Quando scrivi per un quotidiano sotto dittatura militare e la tua cifra stilistica è pregna di beffarda ironia, sai che corri dei rischi. Ne era consapevole e l’avrebbe provato sulla propria pelle, Osvaldo Soriano. Per gli amici “El Gordo”, per via del fisico corpulento, per molti il giornalista e lo scrittore argentino che ha delineato più di tutti l’essenza dell’argentinità: spaccata nelle contraddizioni tra peronisti e antiperonisti, perforata dalla dittatura militare di Jorge Videla.
Oltre vent’anni dopo la sua morte, però, Soriano non può essere solo ricordato come uno degli scrittori sudamericani più popolari. Nei romanzi di successo e negli articoli pubblicati sui quotidiani di tutto il mondo, ha dato voce ai perdenti della terra senza compatirli. Ha reinterpretato il genere picaresco, quello di Don Chisciotte della Mancha di Miguel de Cervantes, trasportandolo nella liquida società moderna.
Lo ha fatto attraverso la forma espressiva più sfuggente che l’uomo possiede: la comicità. Ha quindi raccontato le gioie e gli sparuti sprazzi di felicità che nascono dai momenti minimi, per molte persone inutili, della nostra quotidianità; ha dato dignità alle sconfitte di tutti i giorni, quelle piccole e quelle grandi, insegnandoci ad accettarle per quello che sono: un tassello della nostra vita.
È il 1973 quando Osvaldo Soriano, trentenne e già firma del quotidiano generalista La Opinión di Buenos Aires, pubblica con la casa editrice Ediciones Corregidor il suo primo romanzo, Triste, solitario y final (come la battuta conclusiva del Lungo addio di Chandler). I protagonisti sono Osvaldo Soriano stesso, un giornalista argentino di trent’anni sul viale della perdizione, che si reca a Las Vegas dove incontra il cinico detective privato Philip Marlowe che di solito abita le pagine dei romanzi hard boiled di Raymond Chandler. Il loro obiettivo è comune: scoprire perché Stan Laurel, il celebre attore comico del duo Stanlio e Ollio, sia caduto in disgrazia prima della morte.
Il libro presenta molte tematiche ricorrenti nella poetica di Soriano come il nomadismo fortemente autobiografico e i protagonisti eroicomici che si imbattono in fatti rocamboleschi. Anche lo stile è già preciso e rintracciabile nei futuri romanzi: è umoristico e nostalgico come un film muto in bianco e nero; è fulmineo e tagliente come un montaggio cinematografico. Non a caso, alcune sue opere furono trasportate sul grande schermo. Emergono, quindi, i suoi modelli: Arlt, Borges, Chandler, Cortázar, Greene, Matheson, Simenon, gli italiani Arpino e Salgari (molto popolare in Sudamerica).
Il romanzo d’esordio riscuote un discreto successo in patria e viene tradotto in molti paesi neolatini. In Italia giunge grazie alla Vallecchi, casa editrice toscana che, tuttavia, non ne valorizza il potenziale. Il 19 novembre del 1974, infatti, su La Stampa Giovanni Arpino scrive: «È da giugno che il libro si trova (o dovrebbe trovarsi) negli scaffali degli “economici”. Ma non ho letto un rigo su questa storia eccezionale, veloce come un fumetto, esilarante, virilistica e amara». E prosegue: «È un racconto perfetto: con ogni snodo necessario al “thriller”, con sbornie e astuzie, disincanto e ferocia. Se mai ho invidiato un libro, eccolo (naturalmente dopo Cuore di cane di Bulgakov)».
Quando Soriano scopre la recensione di Arpino rimane piacevolmente esterrefatto dalle parole di chi considera un maestro: tra i due nascerà una fraterna amicizia, soprattutto epistolare, ricostruita nel prezioso libro di Massimo Novelli, Bracconieri di storie[1]. La prima lettera risale al 1977 quando lo scrittore argentino si trova in esilio a Bruxelles.
Soriano, infatti, aveva appena iniziato un lungo autoesilio che durerà fino al 1983, dividendosi tra Bruxelles e Parigi. La decisione avvenne dopo il golpe nel 1976, quando in Argentina si instaurò il governo militare di Jorge Videla che mise al bando molte persone di cultura. Il giornale La Opinión in cui scriveva Soriano, fondato nel 1971 e ispirato al francese Le Monde, venne ad esempio sequestrato nel 1977 e terminò le pubblicazioni nel 1981. Il direttore Jacobo Timerman fu catturato e torturato per oltre due anni, mentre molti intellettuali (soprattutto studentesse e studenti) furono rapiti dalle famiglie e ammazzati in quella che la Storia ricorderà come la “Strage dei desaparecidos”.
Osvaldo Soriano divenne un simbolo degli esiliati argentini. Un ruolo che ha esercitato senza pretenziosità e autocompiacimenti, sia nei romanzi di successo sia negli articoli intrisi di quel brillante black humor che lo hanno contraddistinto. In Spagna venne ospitato da El País, in Francia da Le Monde e dal settimanale satirico Le Canard enchaîné, in Italia da il manifesto, un quotidiano piccolo per la sua fama, ma che l’argentino ha amato per il fervore.
Soriano scriveva di tutto: politica, arte, vita quotidiana ma soprattutto cinema e calcio, le sue più grandi passioni. Quando nel 1978, in Argentina, si disputano i cosiddetti “Mondiali della vergogna”, Soriano scrive ad Arpino: «Per un fanatico del calcio quale sono io, il mondiale mi ha molto intristito. Che bello sarebbe stato poterlo festeggiare in altre condizioni». In una lettera successiva afferma:
La crescente ondata di “nazionalismo”, amplificata dai mezzi di diffusione e con i conseguenti paralleli “mussoliniani”, è il problema più grande che noi dovremo affrontare in futuro. Purtroppo c’è gente in esilio che pensa che, dietro questa barriera di silenzio, “il popolo è in lotta”. Forse. Ci sono scioperi e sabotaggi continui, ma la situazione è nera, nera, da troppo tempo. Mi è difficile abituarmi all’idea dell’impossibilità di far ritorno. Tanto più che i miei personaggi (e lo vedrai nel mio secondo romanzo) sono sempre più “legati” alla loro realtà contingente, alla loro tragedia quotidiana.
Nel 1979, dunque, Soriano pubblica Mai più pene né oblio; nel 1981 Quartieri d’inverno, uno dei suoi testi più apprezzati dalla critica. Questi due romanzi sono quelli più esplicitamente politici e richiamano la violenta Argentina di quegli anni attraverso una visione metaforizzata, ironica e paradossale della vita. In Italia intanto, grazie anche ad Arpino, la casa editrice Einaudi acquista i diritti dei suoi libri ripubblicando Triste, solitario y final, ormai un vero e proprio bestseller. Italo Calvino, anima storica della casa editrice torinese, definì il suo stile così: «Humour nero, azioni fulminee, dialoghi serrati e scoppiettanti, uno stile secco e rapido, come quello di un Hemingway eroicomico».
Nel 1983 Soriano può tornare in Argentina e nel 1987, a Buenos Aires, dà vita insieme ad altri giornalisti a “Página/12”. In un’intervista a la Repubblica, rilasciata il 28 agosto 1994 a Paolo D’Agostini, parla così del suo foglio:
Si differenzia dagli altri nel suo stile ma soprattutto perché ha annunciato dalla sua uscita che se un giorno ci dovesse essere un altro golpe militare noi ci impegniamo a chiudere pur di non doverlo annunciare. È un giornale molto caotico e mordace, che si oppone furiosamente al governo pseudoliberale di Carlos Menem.
Parlando di se stesso aggiunge:
Io scrivo un paio di volte al mese: racconti, commenti di politica e di calcio, quello che mi viene in mente, ma quasi mai vado in redazione. Mi piace troppo dormire, giocare con mio figlio, vedere le partite. La letteratura, il cinema e il calcio sono le mie passioni, tutti lo sanno.
Come testimonia il documentarista Eduardo Montes Bradley, Soriano amava chiacchierare al telefono con gli amici sparsi nel mondo. Lo faceva nel cuore della notte con lunghe chiacchierate, spesso monologhi colmi di aneddoti esilaranti, più o meno veritieri, di vita privata.
Nell’ultimo periodo, soprattutto, ridusse le uscite pubbliche al minimo. Ha di fatto vissuto gli ultimi dieci anni della propria vita di fronte a una macchina da scrivere. Con le sigarette, che gli causarono il cancro, e i gatti, animali in cui si identificava: «Sono solo un soriano, un gatto solitario che scrive racconti malinconici». Fu forse un modo per porre fine a quel nomadismo che gli apparteneva dall’infanzia quando viaggiò per l’Argentina con la madre Arcelis a seguito del padre Alberto, ispettore catalano di Obras Sanitarias (azienda incaricata del servizio di acqua potabile in Argentina).
Era come se tutta la sua vita fosse stata una ricerca ed era giunto il tempo di documentarla: nacquero Artisti, pazzi e criminali, La resa del leone, Ribelli, sognatori e fuggitivi, Un’ombra ben presto sarai, L’occhio della patria, Pensare con i piedi, L’ora senz’ombra, Pirati, fantasmi e dinosauri. E poi una favola per ragazzi con protagonista il suo gatto nero di Parigi, quindi Fútbol (postumo) in cui vengono raccolti alcuni racconti (tra le centinaia) di un calcio potrero, genuino, giovanile, magico e nostalgico.
Da ex peronista a non-etichettabile uomo di sinistra, Soriano è stato un intellettuale del popolo, per il popolo: senza rinunciare alle sue posizioni ideologiche, ha tratteggiato l’anima ferita di un’intera generazione di argentini. Le ha dato voce con personaggi improbabili e fatti ancora più assurdi.
Nei suoi romanzi ha trattato la guerra delle Malvinas (o Falkland), la dittatura militare, la strage dei desaparecidos, le contraddizioni del nuovo peronismo: lo ha fatto con la leggerezza di Calvino. Ha oltrepassato il recinto dell’argentinità. Ci ha insegnato che fare gol in un campo sperduto ha lo stesso valore del gol in uno stadio monumentale.
Ci ha mostrato che anche di fronte alle sconfitte, nella tombola della vita, ogni uomo può difendere la propria dignità. Senza mai rinunciare al gusto per la risata, seppur struggente, ha raccontato come in ogni situazione si possa godere di piccoli momenti felici che oggi, più che mai, dobbiamo saper valorizzare: la doccia fresca, il caffè fumante, una buona zuppa, la battuta di un film, il risveglio vicino a una persona amata anche solo per una notte. Il gol della propria squadra del cuore.
Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche: Il frutto amaro delle Lezioni Americane