Parigi, 1699. Al centro di una pubblica piazza innaffiata dalle lacrime di amici, parenti e ammiratori viene impiccato Henry Desmarest, giovane compositore tra i più promettenti della sua generazione. A raccomandarne l’anima a Dio restano, come solerti angeli custodi, i capolavori di cui sin dall’età di vent’anni ha reso adorna la Chapelle Royale di Luigi XIV. Quanti altri ne avrebbe composti, se fosse vissuto più a lungo? Beh, una volta tanto possiamo chiederlo direttamente a lui, dato che Henry Desmarest morirà anche a Lunéville, in Lorena, nel 1741 alla rispettabile età di ottant’anni.
Vi vedo confusi. Ma non vi preoccupate, perché siamo qui per questo.
Henry Desmarest, l’unico e inimitabile, nasce a Parigi nel 1661. I suoi genitori hanno poco a che fare con la musica, ma hanno la lungimiranza di spedirlo a impararne i rudimenti in qualità di page chanteur presso la cappella della corte reale. Lì il ragazzino ha la fortuna di formarsi sotto l’ala protettrice di due autentiche leggende: i due maestri Pierre Robert e Henry Du Mont. Oltre a pascersi dello stile severo e rigoroso delle loro composizioni, Desmarest ha anche la fortuna di essere chiamato in teatro a cantare insieme agli altri paggetti nelle grandi scene corali delle tragédies lyriques di Jean-Baptiste Lully, il compositore del re.
Lully era in quegli anni all’apice della sua potenza e prepotenza: con la sua arte quest’intrigante fiorentino aveva stregato le orecchie del regno intero, e con una serie di abilissime – se non proprio sempre pulite – manovre si era imposto come unico arbiter elegantiarum della musica francese.
Desmarest ebbe più d’un’occasione per imbeversi fino al midollo dello stile del Maestro, e per imparare ben presto a far tesoro anche in chiesa di quanto appreso in teatro. In quegli anni, per non chiudersi nessuna strada, si fece anche venire l’idea di un viaggio di studio in Italia, ma un’esplicita richiesta in tal senso incontrò un oppositore d’eccezione: Lully, che odiava la musica italiana almeno quanto il suono del suo vero nome[1], non voleva che il più dotato dei suoi paggi andasse a imbastardire con un gusto straniero la purezza di un’ispirazione tutta francese di cui stava già cominciando a dar prova.
Quest’ispirazione, Desmarest trovò finalmente occasione di metterla in mostra nel 1683. In quell’anno il re avviò un generale rinnovamento della Chapelle e, dopo aver congedato con tutti gli onori gli anziani Du Mont e Robert, fece bandire un concorso per i quattro posti disponibili di maestro di cappella.
Con tutto l’ardore dei suoi 22 anni Desmarest si lanciò nell’impresa, ma proprio i suoi 22 anni gli chiusero le porte che la sua musica avrebbe anche potuto aprirgli: giudicato troppo giovane per ricoprire un così prestigioso incarico, il nostro dovette cedere il passo a due grandi nomi, Pascal Collasse e Michel-Richard Delalande, e a due piccoli, Minoret e Goupillet[2]. Desmarest masticò amaro, non sapendo che l’occasione della sua riscossa era già pronta dietro l’angolo.
L’abate Goupillet, fresco di nomina, sembrò accorgersi tutto d’un botto di non essere in grado di comporre musica degna di quella dei suoi colleghi[3]. La prospettiva di rinunciare all’incarico ammettendo coram populo la propria inadeguatezza gli riuscì comprensibilmente sgradevole, quindi decise di giocare sporchissimo: in gran segreto propose al giovane Henry di comporre musica da far eseguire spacciandola per propria, in cambio di un lauto compenso. Desmarest non fece salti di gioia, ma fattisi due conti in tasca decise di accettare. Cominciò così per lui il lungo “periodo d’anonimato”, durante il quale continuerà a rifornire l’astuto presule di mottetti d’una qualità ch’egli poteva sognarsi, beandosi in segreto degli applausi con cui verranno sempre, immancabilmente salutati. I patti erano chiari, ma sebbene Desmarest fosse votato al silenzio, ogni tanto la scomodità della sua posizione si faceva evidente. Come quella volta che…
Trovandosi un giorno Desmarest alla Cappella del re per assistere all’esecuzione di un mottetto che aveva segretamente passato all’abate Goupillet, accadde che un certo signore, che si piccava d’essere un fine conoscitore di musica e voleva dare al re una dimostrazione di questa sua qualità, gli dicesse: «Dammi con discrezione un tocco col piede nei passaggi più belli, così che possa applaudire al momento giusto.» Il giovane musicista, che – come si è detto – aveva in realtà composto il mottetto, provvide al primo colpo d’archetto della Sinfonia iniziale a pestare con gran forza col suo il piede del signore, senza muoverlo di lì per tutta la durata del brano. […]
(Evrard Titon du Tillet, “Supplément au Parnasse François”, p.755 – pubblicato senza indicazione di data né di editore in supplemento al volume “Le Parnasse François” del 1732.)
Per sfogare la propria frustrazione in modi meno dannosi per i piedi dell’alta borghesia, Desmarest si rivolse ben presto al teatro. La morte di Lully, nel 1687, aveva finalmente lasciato i compositori francesi liberi di tentare la strada di un palcoscenico, quello dell’Académie Royale de Musique, che prima era stato da lui totalmente monopolizzato[4]. Memore di quanto appreso sotto la guida del fiorentino, Desmarest tentò nel 1693 di ricalcarne le orme con una Didon ch’ebbe un pieno e meritato successo. Da un bel libretto, firmato da Louise Gillot de Saintonge, Desmarest seppe trarre un capolavoro, dimostrando la propria intelligenza musicale e drammaturgica sin nella cura dei minimi dettagli. Agli occhi di chi era abituato all’altissima qualità delle opere di Lully, la carica drammatica di pagine come questa non dovette passare inosservata.
Gli anni successivi si mostrarono gravidi di novità per il giovane Henry. Nello stesso 1693, dopo dieci anni di onorata millanteria, il non-più-tanto-astuto Goupillet interruppe per ragioni a noi ignote il corso dei pagamenti, provocando un’immediata reazione da parte di Desmarest. L’inganno fu finalmente svelato, e Goupillet allontanato in perpetuo dalla corte. Il compositore, a questo punto, sperava che alla sua musica fosse accordato il riconoscimento che per tutto quel tempo era andata mendicando sotto falso nome, ma il re gli assestò una mazzata sul capo affidando a un altro dei maestri, Delalande, le mansioni ch’erano state di Goupillet. Amareggiato da questa e da altre delusioni in campo teatrale [5], Desmarest non era però ancora giunto al colmo delle sue miserie.
Per arrivarci avrebbe dovuto attendere il 1696, anno in cui 1) gli morì la moglie, ma soprattutto 2) pensò di colmare il vuoto da lei lasciato nella sua vita con la persona sbagliata. Il trentacinquenne Henry s’innamorò infatti d’una sua giovane allieva che, pur ricambiandolo con sincerità, era figlia di Jacques de Saint-Gobert, notabile della città di Senlis che certo non avrebbe apprezzato un musicista squattrinato come futuro genero. Pronti al peggio, i due colombi tentarono il tutto per tutto con una fuga a Bruxelles che, però, si rivelò su tutti i fronti un’idea disastrosa: giudicato in contumacia colpevole di rapimento, Desmarest venne condannato all’impiccagione. Come risolvere il piccolo problema della sua assenza? Semplice. Con una bella esecuzione in effigie che, nel 1699, vide venir appeso per il collo un fantoccio con le fattezze di Desmarest su una piazza di Parigi finché morte non fosse sopraggiunta. (Si fa per dire, ovviamente).
Lontano dalla patria, con l’unico conforto della presenza dell’amata compagna, Desmarest era simbolicamente morto: ora tutti i suoi sforzi erano tesi a cercare di non diventarlo anche fisicamente. Determinante fu in tal senso l’appoggio di un amico compositore, Jean-Baptiste Matho, che, formatosi come Henry alla Chapelle Royale, era ora alle dipendenze del duca di Borgogna. Matho mosse mari e monti per cercare di organizzare il ritorno in patria dell’amico e collega, ma tutto quel che poté ottenere, in mancanza di meglio, fu una lettera di raccomandazione del duca per il re Filippo V di Spagna: fu dunque armato di questo solo pezzo di carta che Desmarest, nel 1701, si recò a baciare il piede al monarca spagnolo. Resterà in Spagna per sei anni, entrando in contatto con i più grandi compositori che ai tempi la penisola iberica poteva vantare[6] e, last but not least, impalmando finalmente la bella mademoiselle de Saint-Gobert.
Le acque si mossero nuovamente quando, nel 1707, Matho riuscì ad ottenere per l’amico un’altra posizione di prestigio: quella di Sovrintendente della Musica presso la corte del duca di Lorena. Desmarest si tuffò a pesce anche in quest’altra avventura, o perché, come prudentemente suggerito dal biografo “l’aria del paese, contraria alla salute di sua moglie, lo costrinse a lasciare la Spagna”[7], o perché, come più prosaicamente sospettato dagli studiosi, i sistematici tagli operati al suo stipendio da parte del re l’avevano quasi ridotto all’indigenza. Alla corte di Lorena il compositore trovò un patrono che l’adorava e che nel corso degli anni fece approntare diverse copie in partitura delle sue più belle pagine di musica sacra. Per raggiungere una piena felicità, ora a Desmarest non mancava che la facoltà di tornare entro i confini del regno di Francia senza rischiare che la sua genialissima testa gli fosse spiccata dal busto dal primo macellaio di passaggio.
Fu in quegli anni lorenesi che Desmarest poté dare libero sfogo a una vena creativa che, già fertile prima del suo esilio, s’era arricchita di nuove meraviglie grazie al contatto con i musicisti spagnoli. A questo periodo risalgono alcuni dei suoi più celebri ed applauditi grands motets[8], quelli sui quali ancora oggi riposa in massima parte la sua meritatissima fama.
Partigiano, nelle melodie, del più puro gusto francese di scuola lullista, Desmarest si dimostrò debitore delle influenze straniere soprattutto nell’attenzione al contrappunto di vecchia scuola e nell’incomparabile maestria nell’utilizzo dello stile fugato: le fughe dei mottetti di Desmarest, per ampiezza e sapienza di costruzione, conoscono ben pochi rivali in tutta la storia della musica francese. A queste competenze si aggiunga anche uno spiccato gusto per il modo minore e per l’espressione di una spiritualità più austera e raccolta rispetto a quella, più teatrale, solitamente preferita dai suoi contemporanei. È a questi anni lorenesi, per esempio, che dobbiamo il più sincero e straziante grido di dolore di un’anima al suo Creatore mai dipinto in musica nella Francia barocca.
In quel grido c’era tutto Desmarest: la sua arte, la sua ispirazione e il suo dolore per un immeritato esilio che ormai durava da più di un decennio. A consolarlo, oltre alle soddisfazioni in campo professionale, restavano solo l’amore della sposa e la sollecitudine degli amici, tra i quali il più fedele continuava a dimostrarsi il buon Jean-Baptiste Matho. Forte della protezione accordatagli dal duca di Tolosa, Matho continuava a cercare di ottenere per il collega una piena riabilitazione agli occhi della giustizia. Si racconta, a questo proposito, un commovente episodio, che dimostra tutta l’ammirazione di cui Desmarest continuò a godere nelle alte sfere anche nei momenti più bui.
Mentre Luigi XIV si trovava in visita presso il duca di Tolosa, Matho approfittò della presenza del monarca per far eseguire, durante la messa, alcune vecchie composizioni di Desmarest risalenti all’epoca del suo apprendistato presso la Chapelle Royale. La scena si ripeté ogni giorno per un’intera settimana durante la quale, in mezzo allo stupore generale, Luigi XIV mostrò sempre di ricordarsi sia dei mottetti che del loro compositore. Erano vent’anni che il re non ascoltava quelle note, e ancora si dimostrava in grado di riconoscerle. Incoraggiati dall’elogio che Luigi fece di Desmarest in quell’occasione, tutti i nobili raccolti intorno a lui pensarono bene di approfittarne per supplicarlo: che facesse finalmente tornare in Francia quel pover’uomo capace di sfornare simili meraviglie. Il re sospirò profondamente, e a malincuore “rispose che nessuno ci perdeva più di lui, ma che aveva giurato di non concedere mai una grazia per il crimine di cui [Desmarest] era stato accusato”. E rifiutò.
Desmarest potrà tornare in Francia solo nel 1722: sarà il reggente Filippo d’Orléans a concedergli quella grazia che Luigi XIV, contro il suo stesso interesse di affezionato melomane, continuò ostinatamente a rifiutargli. Del suo più lungo e più desolante esilio invece, quello che per oltre due secoli l’ha visto escludere dalla lista dei Grandi della Storia della musica, solo oggi si comincia, per fortuna, a intravvedere la fine.