa di distanza: a differenza di altri autori, soprattutto antichi, che hanno raccontato la peste con dovizia di particolari, ponendo l’accento sulla sofferenza, Boccaccio è più interessato alle relazioni, ai legami che la peste arriva a spezzare raccontando di come i padri abbandonino i figli e i figli  i padri e di come «alcuni erano di più crudel sentimento […] dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti»[tooltip tip=”Boccaccio, Decameron, Letteratura Italiana Einaudi, pagina 8. “][1][/tooltip].

    È ciò che in effetti fanno i protagonisti dell’opera di Boccaccio: si ritirano in una villa e raccontano storie, dimenticandosi e facendoci dimenticare della peste che colpisce Firenze. Nonostante Boccaccio condanni l’idea di fuggire dinanzi alle difficoltà, in realtà il fatto stesso che usi la peste come espediente letterario mostra un modo di pensare decisamente diverso rispetto agli intellettuali dei secoli precedenti: che la peste sia o meno una punizione divina importa meno; quello che è veramente importante è la capacità di sottrarsene.

    Boccaccio nella sua opera ci racconta una società medievale viva, ricca di aneddoti, anticipando un certo gusto favolistico che ritroveremo nelle corti cinquecentesche e nell’opera di Giambattista Basile. In questo non è diverso da un Fra Salimbene che pur essendo un religioso non ha paura di raccontare l’alto e il basso, il pudico e l’impudico, il sacrilego. La differenza però sta nel fatto che Boccaccio fa parlare i  personaggi e a parte che nella cornice rinuncia a dare la propria visione degli avvenimenti e soprattutto rinuncia a inquadrarli in una cornice ideologica, cosa che invece per Fra Salimbene è imprescindibile.

    L’umanità descritta da Boccaccio risulta più vicina a noi proprio perché tende a fuggire la morte, a dimenticarsene, mentre l’uomo medievale credente si muove in un immaginario molto più chiaro e definito rispetto al nostro. Per l’ideologia medievale cristiana la realtà è fortemente polarizzata: esiste il Bene ed esiste il Male, l’Aldilà e l’Al di qua. Queste coordinate permettono di affrontare l’imponderabile.

    Arnold Bocklin, La peste, 1898
    Arnold Bocklin, La peste, 1898

    Infatti per molti secoli, prima dello sviluppo delle città e dei commerci, aggrapparsi a un’idea di mondo così forte e definita era l’unico antidoto alla carestia, alle malattie. La stessa medicina medievale, che è stata la base per lo sviluppo della scienza moderna, era una medicina pratica, funzionale alla cura dei feriti di guerra, mentre invece la medicina araba, pur essendo in larga parte inefficace, ed erronea rispetto ai parametri odierni, tendeva a spiegare in maniera più onnicomprensiva le malattie e la morte.

    Ciò che permetteva dunque alla società medievale di sopravvivere e affrontare le calamità non era tanto legato alla conoscenza tecnica, quanto piuttosto alla capacità di infondere in larghi strati della società la convinzione di vivere in un mondo regolato, ordinato, in cui ognuno ha il proprio compito: una consapevolezza che non dobbiamo immaginare come incrollabile e non soggetta a oscillazioni, come si vede in Boccaccio, ma che, al contrario, in una società in rapida trasformazione come quella basso-medievale diviene più sfumata.

    Per certi versi la situazione odierna è quasi all’opposto: abbiamo conoscenze tecniche incomparabili anche solo a quelle di un secolo fa: lo abbiamo visto con a scorsa pandemia, in cui la medicina da uno stadio di pressoché totale impreparazione è riuscita in pochi mesi ad approntare cure e vaccini efficaci. Abbiamo anche una capacità sociale tale da permettere quarantene e chiusure su scala molto più vasta di quanto fosse immaginabile fino a quel momento. È mancato, però, un insieme di strutture ideologiche altrettanto forte, in grado di comprendere la morte all’interno del proprio orizzonte esistenziale, come avviene ai personaggi di Boccaccio.

    La malattia e la morte, infatti, non sono più viste come parte dell’esistenza, ma sono collocate al di fuori di essa. Il sogno dell’essere umano, in special modo occidentale, è vivere un’eterna primavera, senza sofferenze o ostacoli, e si scontra con una realtà del tutto differente, sia perché non tutti hanno accesso alle cure più recenti ed efficaci, sia perché queste sono comunque realtà ineludibili. La nostra realtà è dunque schizofrenicamente scissa tra il mondo ideale prospettatoci dal progresso tecnologico, e una realtà ben più dura e aspra. E questo finisce per porci in una situazione di ansia e paura costante.

    L’approccio prospettato dall’uomo medievale oggi suscita in noi un forte dissenso, se non rifiuto: sappiamo che le epidemie non sono una punizione divina, e che l’uomo non è inscritto in un disegno al quale non può sfuggire. Noi, però, non abbiamo un’altra visione della realtà altrettanto chiara e limpida di quella dell’uomo medievale. Per quanto cerchiamo di allontanare la malattia e la morte dalle nostre esistenze, queste restano un interrogativo, una presenza ingombrante con cui ancora dobbiamo misurarci.

     


    In copertina: Anonimo, Scuola inglese, La morte conduce il suo esercito, XIX secolo, olio su tela.

  • Non si sfugge alla macchina: Her di Spike Jonze

    Non si sfugge alla macchina: Her di Spike Jonze

    Le intelligenze artificiali stanno modificando la nostra vita. Se fino a qualche anno fa ne sentivamo soltanto parlare, adesso le utilizziamo tutti. Per questo rivedere quei film che ne hanno parlato fa un certo effetto. Il rapporto uomo-macchina è una delle costanti della fantascienza del Novecento: da Asimov a Philip K. Dick, da Metropolis di Lang ad Alien, alla serie degli anni Sessanta Ai confini della realtà sino ad arrivare a Terminator o a Blade Runner, per non parlare di manga e anime. 

    Tra questa enorme mole di film, libri e serie Tv, Her di Spike Jonze non si discosta molto, ma ci presenta una situazione leggermente diversa, che oggi risulta molto verosimile per la nostra quotidianità: ci presenta un’intelligenza artificiale incorporea, fatta solo di una voce che riempie le orecchie del protagonista. 

    Theodore Twombly, interpretato da un notevole Joaquin Phoenix, è un uomo solo ed introverso, un uomo che svolge una professione per noi inusuale: infatti è una sorta di ghostwriter di lettere d’amore, una professione che nell’universo del film è considerata normale e degna anche di un certo rispetto. 

    Il mondo che ci racconta Spike Jonze è infatti un futuro molto prossimo in cui gli esseri umani hanno sempre più difficoltà a interagire tra loro e anche il nostro Theodore, nonostante il suo lavoro, non fa eccezione; ama molto gli esseri umani, ama osservarli, immaginare e scrivere i loro sentimenti, però, nonostante questo, si sente profondamente solo. La sua è una realtà grigia, monocorde e totalmente proiettata verso il passato. Ma la situazione cambia con l’arrivo di Samantha.

    Her di Spike Jonze

    Samantha è un’intelligenza artificiale con una voce particolarmente suadente, capace di adattarsi alla realtà di Theodore, disposta ad ascoltarlo e a consigliarlo. L’androide, il robot, dunque, questa volta non ha un corpo: è un oggetto, un piccolo rettangolo grande più o meno come un cellulare; non ha a prima vista nulla di umano, se non questa voce che accompagna Theodore nelle sue giornate, e piano piano si affeziona a lui, e lui si affeziona a lei, arrivando ad innamorarsi.

    Sebbene questa sembri, e per molti versi sia, una situazione fantascientifica, esiste qualcosa di apparentemente simile anche nella realtà: è il cosiddetto “effetto Eliza”, dal nome di un’intelligenza artificiale sviluppata dal 1964 al ‘67 al MIT di Boston, e che da allora è uno dei principali chatbot in grado di simulare il linguaggio umano, al punto che nel 2021 ha battuto ChatGPT in uno studio sul test di Turing.

    Si incomincia a parlare di “effetto Eliza” a causa di alcuni fatti di cronaca degli ultimi anni, in cui sempre più persone hanno iniziato a comportarsi con i chatbot come se stessero parlando con persone davvero umane, arrivando ad esserne influenzati al punto da eseguire ordini, come nel caso di un ventunenne che nel 2021 ha aggredito la Regina Elisabetta, o anche a innamorarsi, come è capitato a un ingegnere del chatbot Replika, un’AI simile ad Eliza ma ancora più sofisticata nell’imitazione del linguaggio umano, e anche personalizzabile secondo i propri gusti. L’ultimo caso, e anche il più grave, è stato nel 2023 in Belgio, dove un uomo è arrivato addirittura al suicidio

    Certo, Her non è così inquietante. Le nostre intelligenze artificiali non sono in grado di comprendere o sentire qualcosa, semplicemente simulano il linguaggio, mentre Samantha è dotata di coscienza, e sa provare sentimenti anche profondi. La differenza sta infatti nelle sue capacità intuitive: mentre le AI nella realtà usano degli schemi analitici Samantha è progettata e pensata per imitare perfettamente il pensiero umano ed è dotata di un’intelligenza che va al di là del gioco combinatorio, e si dimostra dotata di una propria personalità, ben al di là delle aspettative. 

    A Spike Jonze, però, non interessa il rapporto uomo-macchina in sé, quanto raccontare le relazioni, il nostro modo di viverle. Il centro della storia è Theodore e il suo modo di rapportarsi agli altri e di vedere il mondo. Samantha non rappresenta in quasi nulla una vera AI. è una persona che impara piano piano com’è il mondo degli esseri umani e tutto ciò che vive lo vive per la prima volta. Lei stessa è stupita dei propri sentimenti: per lei quello è il primo amore, e anche per Theodore è una sorta di primo amore, perché è il primo con un’entità non corporea. 

    Lei Spike Jonze

    Infatti i due vivono una situazione tipica dei rapporti di coppia, in particolare dell’amore adolescenziale: l’idea che la coppia esaurisca tutto il mondo esistente e che tutto il mondo si rifletta in questo amore. Da adolescenti la persona amata rappresenta la totalità delle cose; è come se non esistesse nulla al di fuori. 

    Il nucleo della storia è proprio la messa in discussione della verità di questo rapporto. Se siamo in una realtà fantascientifica in cui queste cose accadono, Theodore è esposto al giudizio degli altri, e anche al suo stesso giudizio. Il tema del vero e del falso in amore è uno dei nodi centrali del film: esiste un amore vero? come si fa a capire se è vero? I nostri sentimenti sono giustificati per il solo fatto che li proviamo, o è necessario un riconoscimento sociale perché siano reali?

    La mancanza di un corpo per Samantha – e quindi di un modo per dimostrare la propria esistenza come persona umana – diventa sempre più centrale. La nostra società ha costruito un culto del corpo. Questo si riflette anche nel film: alcuni personaggi non hanno pregiudizi nei confronti dell’intelligenza artificiale, ma nello stesso tempo il dubbio aleggia e diventa sempre più pressante. «Non si sfugge alla macchina» diceva Gilles Deleuze, riferendosi alla macchina sociale, agli ingranaggi della società, e in effetti in Her vediamo proprio la duplicità tra la macchina fisica, l’AI, e la società umana, e ad entrambe non si può sfuggire. 

    Ma, nonostante questo, in Her non c’è mai la condanna dell’intelligenza artificiale, non stiamo vivendo una distopia e la presenza di rapporti tra umani e non umani è mostrata senza moralismi, facendoci capire che non è possibile sottrarci alle problematiche relazionali, neanche se parliamo di cose che noi stessi umani abbiamo progettato.

    E così Her rimane un film attualissimo, la storia di due menti che si parlano e provano a comprendersi, di due mondi, quello biologico e quello artificiale; ma  soprattutto la storia del grande problema dell’alterità. L’ultimo insegnamento di Samantha è proprio questo: non le cose non esistono se non in relazione tra loro, anche se questo può provocare dolori, abbandoni e incomprensioni.  

     


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  • Selva mobile: la foresta nell’immaginario europeo

    Selva mobile: la foresta nell’immaginario europeo

    Nell’immaginario europeo le grandi foreste continuano a vivere. Sono le foreste in cui ci imbattiamo nelle fiabe, quelle in cui possiamo ascoltare i canti dell’allegra brigata di Robin Hood o il canto degli elfi di Tolkien. Le foreste intricate suscitano un fascino ambivalente in noi: ci attirano, perché rappresentano l’ignoto, la possibilità di un’avventura da vivere; ma ci spaventano anche perché sono sede del mostruoso e del diverso, di una realtà tanto lontana da risultare ormai aliena.

    Questa idea di alieno e di mostruoso nasce solo a cavallo tra alto e basso Medioevo, quando il continente europeo inizia ad essere tappezzato da un candido manto di chiese e di città, per usare la metafora di un cronista medievale, Rodolfo il Glabro, che non può fare a meno di notare un fenomeno tanto esteso.

    Fino a quel momento, infatti, boschi e foreste erano parte della vita quotidiana delle persone. Nell’ambito della cultura, per esempio, le più antiche Chansons de geste, come quella di Orlando, non si soffermano sulla descrizione degli ambienti silvestri. Ciò avviene sia per il modo con cui sono trattati gli spazi all’interno di queste opere, mai descritti nel dettaglio, sia perché il bosco non era percepito come uno spazio alieno, ma come una realtà conosciuta, quotidiana, e su cui quindi non era necessario soffermarsi.

    Paolo Uccello, Caccia notturna,
    Paolo Uccello, Caccia notturna, olio su tela, 1470, Ashmolean Museum.

    Le Chansons de geste vengono composte in un’epoca in cui le città iniziano a popolarsi, vi sono più pellegrini, sempre più mercanti; le strade, i campi e i pascoli fanno posto a quelle che erano le foreste che coprivano l’Europa e che si erano estese da quando, dopo la caduta dell’impero romano, le città erano state abbandonate.

    Questi fenomeni fanno si che i boschi diventino uno spazio non più abitato dagli esseri umani e che dunque si sviluppi il concetto di foresta vero e proprio. La parola stessa foresta, che troviamo simile in gran parte dell’Europa, deriva dal latino foris, cioè “al di fuori”: è foresta tutto ciò che sta fuori dal raggio d’azione umano. Non è un caso che quando si parla, almeno in italiano, di persone straniere si parla appunto di forestieri.

    Questo fu un processo lungo e contraddittorio. Per esempio in Irlanda si conservò sino in età molto avanzata l’eredità del folklore celtico, che vedeva nella selva qualcosa di assolutamente altro, una porta verso un mondo metafisico, in cui vigono delle leggi diverse rispetto a quelle degli esseri umani. In questo caso il senso di estraneità dato dalla foresta non nasceva da una maggiore urbanizzazione ma al contrario da una familiarità con la natura e dalla contrapposizione tra campagna e foresta incolta. È quella che verrà definita la “soglia”, cioè il passaggio al mondo feerico, il mondo degli elfi, delle fate e dei folletti, che sarà fondamentale nel folklore europeo e per lo sviluppo della fiaba in età moderna.

    La foresta nell’immaginario medievale: Chrétien De Troyes

    Yvain combatte il drago, Miniatura da un manoscritto francese del Quattrocento
    Yvain combatte il drago, Miniatura da un manoscritto francese del Quattrocento

    Un autore che ben rappresenta il passaggio dalla concezione altomedievale a quella bassomedievale della foresta è il poeta francese Chrétien De Troyes, che scrive nei decenni centrali del XII secolo. Nei suoi romanzi cavallereschi la foresta inizia ad assumere il ruolo che avrà nei secoli successivi. Perceval, ad esempio, protagonista del suo ultimo romanzo, vagabonda in una foresta molto estesa, così come fa Yvain, che addirittura regredisce allo stato di selvaggio per tutta la prima parte del racconto.

    All’epoca di Chrétien De Troyes le corti diventano sempre più importanti, e con esse anche il pubblico, sempre più colto, che non si accontenta più dei racconti orali dei menestrelli. Chrétien riesce a trasformare in senso cortigiano la tradizione precedente delle Chansons de geste e in particolare della materia di Bretagna, cioè i racconti su re Artù e i cavalieri della tavola rotonda. Questi racconti sino a quel momento erano parte della tradizione letteraria anglosassone che tendeva a sovrapporre storia e invenzione.

    Per esempio l’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth era nelle sue intenzioni un’opera di cronaca storica. Chrétien reinterpreta e riscrive questa tradizione in senso puramente letterario, con l’obiettivo esplicito di farne un’opera di fantasia per un pubblico nuovo, sempre meno legato al mondo rurale e desideroso di mistero e magia.

    La foresta è il luogo ideale in cui collocare avventure magiche e costituisce un elemento centrale nella storia di Yvain. Questi nella prima parte del romanzo parte per vendicare il cugino, ucciso nella foresta di Brocelandia, in Bretagna: è proprio in questo luogo che smarrisce se stesso, spogliandosi dei suoi vestiti  e vivendo come un animale.

    Durante le sue avventure incontra alcuni personaggi che vivono ai margini della comunità e in particolare un eremita lo aiuta a ritrovare i costumi civili e ad uscire dalla foresta. È evidente come all’epoca vivere nei boschi o ai margini di essi significhi stare al di fuori della società e della civiltà: l’idea stessa di essere umano era legata all’urbanità, o al massimo alla ruralità, cioè alla natura addomesticata. Non è un caso che Yvain incontri un eremita, cioè qualcuno che ha fuggito il consesso umano, e che, anche etimologicamente, “selvaggio” derivi proprio da “selva”.

    Robin Hood e il Romanticismo

    Edmund George Warren, Robin Hood and his Merry Men, 1859, olio su tela
    Edmund George Warren, Robin Hood and his Merry Men, 1859, olio su tela

    Ai margini della foresta si collocavano  tutte le categorie marginali nella società: gli eremiti, i lebbrosi, i malati, e, infine, i briganti. Tra i briganti, il più famoso è di certo Robin Hood, che nel nostro immaginario contemporaneo è sinonimo di medioevo. Un medioevo però diverso rispetto a quello di Chrétien, perché concepito molti secoli dopo, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, durante il Romanticismo.

    Infatti, anche se la prima testimonianza scritta su Robin Hood risale 1377, con il poema Piers Plowman di William Langland, è solo grazie al Romanticismo che la figura di Robin Hood viene riscoperta e diviene ciò che conosciamo oggi. Nel 1765, infatti, il poeta inglese Thomas Percy pubblica una grande collezione di ballate e canzoni popolari, le Reliques of Ancient English Poetry, otto delle quali riguardano proprio la figura di Robin Hood, e che costituiscono un piccolo poema in cui il personaggio viene descritto sotto aspetti diversi, spesso molto più duri e diversi dal Robin Hood “buono” a cui siamo abituati.

    Tuttavia, si conosce poco riguardo la datazione di queste ballate e, anche se la loro autenticità non è mai stata messa in dubbio, e probabilmente risalgono nel XV secolo, è da ricordare come all’epoca la riscoperta del passato non fosse esente da riscritture e alterazioni ideologiche: è celebre il caso dei Canti di Ossian che venne fatto circolare dal suo autore come un antico poema.

    Questo significa che la figura di Robin Hood è molto più legata alla sua fortuna successiva e a scrittori come Walter Scott, che la riprenderà all’interno del suo Ivanhoe, che non al mondo medievale vero e proprio. Per esempio la foresta come viene descritta in queste ballate ha molto più a che fare con il concetto di locus amoenus che non di selva oscura e intricata:

    Quando i boschi sono pieni di luce, e l’erba è rigogliosa
    E il fogliame folto,
    è piacevole camminare nella bella foresta
    e ascoltare il canto degli uccelli.

    Il tordo selvatico cantava senza tregua,
    posato su un ramoscello,
    e il suo canto era così acuto che svegliò Robin Hood,
    che dormiva nella verde foresta[tooltip tip=”Robin Hood e Guy di Gisborne, in Antiche ballate inglesi e scozzesi a cura di Giovanna Silvani, Cappelli Editore, 1974, p.119, vv. 1 -8.”][1][/tooltip].

    Tutta la ballata è raccontata dal punto di vista di Robin Hood, e anche la visione della foresta è coerente con questo punto di vista; solo un brigante, solo un emarginato dalla società o un essere pericoloso per la società stessa poteva identificarsi completamente con la selva, cioè con il luogo del pericolo.

    La foresta nell’Europa rinascimentale e moderna

    John Bauer, Principessa nel bosco, 1912
    John Bauer, Principessa nel bosco, 1912

    Questo aspetto sarà centrale nella cultura orale dell’età moderna. È dopo la fine del medioevo, quando le grandi foreste europee iniziano a sparire, che la foresta diventa sempre più lo scenario ideale in cui collocare le avventure che leggiamo nelle fiabe.

    Spesso pensiamo infatti a questo genere letterario come a un prodotto del medioevo, ma in realtà l’immaginario fiabesco si sviluppa tra il Cinquecento e il Seicento e raggiunge il proprio apice con il Romanticismo; è l’ambientazione a essere medievale in quanto proprio in quell’epoca il medioevo iniziava ad assumere dei caratteri di mistero e di indefinito. Il medioevo sembrava essere il periodo ideale in cui raccontare delle storie senza tempo e in generale rappresentava l’idea di un’epoca in cui tutto poteva accadere: il magico e l’irrealistico, lo strano e l’inaspettato.

    Nella fiaba il bosco rappresenta la vita, con le sue prove e gli ostacoli che l’eroe deve affrontare. Il bosco è il luogo in cui le paure e i desideri assumono concretezza: Cappuccetto Rosso deve attraversare il bosco e incontra il lupo; Pollicino viene abbandonato dai suoi genitori e deve trovare il modo per tornare indietro; Hansel e Gretel, invece, trovatisi nella stessa situazione, scoprono la casa d marzapane della strega (che rappresenta appunto il desiderio) e la sconfiggono.

    Anche nella poesia colta del Rinascimento vediamo come il bosco abbia un ruolo fondamentale: nell’Ariosto è la sede delle ricerche e dell’incontro dei personaggi mentre nel Tasso diventa simbolo del diabolico, dell’inaccessibile, della prova che non può essere superata, della paura.

    Caspar David Friedrich, La sera, olio su tela, 1821, Landesmuseum Hannover
    Caspar David Friedrich, La sera, olio su tela, 1821, Landesmuseum Hannover

    Sorge non lunge a le cristiane tende
    tra solitarie valli alta foresta,
    foltissima di piante antiche, orrende,
    che spargon d’ogni intorno ombra funesta.
    Qui, ne l’ora che ‘l sol più chiaro splende,
    e luce incerta e scolorita e mesta,
    quale in nubilo ciel dubbia si vede
    se ‘l dì a la notte o s’ella a lui succede.

    Ma quando parte il sol, qui tosto adombra
    notte, nube, caligine ed orrore
    che rassembra infernal, che gli occhi ingombra
    di cecità, ch’empie di tema il core;
    né qui gregge od armenti a’ paschi, a l’ombra
    guida bifolco mai, guida pastore,
    né v’entra peregrin, se non smarrito,
    ma lunge passa e la dimostra a dito.

    Qui s’adunan le streghe, e il suo vago[tooltip tip=”Amante: si riferisce al Diavolo”][2][/tooltip]/
    con ciascuna di lor notturno viene;
    vien sopra i nembi e chi d’un fero drago,
    e chi forma d’un irco[tooltip tip=”Caprone”][3][/tooltip] informe tiene:
    concilio infame, che fallace imago
    suol allettar il desiato bene
    a celebrar con pompe immonde e sozze
    i profani conviti e le empie nozze[tooltip tip=”Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, Canto XIII, 2-4, a cura di Lanfranco Caretti, Mondadori, 1983, Milano, pp. 296 – 297.”][4][/tooltip].

    Con toni danteschi Tasso descrive la selva di Saron, il bosco più vicino all’accampamento dei crociati che stanno assediando Gerusalemme ormai da diversi anni. La selva è un tripudio di orrori che impediscono ai crociati l’accesso e la possibilità di approvvigionamento. Per la maggior parte dei crociati sarà una prova che non riusciranno a superare; solo Tancredi, uno dei protagonisti del poema, riuscirà ad addentrarvisi e a rompere l’incanto.

    La prima caratteristica su cui si concentra Tasso è la mancanza di luce della selva; gli alberi sono fitti e intricati e impediscono alla luce di accedere al di sotto delle loro chiome al punto da rendere difficile distinguere il giorno e la notte, l’alba e il tramonto.

    La selva inoltre si contrappone alle campagne circostanti, che rassicurano gli uomini con i loro spazi aperti e la possibilità di vedere anche a grande distanza; ciò che caratterizza la foresta come spazio altro, diverso e non umano è proprio il fatto che nessun pastore vi porterebbe le sue pecore e nemmeno un viandante o un pellegrino si arrischierebbe ad entrarvi. È così che la foresta diviene il terreno del soprannaturale e dunque, all’interno di una visione cristiana, del diabolico. Lo spazio oltre la soglia.

    Shakespeare e Tolkien: la foresta che si muove

    Alan Lee, Bosco Atro, 1997
    Alan Lee, Bosco Atro, 1997

    Lo spazio dedicato alle foreste nell’immaginario europeo degli ultimi secoli continua a crescere man mano che le stesse foreste europee vengono bruciate dalla prima rivoluzione industriale e dal progresso. Se nella finzione diventano l’ambiente ideale in cui collocare tutto ciò che vi è al di là della ragione, nella realtà sono sempre più piccole sino a diventare dei ricordi.

    Come la foresta è usata da Tasso per spaventare i cristiani, così anche Shakespeare la usa per suscitare emozioni nei suoi personaggi. L’idea di foresta in Shakespeare è strettamente legata all’immaginario norreno e ci viene presentata come un luogo abitato da streghe, da esseri fatati e che può essere fonte di meraviglia e anche di inquietudine.

    In particolare nel Macbeth la foresta è un vero e proprio strumento nelle mani dei nemici del re, che la usano per sfatare l’idea di invincibilità che il protagonista si era costruito. Quest’idea nasceva da una profezia che gli è stata fatta da parte di tre streghe secondo le quali Macbeth non sarebbe stato sconfitto sino a quando la foresta di Birnam non si fosse mossa fino a Dursinane. Ai nemici di Macbeth non rimane dunque che rendere vera la profezia nascondendosi tra gli alberi e fingendo che sia la foresta stessa a muoversi.

    STAFFETTA – S’abbatta su di me la vostra collera
    se non è vero: a tre miglia da qui
    lo potrete vedere da voi stesso
    Ho detto: una foresta che si muove.

    MACBETH – Se dici il falso, penzolerai vivo
    al più vicino tronco,
    finchè sarai seccato dalla fame.
    Ma se quello che riferisci è vero,
    non m’importa se fai lo stesso a me

    (Tra sé)

    Sento venirmi meno la fiducia,
    e mi s’affaccia il dubbi
    sull’equivoco profetar del diavolo
    che ti mentisce facendoti credere
    di dirti il vero: “Non devi temere
    fintanto che non vedrai avanzare
    la foresta di Birnam verso Dursinane…”
    Ed ora una foresta
    si muove veramente verso Dunsinane![tooltip tip=”William Shakespeare, Macbeth, traduzione e note di Goffredo Raboni, Atto V, Scena V”][5][/tooltip]

    David Farquharson, Birnam Wood, 1906
    David Farquharson, Birnam Wood, olio su tela. 1906, Tate Museum.

    Tolkien, come scrisse in una lettera al poeta W. H. Auden (in cui, peraltro, dichiarava di «disprezzare cordialmente Shakespeare») rimase particolarmente deluso dal fatto che nella tragedia la foresta non venisse rappresentata come un elemento realmente soprannaturale ma, al contrario, fosse usata come mero espediente narrativo: il muoversi della foresta è infatti un trucco.

    E così nel Signore degli Anelli Tolkien ci darà un’idea profondamente diversa della foresta, e in generale della natura. Per Tolkien le foreste sono ben più di un espediente, ma un relitto, un fossile di un’epoca perduta in cui gli umani avevano accesso al trascendente.

    Il Professore piange in più punti la scomparsa dell’enorme foresta che una volta ammantava le terre di cui scrive; una foresta rigogliosa e magica, in cui gli alberi si muovono e di cui, al tempo delle avventure della Compagnia dell’Anello, non rimangono che pochi frammenti. È così che Tolkien decide di personificarla, rendendola un popolo, gli Ent. Gli Ent sono i Pastori degli Alberi, creati per difendere le foreste da chi le minaccia con ascia e fuoco per alimentare le officine; essi più di tutti incarnano il passato della Terra di Mezzo, e la sua antica memoria.

    Nella visione di Tolkien dunque le foreste racchiudono ciò che c’è di più intimo e fondamentale della realtà: sono il regno del magico e del fantastico che il mondo  contemporaneo ha abbandonato. Rappresentano un popolo destinato a estinguersi, ma che pure è determinante per le sorti dell’universo e dell’umanità. E, questa volta, si muoveranno per davvero.

     

    Leggi anche: J.R.R. Tolkien, creatore di miti e di mondi.


    Per approfondire:
    J. Le Goff, Il corpo nel Medioevo, Laterza, 2005 
    J. R. R. Tolkien, Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, 2003
    Antiche ballate inglesi e scozzesi, a cura di Giovanna Silvani, Cappelli Editore, 1974
    Chrétien de Troyes, Yvain o il cavaliere del leone, Edizioni dell’Orso, 2011
    Cristina Sereno, La foresta nel Medioevo: temi e direzioni d’indagine (consultabile qui)

    In copertina: Hans Andersen Brendekilde, Luce nella foresta d’autunno, 1911, olio su tela.

  • Chanson de Roland: la geografia sentimentale dei Franchi

    Chanson de Roland: la geografia sentimentale dei Franchi

    Quando ho letto per la prima volta Ivanhoe di Walter Scott sono rimasto folgorato. Tra le pagine dell’autore scozzese ho respirato un’atmosfera da favola, fatta di cavalieri, di armi che cozzano su campi smaltati di verde, eroi che si perdono in immense foreste. Qualche anno dopo invece ho scoperto la Chanson de Roland, un poema epico risalente alla fine dell’XI secolo che mi ha suscitato la stessa sensazione di indefinito. Anche qui lo spazio era lo spazio del sogno; anzi, lo era ancora di più perché autentico: i prodi paladini di Carlo Magno lottavano in spazi immensi, indicati giusto con qualche dettaglio, perché era così che lo immaginavano gli uomini del medioevo.

    Il medioevo di Ivanhoe, quel medioevo da fiaba che tanto mi ha affascinato, non è un’invenzione dello scrittore scozzese: le sue origini affondano le proprie radici nell’immaginario medievale, cioè il modo con cui l’intellettualità dell’epoca si rappresentava. Per loro gli spazi erano simbolici, indefiniti: schiere di cavalieri, alberi che sbucano dal nulla, gli araldi e il clangore delle spade descrivono le scene in pochi tocchi, pochi attimi senza che però possiamo immaginarci un ambiente preciso. Il tempo è franto, non segue il suo corso naturale; le stesse scene si ripetono più volte, non rispettano la continuità a cui siamo abituati.

    È la battaglia prodigiosa e tremenda.
    Vi dan bei colpi Orlando ed Oliviero,
    e l’arcivescovo più di mille ne avventa,
    e certo i dodici Pari non perdon tempo,
    ed i Francesi colpiscon tutti insieme.
    A cento e a mille sono i pagani spenti,
    e chi non fugge, non ha chi lo protegga:
    vogliano o no, la vita tutti perdono.
    Lasciano i Franchi ogni miglior difesa:
    parenti e amici non potran rivedere,
    né Carlomagno che ai valichi li attende.
    In Francia scoppia una grande tempesta:
    un uragano c’è di tuono e di vento,
    di pioggia e grandine che senza fine scende:
    cadon le folgori ininterrottamente,
    c’è il  terremoto: questo accade davvero.

    La Chanson de Roland, a cura di Cesare Segre, pp. 247 – 249.

    Ciò che veramente affascina della Chanson è questo continuo rispecchiarsi tra la natura e l’essere umano, tra le condizioni atmosferiche e la disfatta dei franchi, che è anche la disfatta di Dio. Dal primo verso della lassa siamo immersi in una sequenza di attimi che immortalano prima il gesto del singolo eroe e poi subito dopo la furia degli elementi, in un continuum espressionista in cui le idee e i valori dei franchi si manifestano nella natura, con un’immediatezza tale da travolgerci.

    Miniatura raffigurante le gesta di Orlando in un manoscritto delle Grandi Cronache di Francia, XV secolo.
    Miniatura raffigurante le gesta di Orlando in un manoscritto delle Grandi Cronache di Francia, XV secolo.

    Una delle immagini che più ci travolge è quella di Durendala, l’iconica spada di Orlando, che nel corso delle lasse ci viene presentata come la più fida delle compagne con cui ha viaggiato per il mondo allora conosciuto:

    Ah! Durendala, come sei chiara e bianca!
    Quando risplendi contro il sole e divampi!
    Fu nelle valli di Moriana che a Carlo
    Iddio dal cielo per mezzo del suo angelo
    disse di darti a un conte capitano:
    e a me la cinse il re nobile e grande.
    Con te gli presi allora Angiò e la Bretagna,
    con te gli presi il Pittavo e la Mania,
    la Normandia, quale è terra franca;
    con te gli presi e la Scozia e l’Irlanda,
    e l’Inghilterra, che diceva sua stanza.

    La Chanson de Roland, a cura di Cesare Segre, pp. 335 – 337.

    In una manciata di versi attraversiamo gran parte del mondo allora conosciuto, dalla Germania all’Irlanda. La geografia che ci viene presentata è sia reale che ideale: i luoghi citati ovviamente esistono, ma non sono mai stati conquistati né da Carlo Magno né da Orlando. Come accadrà anche nella materia di Bretagna, all’autore della Chanson basta citare questi luoghi per sprigionare la loro potenza evocativa, per tracciare le coordinate di un immaginario che in quei secoli stava diventando sempre più solido.

    Il secolo XI si presenta come un crogiolo di movimenti politici e piccole rinascenze culturali durante il quale il passato carolingio viene riletto come un’epoca di ricchezza e splendore da usare come modello per la società che si stava andando a formare. Il nuovo ordine feudale, i signori dei monasteri, il commercio sempre più fiorente conducono a un maggiore circolo di informazioni, un rinnovato interesse culturale.

    Illustrazione di Simon Marmion dal manoscritto miniato delle Grandi Cronache di Francia, XV secolo, San Pietroburgo, Hermitage.
    Illustrazione di Simon Marmion dal manoscritto miniato delle Grandi Cronache di Francia, XV secolo, San Pietroburgo, Hermitage.

    Sono questi gli anni in cui prendono forma le storie degli eroi nei poemi epici e nei romanzi medievali: storie con protagonisti Sigfrido, Artù, Alessandro Magno e per l’appunto anche Orlando. Queste figure erano o figure storiche o figure leggendarie. Nel caso di Orlando ci troviamo di fronte ad una figura in gran parte leggendaria la cui realtà storica è testimoniata da poche, labili tracce. Infatti sappiamo che effettivamente Carlo Magno ebbe una sconfitta in Spagna, ma non fu dell’entità e della portata che viene raccontata nella Chanson de Roland.

    Stando alla Vita Karoli di Eginardo, nel 778 re Carlo attraversa i Pirenei per aiutare un principe arabo, Sulemain ibn Al-Arabì, nella contesa che lo opponeva ad altri emiri musulmani. Al rientro da tale spedizione l’esercito di re Carlo viene attaccato da un gruppo di montanari, probabilmente Baschi, al valico di Roncisvalle. Eginardo cita tra le vittime dell’esercito franco un certo Rolando, signore feudale preposto alla marca di Bretagna.

    Secoli dopo, nei poemi orali che venivano cantati dai giullari e dai cantastorie, le Chansons de Geste, quello che era un episodio marginale cresce sino a diventare una vera e propria guerra, alimentando così un mito, quello dei paladini di Francia. È interessante notare come anche qui ci siano degli elementi in comune col ciclo arturiano: il popolo dei britanni infatti storicamente ricopre un ruolo molto inferiore a quanto si racconta nella materia di Bretagna. È così che il racconto si carica di numerosi elementi simbolici: Carlo, che non è ancora quarantenne, diventa un vecchio dalla barba candida (evidente richiamo al Dio cristiano); la rotta di Roncisvalle da evento accidentale diviene il risultato di un tradimento; infine abbiamo la grande vittima, Orlando (altro richiamo evangelico).

    In pochi decenni il mito si diffonde in tutta l’Europa cristiana. Giullari, menestrelli e poeti viaggiano di borgo in borgo, di monastero in monastero seguendo le vie dei pellegrini e intrattenendoli con le proprie storie. Quella di Orlando è una di quelle che avrà più successo al punto da venire raccontata più volte nei secoli sino ad arrivare ad Ariosto che con L’Orlando Furioso chiude la stagione di grande fortuna del paladino di Francia.

    Miniatura medievale chanson de roland

    In modo non molto diverso da quanto avvenne nell’antica Grecia con i poemi omerici, anche in questo caso gli autori delle chanson de geste e la loro attribuzione è più mitica che reale. In questo caso vi è un unico manoscritto che cita un certo Turoldo come l’autore della Chanson de Roland. Turoldo, o chi per lui, è però solo la mano ordinatrice, colui che sistema il materiale e vi conferisce una forma perfettamente cristallina, semplice eppure fitta di rispondenze.

    In ogni caso, la diffusione fu rapida e massiccia: abbiamo decine di manoscritti in tutta Europa, dall’Italia alla Scandinavia e anche decine di traduzioni. Il successo fu insieme colto e popolare: ispirò grandi autori, ma si diffuse anche tra il popolo come dimostra il fatto che fioccarono vari nomi di battesimo come Orlando e Oliviero.

    La battaglia di Orlando sottolinea lo spirito di sacrificio di un guerriero che diventa in realtà un trionfo e di un riscatto della comunità che passa attraverso di lui; è così bella perché si nutre sì di propaganda, di quella propaganda che a noi moderni farebbe storcere il naso, ma la trasforma in qualcosa di più alto e profondo.

    Nella Chanson c’è l’epica intesa non soltanto come lotta o guerra di religione ma come capacità descrittiva di dipingere affreschi emotivi e grandiosi; quegli affreschi in cui gli spazi si rispecchiano nella figura dell’eroe e nella sua morte, delineando una geografia sentimentale, uno scenario favoloso che perde quasi tutti i suoi particolari fisici, in cui spicca il verde dei campi macchiato di rosso o l’albero a cui si appoggia l’eroe prima di spirare.

     

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    In copertina: Albrecht Dürer, Carlo Magno, 1511-13

  • Ivanhoe di Walter Scott: costruire il Medioevo

    Ivanhoe di Walter Scott: costruire il Medioevo

    Tra la tarda primavera e gli ultimi giorni del novembre del 1819 Sir Walter Scott scrisse di getto quello che sarebbe diventato uno dei romanzi di maggior successo del secolo decimonono: Ivanhoe.

    La prima edizione dell’opera, pubblicata allo scadere del medesimo anno, si presentava all’impaziente lettore in una veste lussuosa in tre volumi che ne accentuava il mistero: su una copertina marrone, infatti, senza alcun ghirigoro, era impresso il titolo, Ivanhoe e il sottotitolo “A Romance” a cui si aggiungeva la dicitura: By the author of Waverley.

    Non vi era alcun riferimento allo scrittore, nemmeno nelle prime pagine del volume in cui si poteva leggere un’introduzione scritta da un certo Laurence Templeton che sosteneva di avere scritto il libro ispirandosi ad un manoscritto anglo-normanno.

    Inganno letterario di stampo romantico che, nemmeno a dirlo, non ingannò nessuno.

    Le copie della prima edizione, 10.000, andarono a ruba in un batter d’occhio sino a costringere l’editore inglese a stamparne il doppio sin dai primi giorni dell’anno successivo, il 1820, a cui si aggiunsero le innumerevoli edizioni che vennero pubblicate negli Stati Uniti e in tutta Europa nei mesi successivi e a cui fecero seguito, negli anni e nei decenni a venire, adattamenti, plagi, seguiti, versioni ridotte, riduzioni teatrali, drammi musicali e infine le edizioni per ragazzi.

    Un successo enorme, senza precedenti, che fece guadagnare a Scott, oltre alle lauree honoris causa conferitegli da Oxford e Cambridge e un titolo nobiliare da parte di sua maestà Giorgio IV, anche una cifra da capogiro che, purtroppo, il nostro buon amico non seppe far fiorire a causa di una serie di investimenti tutt’altro che lungimiranti e che, anzi, dilapidò sino a ridursi all’indigenza appena pochi anni dopo quel colpaccio, condizione nella quale lasciò questo mondo nel 1832.

    Frank Schoonover, Illustrazione per Ivanhoe
    Frank E. Schoonover, illustrazione per Ivanhoe

    Un colpaccio non del tutto prevedibile ma che si spiega considerando più attentamente il contesto in cui il buon Scott concepì e poi scrisse il romanzo, anni in cui i secoli bui, che avevano suscitato tanti sbuffi e rimbrotti durante l’età dei Lumi, venivano rivalutati alla luce del clima romantico che si diffondeva non solo in Inghilterra ma in tutti gli stati (già sorti o prossimi venturi) del vecchio continente.

    Furono proprio quelli gli anni in cui i dieci secoli di storia che separavano la caduta dell’impero romano alla scoperta dell’America assunsero nell’immaginario collettivo una fisionomia che ci risulta ancora oggi familiare: cavalieri, castelli e foreste cosparse di rovine già ispiravano all’epoca i poeti nella stesura dei loro versi così come i pittori per la creazione di vedute melanconiche al chiaro di luna o, ancora, gli architetti per l’edificazione degli edifici neogotici, ma è l’opera di Scott che dette un apporto determinante nella costruzione di questo immaginario.

    Il futuro baronetto di sua maestà riuscì a scrivere un romanzo in cui la realtà storica dell’Inghilterra feudale, fatta di numerosi signori in perenne conflitto tra loro, di tornei in cui si affrontavano possenti cavalieri rivestiti di scintillante metallo policromo, coesistesse con la dimensione propria del meraviglioso, in cui le stesse figure e gli stessi luoghi assumono una forte carica simbolica e archetipica.

    Lo si vede sin dalle prime pagine: la prima scena di Ivanhoe, ad esempio, è ambientata in una foresta fitta fitta attraversata da angusti e accidentati sentieri e da un ruscello che diffonde nell’ambiente silvestre le deliziose note dell’acqua che placida scorre tra le querce frondose.

    Lo scrittore, fedele alla realtà storica di quei luoghi, descrive una foresta realmente esistita ammantandola però di quei dettagli che la rendono allo stesso tempo la foresta delle fiabe e delle leggende, un luogo dove si consumano gli incontri di tutti gli eroi della vicenda e dove si può essere prima vittime di un’imboscata e poi commensali di un lauto banchetto innaffiato di birra. È significativa la descrizione del Castello di Torquilstone, lo scenario dove è ambientata la seconda parte del romanzo. Dopo la descrizione del torneo di Ashby infatti, dove vengono presentati tutti i personaggi, l’azione si sposta all’interno di questo edificio in cui sono tenuti prigionieri parte dei protagonisti.

    La descrizione di questo maniero, tutto torri, cuspidi e pareti dal profilo aguzzo che svettano minacciose sull’ambiente circostante, richiama da vicino il romanzo gotico che Scott tanto amava. Nell’oscurità che si annida nei grandi saloni, interrotta dai colori iridescenti della luce che entra dalle vetrate, è del tutto possibile imbattersi nell’animo inquieto di una strega tormentata dai suoi peccati o scorgere nella semioscurità i resti putrescenti del precedente inquilino di una prigione sotterranea.

    N.C. Wyeth, Illustrazione per le Leggende di Carlomagno, 1950
    N.C. Wyeth, Illustrazione per le Leggende di Carlomagno, 1950

    Se lo spazio tratteggiato da Scott mescola realtà e immaginazione, cercando di mantenere una fedeltà storica ma richiamandosi al fantastico e al meraviglioso di tradizione romantica, lo stesso accade per i personaggi, che vengono rappresentati sia come figure archetipiche, sia come personaggi verosimili.

    Verosimili, ad esempio, sono il porcaro Gurth e il giullare Wamba, i primi personaggi che incontriamo e così anche il cavaliere che da il titolo al romanzo, quel Wilfrid d’Ivanhoe, giudicato non a torto un personaggio un po’ insipido da Victor Hugo. Ivanhoe non è il classico eroe romantico, ma un uomo comune che compare in un numero ridottissimo di scene, il fido consigliere di quel Riccardo Cuor di Leone protagonista, assieme a Robin Hood, di un numero piuttosto ampio di leggende.

    Queste e altre figure, come la bella ebrea Rebecca e suo padre Isaac, sono ben caratterizzati e le loro vicende talmente avvincenti da non riuscire a non appassionare il lettore che non può non fare a meno di immedesimarsi di volta in volta nel cavaliere diseredato che cerca di conciliarsi con il padre orgoglioso o nel servo alla ricerca della propria libertà o, ancora, nella giovane donna che non rinuncia alla propria religione, ai propri ideali anche a costo di patire numerose sofferenze.

    L’intreccio che nasce da queste avventure, simile a quello che anima l’Orlando Furioso dell’Ariosto, fatte di continui inseguimenti e di battaglie, è certamente però l’aspetto che mette in maggiore difficoltà il lettore di oggi: siamo così abituati a storie complesse, sottotrame, colpi di scena, anche da parte della narrativa d’intrattenimento, che gli espedienti usati da Scott ci appaiono abbastanza noiosi e scontati, purtroppo.

    È infatti impossibile non notare l’ingenuità che anima l’intero canovaccio e i numerosi errori presenti tra le pagine frutto di una prima stesura scritta rapidamente e poi non sistemata e che furono i primi elementi ad essere criticati nei decenni successivi alla pubblicazione del romanzo.

    Se infatti l’opera di Walter Scott godette di un successo clamoroso per tutto il XIX secolo e per i primi decenni del secolo successivo, fu d’altra parte osteggiata da numerosi critici che ne sottolinearono, di volta in volta, i difetti sino a spingersi, come nel caso di Joseph E. Duncan, che non riusciva a spiegarsi il successo del libro, a definire il romanzo storico dello scrittore scozzese «A romantic tale for boys».

    Nonostante questi giudizi Ivanhoe veniva ancora molto letto nei primi decenni del Novecento al punto da risultare il libro più richiesto nelle biblioteche inglesi negli anni Venti.

    Robert Scott Lauder, Illustrazione per Ivanhoe
    Robert Scott Lauder, Illustrazione per Ivanhoe

    Il fascino prodotto dall’immaginario creato da Scott ha continuato a fare presa sui lettori che si sono imbattuti nella sua opera anche nei decenni successivi quando, scrive Pastoureau, era molto difficile trovare un edizione integrale di Ivanhoe in Francia, condizione valida ancora oggi in Italia, dove gli scaffali delle librerie solo di rado accolgono il romanzo più famoso del baronetto di sua maestà Giorgio IV.

    Il romanzo, infatti, non gode di ottima fama: pochi lo riterrebbero un classico da leggere assolutamente, ed è ritenuto un romanzo noioso, raffazzonato, inutilmente lungo. Eppure, a una seconda lettura, questi giudizi risultano essere profondamente ingiusti, un po’ come quello di Duncan che relegava il romanzo di Scott alla letteratura per ragazzi.

    Ivanhoe è certamente un romanzo colmo di difetti, dall’intreccio inverosimile ai personaggi che di sicuro non meritano di essere inseriti in quella galleria di grandi figure che ci ha lasciato la letteratura inglese (o anche russa o francese o italiana) dell’Ottocento; Rebecca forse non merita di essere posta al fianco di Anna Karenina o di Elizabeth Bennet, ma è comunque un bel personaggio ammirato dallo stesso Victor Hugo.

    Ma la forza del libro di Scott non risiede negli elementi appena citati, bensì nella capacità di restituirci una realtà storica intrisa di meraviglioso, partecipe sia del realismo proprio del romanzo storico che dell’eccesso fantastico della fiaba.

    Con Ivanhoe lo scrittore scozzese è riuscito a creare un immaginario talmente solido da incantare ancora oggi il lettore che decide di abbandonarsi alla sua lettura, di creare un mondo da una parte inconsistente, come un sogno, dall’altra reale, più reale di quello descritto dalla letteratura scientifica contemporanea sull’argomento che, per inciso, pur avendo modificato in parecchi punti il Medioevo descritto da Scott, non lo ha mai messo fondamentalmente in discussione.

    Cos’è il Medioevo infatti?

    Dove si trova se non, anche, nelle pagine di un romanzo scritto duecento anni fa che ha segnato in modo indelebile l’immaginario legato a quei dieci secoli di Storia?

     

     

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    Per approfondire:

    Michel Pastoureau, Medioevo Simbolico, Editori Laterza, Roma Bari 2005, pp. 303 – 314; Walter Scott, Ivanhoe, Mondadori Editore, Milano 1994.

    In copertina: Edmund Blair Leighton, Buona fortuna!, 1900

  • Giuda dai capelli rossi

    Giuda dai capelli rossi

    Protagonista delle prossime righe è uno dei personaggi più conosciuti e rappresentati di sempre sebbene di lui si sappia davvero poco e nonostante la sua fama sia dovuta ad un fatto abominevole.

    Giuda Iscariota.

    L’uomo che vendette il Messia per trenta denari non viene mai descritto all’interno dei testi canonici e nemmeno nei più tardi vangeli apocrifi: di lui ci viene raccontato solo un gesto, il gesto che lo ha reso il principe dei traditori, l’essere più abietto a cui l’uomo medievale cristiano poteva pensare.

    Un uomo dai capelli rossi.

    Nel medioevo, infatti, il tradimento aveva in Occidente i suoi colori o, meglio, il suo colore, quello che si situa a metà strada tra il rosso e il giallo, lo stesso che partecipa dell’aspetto negativo dell’uno e dell’altro, un colore che noi non dobbiamo assimilare al nostro arancione, sconosciuto all’uomo medievale, ma piuttosto al fulvo, il colore dei demoni e della volpe.

    Un colore, inoltre, con cui le tradizioni medievali avevano preso l’abitudine di distinguere un nutrito gruppo di traditori sia di origini bibliche che letterarie come Caino, Dalila, Saul, Gano, Mordret e un po’ di gente di quella risma lì.

    Ma nei primi secoli dell’era cristiana Giuda non aveva ancora i capelli rossi: questi appaiono solo dalla seconda metà del IX secolo, dall’epoca di Carlo il Calvo, periodo a cui si fanno risalire le prime miniature in cui l’uomo di Cariot possiede una fluente capigliatura fulva.

    Giuda giotto
    Giotto, Cappella degli Scrovegni, Bacio di Giuda, 1304-1306

    Questa nuova iconografia nasce e si diffonde dapprima nei paesi del Reno e della Mosa e successivamente nel resto d’Europa. Oltre ad una chioma e spesso una barba ardente, Giuda possiede tutta una serie di attributi – alcuni di origine più antica – che gli consentono di essere immediatamente individuato nelle scene in cui è raffigurato come nelle innumerevoli rappresentazioni dell’Ultima Cena che riempiono manoscritti e pareti di edifici religiosi. Questi attributi, in epoca feudale, recuperano gran parte degli elementi dal bestiario di Satana popolato da bestie in antichità molto apprezzate come il cinghiale o l’orso ma in quei secoli condannate dalla Chiesa. Di conseguenza Giuda può essere di piccola statura e villoso come i due animali appena citati, può avere le zanne e gli artigli come un leopardo o, ancora, delle labbra nere, segno del bacio del tradimento.

    Ma i segni distintivi che ne determinano l’aspetto non si limitano alla raffigurazione del corpo. Anche il suo guardaroba e la sua mimica sono fortemente stereotipate: la tunica gialla, la gestualità disordinata o furtiva non fanno altro che renderlo perfettamente riconoscibile anche al contadino delle langhe che non ha mai prestato molta attenzione al vangelo o agli affreschi che riempivano gli edifici sacri.

    Tutta questa serie di attributi è cambiata di secolo in secolo ma anche di mano in mano: ogni artista, infatti, è stato libero di scegliere quelli che si accordavano con le sue preoccupazioni iconografiche o con i suoi intendimenti simbolici. L’unica eccezione, però, è costituita proprio dal colore della sua folta chioma che diviene canonico dal XIII secolo ed è già molto diffuso nei secoli precedenti.

    Ma come mai, tra tutti i colori, si scelse proprio il rosso? Come mai per l’uomo medievale era questo il colore dell’inganno e del tradimento?

    Come avviene per altri fenomeni culturali, anche per la scelta della capigliatura del principe dei traditori l’Europa medievale ha elaborato questo sistema simbolico partendo da una triplice eredità culturale: biblica, greco-romana e germanica. Nella Bibbia, ad esempio, se né Caino né Giuda hanno i capelli rossi, altri personaggi li hanno e, con una sola eccezione, per un motivo o per un altro sono personaggi negativi.

    Giuda
    Leonardo Da Vinci, Ultima cena, particolare di Giuda, 1494-1498

    Il più famoso è Esaù, il fratello gemello di Giacobbe, di cui il testo del Genesi ci dice che era sin dalla nascita «rosso tutto e peloso come un orso[tooltip tip=”Gn 25, 25″][1][/tooltip]». Rozzo e irruente, il figlio di Isacco non esita a vendere al fratello il suo diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e, malgrado il pentimento, si ritrova escluso dalla benedizione paterna e messianica e costretto ad abbandonare la Terra Promessa.

    Dopo di lui ci sono Saul, primo re d’Israele, Davide e Caifa mentre l’unica eccezione è costituita da Davide, che il libro di Samuele descrive come «rosso, con occhi bellissimi, bello d’aspetto[tooltip tip=”Sam 16, 12.”][2][/tooltip]». Nel suo caso, però, si tratta di una trasgressione di una scala di valori come se ne incontrano in tutti i sistemi simbolici: affinché il sistema funzioni efficacemente, infatti, è necessaria un’eccezione che ne confermi le regole.

    Davide è quest’eccezione e, in quanto tale, annuncia Gesù che, nell’iconografia cristiana a partire dal XII secolo, rappresenta talvolta il Figlio di Dio con i capelli rossi proprio come Giuda, in particolare nella scena dell’arresto e del bacio. Una scelta, questa, che sottolinea l’osmosi che, attraverso il bacio del tradimento, si opera tra la vittima e il carnefice e che possiamo ammirare in diversi affreschi come quello attribuito a Cimabue all’interno della Basilica Superiore di Assisi.

    Anche nella tradizione greco-romana la capigliatura rossiccia era considerata negativamente: Tifone, figlio della Terra e nemico di Zeus è di pelo rosso mentre nel teatro romano le capigliature rossastre attaccate alle maschere indicavano gli schiavi o i buffoni.

    Nel secondo caso i rossi sono ridicolizzati e considerati abietti mentre nel primo sono ritenuti particolarmente violenti, un po’ come avviene nel mondo germanico-scandinavo dove il dio più violento e temuto del Valhalla, Thor, è fulvo di pelo così come lo è pure Loki, demone del fuoco, genio distruttore e malvagio, padre dei mostri più orribili.

    L’immaginario dei germani quindi, come quello dei Celti, non differisce in nulla, riguardo la capigliatura rossa, da quello degli antichi Ebrei, dei Greci e dei Romani. Il medioevo cristiano dunque non poteva che rafforzare e prolungare tali tradizioni. Tuttavia, l’originalità dell’immaginario medievale riguardo la capigliatura rossa si può riconoscere nella progressiva specializzazione con cui usa questo attributo, trasformando il rosso nel colore della menzogna e del tradimento.

    Cimabue bacio giuda
    Cimabue, Bacio di Giuda, Basilica Superiore di Assisi

    Questo non vuol dire che, come nell’antichità, l’uomo rosso non continui ad essere percepito come crudele, sanguinario, brutto e così via ma che nel corso del tempo si tratta di giudicare gli uomini e le donne dai capelli rossi soprattutto come persone false, astute, mentitrici, sleali e rinnegate.

    Tutti questi attributi sono confermati, come avveniva all’interno della Bibbia, anche nella Storia dove esiste qualche eccezione con l’unico scopo di confermare un sistema di valori generalizzato come questo: si tratta di Federico Barbarossa che regnò sul Sacro Romano Impero dal 1152 al 1190 e che, a dire il vero, era comunque ritenuto dalla Chiesa l’Anticristo. Eppure, nonostante ciò, questo re divenne, dopo la sua morte, un personaggio da leggenda escatologica, una leggenda che lo vuole, al momento, addormentato tra i monti della Turingia in attesa, un domani, di ricondurre la Germania a nuova gloria.

    Non rimane da chiedersi, a questo punto però, come mai, in tutte queste culture, il rosso è considerato così negativamente.

    Probabilmente il rigetto del rossiccio è d’ordine culturale: in tutte le società infatti, comprese le società celtiche e scandinave, il rosso è innanzitutto quello che non è come gli altri, quello diverso, quello che appartiene ad una minoranza e che dunque disturba, inquieta e scandalizza.

    Considerando tutto ciò, dunque, l’uomo che si è macchiato della colpa più grande all’interno del libro più letto nella storia dell’umanità non poteva non essere fulvo di chioma e di pelo, non poteva non essere reso riconoscibile da tutti quegli attributi che la Chiesa e le culture antiche giudicavano tanto negativi, quali la villosità e la gestualità nervosa.

    Non poteva, in fin dei conti, non essere pure mancino.

     


    Per approfondire:
    M. Pastoureau, Medioevo Simbolico, Laterza Roma Bari, 2005, pp. 178 – 190.

    In copertina: Carl Heinrich Bloch, L’ultima cena, 1876

  • L’antichissimo culto dell’orso: il primo Dio?

    L’antichissimo culto dell’orso: il primo Dio?

    Storie di animali nel Medioevo – VIII

    La Chiesa lottò per circa un millennio contro l’orso e contro i culti che le diverse popolazioni barbare e non gli tributavano. La venerazione per questo animale era così diffusa e, probabilmente, aveva radici tanto antiche che la Chiesa si vide costretta ad usare ogni arma per combattere il re della foresta, dal sostituire le feste a lui dedicate con le celebrazioni dei santi o, ancora, a porre sul trono degli animali il ben più innocuo leone.

    Ogni cultura, di fatti, ad un certo punto della sua storia elegge un re degli animali facendone il protagonista del suo bestiario simbolico. Malgrado l’estrema diversità delle società si può comunque notare che tale scelta, in origine, segue quasi sempre gli stessi criteri: l’elezione dell’animale è in sostanza dovuta alla sua reputazione di invincibilità.

    Ora, nella vecchia Europa coperta da foreste, l’orso era un animale molto diffuso: la sua presenza, temuta e ammirata, gli permise di conservare il trono per diversi secoli (se non millenni). Nessun’altra bestia, infatti, trasmetteva una forza pari a quella del plantigrado capace addirittura di vincere lotte contro avversari temibili come il cinghiale.

    Germani, Celti, Slavi, Balti e Lapponi l’hanno considerato un animale diverso dagli altri, ponendolo a capo del loro bestiario simbolico. Per i primi, inoltre, non era solo il re degli animali ma era addirittura un animale totemico.

    Per i giovani Germani, ad esempio, sconfiggere un orso rappresentava un rito di passaggio obbligato per accedere al mondo degli adulti mentre per gli Slavi il guerriero poteva diventare un orso non solo combattendolo o mangiandone la carne ma anche vestendosi della sua pelle.

    Nicholas Roerich, Gli anziani si vestono di pelli d'orso, 1944
    Nicholas Roerich, Gli anziani si vestono di pelli d’orso, 1944

    In ogni caso questi riti erano invisi alla Chiesa non solo perché pagani e barbari ma soprattutto perché incitavano i giovani ad essere violenti e a comportarsi non secondo le regole e i valori predicati dagli uomini di chiesa ma secondo pulsioni ataviche difficili da controllare.

    Oltre che nei rituali descritti dagli autori romani come quelli appena menzionati, il culto degli orsi ha lasciato traccia anche nei miti e nelle leggende: molte dinastie dei popoli del nord, infatti, fanno risalire la propria origine all’accoppiamento o di una donna con un orso o viceversa. Nell’Alto medioevo far parte di queste stirpi significava, per il singolo uomo, avere nel sangue un po’ della forza e del coraggio della bestia più ammirata dagli uomini. Tutti questi attributi ne facevano un capo perfetto da seguire, un re a cui affidarsi senza alcun timore.

    Oltre che nei miti e nelle leggende dei popoli del nord, l’orso compare in molti miti greci, in particolare quelli legati alla dea della caccia, Artemide. In questo caso l’orso non è una divinità o un re ma un attributo della divinità e, ancor più spesso, non si parla di rapporti tra orsi e uomini quanto della metamorfosi dei secondi nei primi.

    Uno di questi miti, ad esempio, riguarda Callisto, figlia di Licaone, re d’Arcadia, fanciulla di straordinaria bellezza che preferiva cacciare insieme ad Artemide e alle sue compagne piuttosto che concedersi agli uomini. Come la dea che serviva, Callisto aveva fatto voto di castità. Un giorno però Zeus la vide e se ne innamorò e per avvicinarla assunse l’espetto di Artemide e la possedette. La giovane rimase incinta e, quando arrivò il momento in cui non riuscì più a nascondere la gravidanza rimase vittima della furia della dea che la trasformò in orsa.

    Callisto partorì Arcade che sarebbe poi divenuto re d’Arcadia mentre lei vagava nei boschi della stessa regione. Un giorno, mentre cacciava, il figlio incontrò la madre e tentò di ucciderla. Allora Zeus, provando pietà per entrambi, trasformò Arcade in un orsacchiotto e fece ascendere entrambi al cielo dove madre e figlio divennero due costellazioni: l’Orsa Maggiore e l’orsa Minore.

    Henri Rousseau, Nudo e orso, 1901
    Henri Rousseau, Nudo e orso, 1901

    Un altro tema abbastanza diffuso è quello del cucciolo d’uomo allevato da una bestia come nel caso di Paride che, abbandonato in un bosco nei pressi di Troia, venne trovato e accudito da un’orsa. I miti affondano le proprie radici, molto probabilmente, in culti e credenze ancora più antiche sulle quali è difficile avere certezze ma su cui allo stesso tempo è possibile elaborare un ventaglio di ipotesi partendo sia dall’analisi dei miti stessi che dai graffiti e dalle incisioni conservate in molte grotte del vecchio continente e scoperte durante i secoli scorsi.

    Tra queste, per quanto riguarda il culto dedicato all’orso, ce n’è una di particolare importanza: la grotta di Chauvet, scoperta nel 1994 a Vallon-Pont-d’Arc, nell’Ardèche, suscitando molto scalpore. Nel ricco bestiario dipinto e inciso al suo interno si contano circa 350 o 400 animali, molti dei quali fiere pericolose (leoni, pantere, orsi, rinoceronti). Le datazioni effettuate al carbonio 14 propongono una forchetta di date fra i 32. 410 e i 30. 240 anni fa, ossia più di 15.000 anni prima dei bestiari di Lascaux e di Altamira.

    È un bestiario vario, ricco di specie, nel quale l’orso compare ben 12 volte, in rappresentazioni notevoli per le grandi dimensioni, il tratto fermo, il colore rosso o nero. Queste raffigurazioni sembrano essere una risposta alle molte tracce lasciate dagli orsi che hanno vissuto in questa stessa grotta: tracce di artigli, di peli e di sfregamenti, impronte di zampe sulle pareti e sul suolo, tracce di tane e giacigli impressi nella creta a cui si sommano i resti di molte ossa e una collezione di almeno 150 crani. La disposizione di quest’ultimi, a cui si sommano le diverse rappresentazioni sulle pareti, sembrano rendere l’orso un animale degno di venerazione o, quanto meno, un animale con il quale l’uomo viveva, in un dato momento, un rapporto simbolico esclusivo.

    Il problema maggiore, per questo come per altri siti preistorici, è però quando collocare le incisioni e i dipinti parietali che vi si trovano all’interno così come i depositi di ossa che testimoniano quasi certamente l’intervento dell’uomo ma che non spiegano la ragione e la funzione.

    Culto dell'orso: orso dipinto nella grotta di Chauvet
    Orso dipinto nella grotta di Chauvet

    Nel caso di Chauvet, ad esempio, si può parlare di un santuario? Chi sono gli uomini che hanno decorato la grotta? Si tratta degli uomini di Cro-Magnon o di popolazioni più recenti?

    E, a monte, è possibile credere ad un culto dell’orso da parte degli uomini preistorici? A queste domande non si può rispondere con certezza perché non ci sono abbastanza dati; di certo, sin da epoche molto lontane, l’uomo ha vissuto un rapporto esclusivo con l’orso: condividevano gli stessi spazi, temevano gli stessi animali e, probabilmente, si rifugiavano entrambi nelle caverne. Ammirato per la sua forza, l’orso affascinava l’uomo preistorico e tale fascino sembra riconoscersi in culti e tradizioni molto più recenti, risalenti sia all’epoca antica che ai secoli medievali.

    Oggi, invece, l’orso è destinato ad essere solo il re dei giocattoli dal momento che i pochi esemplari rimasti in natura stanno morendo tutti. Ormai da secoli, inoltre, non è più sul trono degli animali e i culti e i miti a lui dedicati sono a stento ricordati da un gruppo sempre più ristretto di persone.

    Io e Luigi siamo a casa. Abbiamo parlato per diverse ore dei culti ursini e adesso, di fronte ad una calda tazza di the fumante, stiamo organizzando il prossimo viaggio in Francia nella speranza di poter far conoscere a quanta più gente possibile la storia di un animale che è stato sempre molto importante per l’uomo, sin dalla preistoria. Un animale che noi, adesso, come gran parte delle specie animali, stiamo facendo scomparire per sempre.

  • Un brutale seduttore: il sesso e l’orso nel Medioevo

    Un brutale seduttore: il sesso e l’orso nel Medioevo

    Storie di animali nel medioevo – VII

    Qual è l’animale più simile all’uomo?

    Le risposte a questa domanda sono cambiate nel corso dei secoli anche se in Europa, almeno in epoca storica, soltanto tre animali sono stati considerati come legati all’uomo da vincoli di somiglianza, prossimità o parentela: l’orso, il maiale e la scimmia.

    Per Aristotele e Plinio la più vicina all’uomo è la scimmia. Nel Medioevo però questa somiglianza viene rifiutata, soprattutto da un punto di vista teologico, perché si riteneva la scimmia una bestia diabolica, oltre che vile e brutta. Il caso del maiale è più ambiguo: la somiglianza tra questo e l’uomo era stata riconosciuta dalla medicina greca e poi confermata dalla medicina araba secoli dopo. Inoltre, dal momento che la Chiesa aveva proibito la dissezione del corpo umano nelle scuole di medicina, i giovani aspiranti medici non potevano far altro che esercitarsi sulle scrofe o sui verri. Tuttavia, anche se i medici ritenevano che il maiale fosse anatomicamente più simile all’uomo, non lo ammettevano apertamente, lasciando che i chierici sostenessero che fosse l’orso, il re della foresta che stavano combattendo da secoli.

    In effetti, a prima vista, nessun altro animale presenta un aspetto più nettamente antropomorfo. Anche se più massiccio, l’orso possiede la stessa statura dell’orso, può stare in piedi anche se per poco tempo e, inoltre, privato del pelo, il suo corpo è identico a quello dell’uomo. A ciò si aggiunge anche la dieta onnivora dell’orso e la varietà di colori del suo mantello, paragonabile alle diverse sfumature che possono avere le barbe e i capelli degli uomini: nero, bruno, fulvo, rosso, biondo, grigio.

    I bestiari medievali hanno sviluppato un’idea del tutto singolare, e oltretutto non riscontrabile in natura, ma solo in un passo dell’VIII libro della Storia Naturale di Plinio il Vecchio: l’idea secondo cui, a differenza degli altri quadrupedi, l’orso si accoppiasse con l’orsa more hominum, cioè guardandola in faccia.

    orso miniatura medievale
    Per la mentalità comune il fatto che gli orsi si accoppiassero come gli uomini era ritenuto un prodigio, una peculiarità che allontanava la fiera dal mondo animale e lo avvicinava a quello degli uomini. Per i chierici, però, questi amplessi avevano qualcosa di inquietante se non addirittura di mostruoso. Certe pratiche sembravano contrarie all’ordine voluto da Dio e non potevano che essere conseguenza di una natura viziosa e causa di gravissimi peccati, soprattutto la lussuria, che infatti sarebbe sempre stata associata all’orso nel sistema scolastico dei sette peccati capitali.

    Gli autori che si occuparono della questione presero di mira soprattutto l’orsa, la quale, per il piacere di copulare, partoriva i suoi cuccioli prima del tempo così da potersi concedere nuovamente all’orso. Ciò, sempre secondo questi autori, causava spesso molti danni ai cuccioli che nascevano informi e senza pelo se non addirittura morti. Pentita, l’orsa leccava i suoi cuccioli per dar loro la vita e li teneva al proprio fianco per diversi mesi per proteggerli dai predatori. Sebbene Sant’Ambrogio leggesse questo comportamento come un simbolo del battesimo per i cristiani, un simbolo del ravvedimento e della contrizione, l’immagine di cattiva madre licenziosa fu quella che si impose ed ebbe maggior credito nel corso degli ultimi secoli del Medioevo.

    L’orso maschio, dal canto suo, costituiva per molti autori non solo l’immagine della collera incontrollabile ma anche quella del desiderio brutale, un desiderio di possesso spesso rivolto alle donne, per cui nutriva una passione smodata, un’ossessione.

    Talvolta innamorato o seduttore, più spesso rapitore o violentatore, l’orso si impadroniva delle malcapitate, le portava nella sua caverna e intratteneva con loro un mostruoso commercio carnale che qualche volta dava origine a creature metà uomo e metà orso.

    La mitologia greca conosceva questi ratti di giovani fanciulle da parte di orsi, ma non ne parlava. La mitologia celtica risultava invece più esplicita, dal momento che spesso presentava storie di orsi violentatori e dei misfatti compiuti dai giovani mostri nati da quest’unione contro natura.

    orso miniatura medievale

    Malgrado il vigile filtro del cristianesimo, queste storie hanno lasciato tracce relativamente numerose sino ad epoca feudale, soprattutto nelle saghe e nelle epopee o nei romanzi cavallereschi.

    Un esempio molto interessante è un romanzo arturiano in versi composto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo: È questo il nome del giovane nobile che, pur non conoscendo il padre, giunge alla corte di re Artù per diventare uno dei cavalieri della Tavola Rotonda. L’eccessivo interesse dimostratogli dalla regina Ginevra suscita la gelosia di Artù che rifiuta di armarlo cavaliere finché non avrà compiuto qualche impresa.

    Un giorno, mentre si trova nella camera delle dame, in compagnia della regina, ecco che appare un orso enorme, un orso fuggito dal serraglio reale. A mani nude, il giovane Yder combatte contro la bestia: è una lotta violentissima, lunga e dall’esito incerto, dalla quale però il giovane riesce ad uscire vincitore.

    Questo episodio costituisce il centro del romanzo e contiene diversi motivi e temi tratti da tradizioni molto più antiche. La lotta di Yder contro la bestia rappresenta un rito di passaggio, l’impresa obbligata per diventare cavaliere. Ciò che però più ci interessa, in questo caso, è il comportamento dell’orso del re. Questo di fatti non fugge nella foresta una volta che è riuscito a scappare dalla propria gabbia ma preferisce inerpicarsi su una torre e raggiungere le donne della corte. In sostanza preferisce assecondare il suo desiderio carnale piuttosto che riconquistare la tanto agognata libertà.

    Nella letteratura cortese di quegli anni, e soprattutto nel ciclo bretone, si può riconoscere una trama sotterranea composta da continui riferimenti ad una mitologia più antica che aveva l’orso come protagonista e che venne poi soffocata quando il plantigrado venne sostituito come re delle bestie dal leone.

    Da quel momento l’orso perse sempre maggior terreno e da procace amante di fanciulle venne ridotto a misero e goffo accompagnatore di giullari e pagliacci, come nel Roman de Renart.


    Per approfondire:
    M. Pastoureau, L’orso. Storia di un re decaduto, Einaudi, Torino 2008, pp. 68 – 86.